Al thawra mustamirra*
Al Cairo ovunque ti volti, golpisti o Fratelli, tutti dicono “Fuck America”
L’Amministrazione Obama è riuscita in un miracolo: è un caso di ubiquità al Cairo. E’ detestata dal fronte che appoggia il golpe militare contro i Fratelli musulmani ed è detestata anche dai Fratelli musulmani. Il fronte del putsch ha trasformato piazza Tahrir nella sua base da dieci giorni e l’ha riempita con messaggi antiamericani. “Obama sostiene il terrorismo!”, dicono in arabo e inglese gli striscioni che pendono a festoni dai palazzi sulla piazza. Altra scritta cubitale bianca su nero, in mezzo alla rotonda: “Il terrorismo di Obama insanguina l’Egitto e il mondo arabo!” – i putschisti dicono “terrorismo” per indicare i Fratelli musulmani e i loro sponsor esteri.
Il Cairo, dal nostro inviato. L’Amministrazione Obama è riuscita in un miracolo: è un caso di ubiquità al Cairo. E’ detestata dal fronte che appoggia il golpe militare contro i Fratelli musulmani ed è detestata anche dai Fratelli musulmani. Il fronte del putsch ha trasformato piazza Tahrir nella sua base da dieci giorni e l’ha riempita con messaggi antiamericani. “Obama sostiene il terrorismo!”, dicono in arabo e inglese gli striscioni che pendono a festoni dai palazzi sulla piazza. Altra scritta cubitale bianca su nero, in mezzo alla rotonda: “Il terrorismo di Obama insanguina l’Egitto e il mondo arabo!” – i putschisti dicono “terrorismo” per indicare i Fratelli musulmani e i loro sponsor esteri. Ci sono le facce del presidente, scelto in un momento corrucciato, e anche di un’altra figura d’odio, l’ambasciatrice americana in Egitto Anne Patterson (per tre anni è stata anche ambasciatrice in Pakistan, una carriera tutta nei luoghi più complicati del pianeta). La domenica delle manifestazioni gigantesche che hanno fatto cadere il presidente Morsi i manifestanti alzavano cartelli che dicevano: “Fuck Patterson”. Ora i pochi rimasti a presidiare il sit-in spiegano al Foglio che l’accusa più grande all’America è di avere taciuto per tutto l’anno dei Fratelli al potere, legittimando la spericolatezza del presidente Morsi che è andato avanti a colpi di decreti costituzionali paradittatoriali e di nomine. Aspettano la manifestazione di domani, sarà davanti all’ambasciata americana. Anne Patterson credeva di turarsi il naso e di agire secondo una visione pragmatica del mondo quando andava a incontrare nel suo ufficio il businessman più ricco dei Fratelli musulmani, Khairat el Shater, e invece stava accumulando capi d’accusa del tribunale del popolo di Tahrir contro Obama – con cui si sostiene, a ragione, lei abbia un rapporto diretto e speciale.
I Fratelli musulmani sono i Fratelli musulmani e nel loro anno di governo di questa presunta vicinanza americana non hanno mai saputo davvero che farsene. Washington invia un miliardo e trecentomila dollari ogni anno ai generali egiziani che li hanno scalzati e quindi è alleata con il nemico – gli islamisti stanno dedicando una parte delle preghiere del mese di Ramadan a maledire il generale al Sisi. Ieri il sito di al Jazeera, il canale tv del Qatar – che su istruzioni dell’emiro combatte una guerra mediatica dalla parte dei Fratelli contro i golpisti – ha pubblicato un pezzo assassino per raccontare che l’America finanzia gli attivisti che hanno fatto cadere Morsi. Ecco le prove, dice. E’ un articolo scritto per aizzare l’indignazione dei Fratelli egiziani, cita il caso di un attivista pagato dal dipartimento di stato che spiega ai suoi seguaci come “piazzare un pezzo di palma sull’asfalto per fare rallentare un autobus, e prima avrete versato benzina su quel tratto di asfalto, così al momento giusto potete accenderla e bruciare anche l’autobus” e altre tecniche da guerriglia urbana. Ieri il dipartimento di stato ha provato a parare: è ovvio che l’ambasciatrice Patterson parlasse con il governo – e anche con l’opposizione – ma rifiutiamo quest’idea che abbia appoggiato “un certo lato”. Il clima anche per chi ha un passaporto americano e vive in Egitto rischia di peggiorare e già non parte da una base buona: il 9 maggio fuori dall’ambasciata il professor Chris Stone dello Hunter College è stato accoltellato da un estremista che ha detto di essere arrivato nella capitale “per trovare un americano da uccidere”, poi un mese dopo è toccato a un insegnante di inglese durante le prime manifestazioni contro Morsi ad Alessandria.
Persino il vecchio passepartout per arrivare alla stanza del potere in Egitto, quindi quell’aiuto da un miliardo e trecento milioni di dollari che l’America ogni anno elargisce ai generali del Cairo, potrebbe perdere in parte la sua efficacia considerata la pioggia di finanziamenti che arriva in questi giorni di dopo golpe dal Golfo. Cinque miliardi di dollari dall’Arabia Saudita, tre dagli Emirati, quattro dal Kuwait: l’obiettivo dei regni sunniti è compensare il nuovo governo dei soldi che il Qatar non darà più ora che i Fratelli sono stati cacciati dai palazzi e sono finiti a digiunarsi via il loro Ramadan di protesta nelle piazze.
Incastrata tra questi due odii incrociati, l’Amministrazione Obama sta provando la navigazione giorno per giorno. Come racconta il New York Times, il consigliere per la Sicurezza nazionale, Susan Rice, ha trattato fino all’ultimo con il presidente Morsi, ma lo ha mollato dopo il suo discorso di mezzanotte, quando è stato chiaro che non sarebbe sceso a compromessi a poche ore dalla scadenza dell’ultimatum dell’esercito. Washington non può chiamare “golpe” il golpe dei generali, altrimenti sarebbe costretta per legge federale a interrompere gli aiuti militari e così perderebbe la sua leva (indebolita) per trattare con il Cairo. Vent’anni fa un altro imbarazzo semantico paralizzò il dipartimento di stato, che non riuscì a pronunciare la parola “genocidio” a proposito delle stragi in Ruanda per non dover autorizzare un intervento militare nel centro dell’Africa. Al tempo Rice giurò a se stessa che non si sarebbe più sottomessa alle esigenze della realpolitik e che avrebbe agito secondo gli ideali, non secondo la convenienza diplomatica. Da qui il suo attivismo nella campagna di Libia quand’era ambasciatrice alle Nazioni Unite, un ruolo che la lasciava libera di esporsi senza troppe responsabilità. Ora però, con un incarico più alto, si adegua: il golpe, per l’America, non è ancora un golpe, forse non lo sarà mai.
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