L'ansia di “Mamma America” in Egitto

Paola Peduzzi

I soldati egiziani ieri all’alba hanno aperto il fuoco contro i sostenitori della Fratellanza musulmana del presidente deposto, Mohammed Morsi, che pregavano davanti alla caserma di Nasr City dove si pensa che Morsi sia “custodito” dalla Guardia repubblicana. Ci sono stati almeno 51 morti e quattrocento feriti, e i giornalisti occidentali inviati al Cairo raccontano di cecchini appostati che hanno continuato a sparare anche contro quelli che stavano scappando. Mentre il Web si riempiva delle immagini della strage, l’esercito ha detto di aver reagito a un attacco “terroristico” durante il quale erano stati presi in ostaggio due soldati, ma le testimonianze dall’ospedale di Nasr City, vicino al luogo della strage, erano più o meno identiche: stavamo pregando, disarmati, e le guardie hanno iniziato a spararci addosso.

    I soldati egiziani ieri all’alba hanno aperto il fuoco contro i sostenitori della Fratellanza musulmana del presidente deposto, Mohammed Morsi, che pregavano davanti alla caserma di Nasr City dove si pensa che Morsi sia “custodito” dalla Guardia repubblicana. Ci sono stati almeno 51 morti e quattrocento feriti, e i giornalisti occidentali inviati al Cairo raccontano di cecchini appostati che hanno continuato a sparare anche contro quelli che stavano scappando. Mentre il Web si riempiva delle immagini della strage, con pozze di sangue ovunque e persone ferite alla testa, al collo, alle spalle – colpi sparati per ammazzare – l’esercito ha detto di aver reagito a un attacco “terroristico” durante il quale erano stati presi in ostaggio due soldati, ma le testimonianze dall’ospedale di Nasr City, vicino al luogo della strage, erano più o meno identiche: stavamo pregando, disarmati, e le guardie hanno iniziato a spararci addosso. Nello scontro sarebbero morti anche due poliziotti e, secondo alcuni, uno dei cadaveri è stato trasportato per la strada “ormai senza testa”.

    Mohammed ElBaradei, che da giorni è dato come possibile premier o vicepremier ad interim – ma la sua candidatura non trova mai un consenso trasversale –, ha scritto un tweet chiedendo un’inchiesta indipendente che chiarisca la vicenda, proprio mentre l’esercito ordinava la chiusura della sede centrale del partito Libertà e giustizia, legato ai Fratelli musulmani, in seguito al ritrovamento di “liquidi infiammabili, coltelli e armi”. “La transizione pacifica è l’unica strada”, ha puntualizzato il grande diplomatico delle cause perse ElBaradei, ma al momento pare difficile che l’esercito possa trovare una via di dialogo con la Fratellanza e con gli altri interlocutori, compresi i salafiti di al Nour che, ora fortissimi, possono permettersi il lusso di “sospendere fino a data da destinarsi” la propria partecipazione alle trattative per la formazione di un governo mentre i Fratelli musulmani chiamano a una grande manifestazione islamica contro la durezza dei militari.

    La transizione pacifica è resa ancora più difficile dalla mancanza di una strategia da parte della comunità internazionale, da parte di Barack Obama soprattutto, il presidente dell’America che in Egitto è chiamata spesso semplicemente “Mother” (il tasso di sarcasmo dell’espressione è facilmente intuibile). A Washington continua a prevalere la linea “non si tratta di un golpe”, come ha riaffermato domenica l’ambasciatore egiziano negli Stati Uniti, Mohamed Tawfik, e non potrebbe essere diversamente perché a nessuno conviene riconoscere che gli eventi dell’ultima settimana sono il risultato del fallimento della strategia americana in Egitto (come è noto, la “Mother” mantiene il paese con finanziamenti militari annuali pari ora a circa 1,5 miliardi di dollari). Ma gli ultimi articoli firmati da David Kirkpatrick, capo dell’ufficio al Cairo del New York Times e lettura imprescindibile per capire i fatti egiziani, hanno gettato una nuova luce sugli sforzi “inutili” di Washington per evitare che lo scontro tra esercito e Fratellanza – che ha vinto le elezioni con il 52 per cento dei voti: Morsi è il primo leader democraticamente eletto nel paese – toccasse questo picco di violenza. Kirpatrick ha raccolto le dichiarazioni di alcuni esponenti dei Fratelli musulmani contattati da alcuni diplomatici americani perché accettassero di rientrare nel dialogo politico dopo la deposizione di Morsi. “Ci stanno chiedendo di legittimare il golpe”, dice uno di loro, mentre dall’ambasciata americana al Cairo, guidata da Anne Patterson, nessuno ha voluto commentare. Il dipartimento di stato americano non ha commentato un altro dispaccio di Kirkpatrick, nel quale il giornalista raccontava le ultime ore di Morsi al potere. Il presidente egiziano ha ricevuto una telefonata da “un ministro degli Esteri di un paese arabo” che chiedeva, per conto degli americani, di accettare la nomina di un nuovo premier come richiesto dalla piazza (e dall’esercito) dopo la performance mediocre della Fratellanza al potere. Morsi ha rifiutato la proposta e uno dei suoi consiglieri più fidati, Essam el Haddad, ha lasciato la stanza per comunicare alla Patterson la decisione: el Haddad ha anche parlato con Susan Rice, consigliere per la Sicurezza di Obama, ribadendo la posizione di Morsi ed è rientrato nella stanza annunciando che l’azione dei militari sarebbe iniziata di lì a poco. “La mamma ci ha appena detto che smetteremo di giocare entro un’ora”, ha scritto via sms un consigliere della presidenza a un collega. La mamma ha deciso che Morsi non poteva più stare al potere, ma non ha pensato a un piano per evitare che la crisi istituzionale diventasse – come sta accadendo, come ha detto anche il leader di al Azhar in un appello televisivo alla comunità islamica – guerra civile.

    L’Amministrazione Obama prende tempo, chiude la sua ambasciata al Cairo (almeno fino a oggi) e cerca di capire da che parte stare. Per comprendere la posizione del presidente, il quotidiano online Politico ha cercato di identificare le varie anime di Washington nel dibattito sull’Egitto: c’è chi è sollevato dalla fuoriuscita di Morsi, chi grida alla fine della democrazia e chi ancora non sa con chi schierarsi. Obama, com’è sua natura, non è stato esplicito, ma Politico lo colloca tra i “realisti del medio oriente”, quelli che non hanno un approccio ideologico ma pensano a come mantenere intatta e forte l’influenza americana in Egitto: “Poiché tutte le parti sono uguali, Obama vuole stare dalla parte dei buoni (mentre ammette che è difficile identificarli), ma ancor di più vuole stare dalla parte di chiunque riesca a portare calma e stabilità nella regione, il più in fretta possibile”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi