La ministra del primo banco
Nel momento peggiore – anno 2006, molta fatica in campagna elettorale e nessuna candidatura alle elezioni politiche, peraltro perse per un soffio dal suo partito – Beatrice Lorenzin, attuale ministro della Salute nel governo Letta, ripeteva a se stessa la frase “la vita non finisce con un’elezione”, ma anche, all’occorrenza, il ritornello motivazionale di un Cav. in versione self-made: “Se non cadi almeno una volta non potrai mai vincere”. Nei momenti migliori (per esempio oggi), Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, predilige le tecniche sommergibili di chi c’è, ma vorrebbe apparire lo stretto indispensabile (ieri, però, intervistata da Vittorio Zincone su Sette, ha espresso qualche dubbio all’idea di vedere Daniela Santanchè a capo della Forza Italia 2.0.
Nel momento peggiore – anno 2006, molta fatica in campagna elettorale e nessuna candidatura alle elezioni politiche, peraltro perse per un soffio dal suo partito – Beatrice Lorenzin, attuale ministro della Salute nel governo Letta, ripeteva a se stessa la frase “la vita non finisce con un’elezione”, ma anche, all’occorrenza, il ritornello motivazionale di un Cav. in versione self-made: “Se non cadi almeno una volta non potrai mai vincere”. Nei momenti migliori (per esempio oggi), Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, predilige le tecniche sommergibili di chi c’è, ma vorrebbe apparire lo stretto indispensabile (ieri, però, intervistata da Vittorio Zincone su Sette, ha espresso qualche dubbio all’idea di vedere Daniela Santanchè a capo della Forza Italia 2.0: “Tutte le aspirazioni sono legittime, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Lei è con noi da poco. E non rappresenta la maggioranza del partito. Io spero soprattutto che si torni allo spirito del 1994: un partito inclusivo che ospitava liberali e socialisti, democristiani e riformisti. Dobbiamo aprirci e non chiuderci a riccio”).
Nel momento peggiore, Beatrice Lorenzin iniziava la risalita politica dal coordinamento nazionale giovani di Forza Italia, dopo una caduta dovuta alle circostanze e non al suo operato di soldato elettorale che percorre palmo a palmo le banlieue della capitale (e anzi nelle banlieue, quella volta, il centrodestra, perdente a livello generale, era andato benissimo). Farsene una ragione, questo il motto per una che si era trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato: a gestire il partito nel Lazio dopo la defenestrazione di Antonio Tajani, con molti chilometri da percorrere in macchina per cercare voti tra signore in finta pelliccia e negozi di pesci esotici (squali compresi) tra Ostia e Tor Bella Monaca – Mattia Feltri scrisse allora per la Stampa un reportage sulle enclave berlusconiane nella periferia di Roma, prendendo Lorenzin come Cicerone tra palazzi prefabbricati, architetture del Ventennio, giovani para-californiani con il pallino del surf e insegne anni Sessanta, ormai desuete nelle botteghe del centro equo e solidale, ma resistenti sul litorale da passeggiata con gelato: “Big Bar”, “Fantasy Pizza”, “Fiori d’arancio”, “Vanity”. Lorenzin guidava la Y10 e spiegava al forestiero la Weltanschauung del suo popolo, proteggendolo come un genius loci: “Io qui ci sono cresciuta, ci ho studiato. Conosco i genitori dei miei amici, gente che ha fatto la formichina, accantonato una banconota sull’altra, risparmiando un giorno dopo l’altro. E c’è chi aveva i campi e li coltivava guadagnandoci appena il sufficiente per sfamarsi, e poi li ha venduti ai palazzinari per somme discrete. Questi hanno messo i loro soldi in banca, oppure hanno preso Bot e Cct…”.
Nei momenti migliori, Beatrice Lorenzin il suo genius loci lo va a cercare, rifugiandosi a casa dei genitori, alla tavola dove un sabato di primavera l’ha raggiunta la telefonata del Cav. (“pronta per il ministero della Salute?”) e non importa se, al tempo dei primi passi sulla scena nazionale, Beatrice il genius loci lo camuffava, senza per questo farlo traslocare a Roma nord (“di dove sei?, le chiedevano; “di Ostia”, rispondeva, togliendo ad Acilia quel che era di Acilia, quartiere d’origine, e dando a Ostia quel che non era di Ostia).
Che il momento sia buono o cattivo, Beatrice Lorenzin è quella cui si chiede il sacrificio, l’impresa impossibile, l’impegno foriero di studio notturno, matto e disperatissimo (come nemmeno alla vigilia delle prime volte in tv, quando il portavoce storico del Cavaliere Paolo Bonaiuti la sottoponeva a lezioni accelerate di oratoria da telecamera, intervallate da caffè in cui lo stesso Bonaiuti, appassionato di storia e letteratura toscana, citava canti dell’Inferno e date delle battaglie, inframmezzate da disquisizioni sull’arte della manutenzione della marmellata, suo hobby da almeno un decennio). Quando serve qualcuno che faccia manovalanza elettorale, che giri per i quartieri con sprezzo della fatica e del massacro, è a Lorenzin che nell’ex (post?) Forza Italia si guarda, ragion per cui ora gli osservatori non sanno se invidiare il suo incarico ministeriale o dire “in bocca al lupo” con aria simpatetica, ché un ministero ai tempi del governo di larghe intese (della Salute, per di più) rischia di essere il classico esempio di onore pieno di oneri o, per dirla con il proverbio del nonno, di onori che son dolori. “E’ molto secchiona”, dicono di lei amici e non amici, alludendo non soltanto al periodo in cui era capo della segreteria tecnica di Bonaiuti a Palazzo Chigi e si era autodefinita “in prova”. “Si è fatta da sola”, dicono di lei amici e non amici, alludendo ai quasi vent’anni di gavetta politica, girone per girone: dalla circoscrizione al comune al partito al Parlamento al governo, con in mezzo molti anni di incarichi non portatori di visibilità.
Il sommergibile, dunque, ci vorrebbe, ora, per scavallare i temporali estivi che ogni giorno si abbattono sui cieli del governo in vista del 30 luglio, giorno di verdetto sul caso Mediaset in Cassazione, ma pure le colonne d’Ercole dei primi mesi alla Salute, disseminati di questioni spinose, a partire dagli ogm invisi a Greenpeace (il ministro Lorenzin ha ricevuto in dono da Greenpeace polemiche mele “non ogm” e ha risposto “grazie, ma la protesta è strumentale: il ministero si è più volte espresso sulla biodiversità”, e ieri, con i ministri Orlando e De Girolamo, ha firmato un decreto interministeriale che vieta la coltivazione di mais geneticamente modificato). Poi è stata la volta della sigaretta elettronica, vietata da Lorenzin ai minori di diciotto anni e nelle scuole (il gesto è evocativo del fumo vero, ha detto) e però al Codacons non bastava: dovete vietarle ovunque, è stata la critica iperproibizionista.
Lorenzin, chiusa nel suo batiscafo, sorride ai convegni dei dentisti con l’autoironia di chi per tre anni ha portato l’apparecchio ai denti sottoponendosi alla “tortura”, parole sue, del trattamento settimanale (la leggenda metropolitana vuole che Lorenzin, in un impeto di perfezionismo odontoiatrico, fosse lì per lì per convincersi all’impresa impossibile per qualsiasi pauroso dell’estrazione: togliere un dente sano per favorire l’opera globale). Siccome l’errore è sempre in agguato, specie se la materia è nuova, Lorenzin procede con circospezione e intanto aggredisce l’agenda ministeriale tra convegni sul “primo soccorso nei licei” e incontri con i veterinari (gli amici non addetti ai lavori trasecolano: “Ma che pure della peste suina devi occuparti?”). Tormentandosi tra faldoni, regolamenti, dossier e riunioni, decisioni da prendere, buonsenso da salvare e ansia da nascondere durante i convenevoli in cima alle scale dei Palazzi, il ministro al debutto ha trovato sulla sua strada la questione spinosa per eccellenza, quella del metodo “Stamina” (terapie a base di cellule staminali modificate), bocciato da molte riviste scientifiche internazionali e autorizzato “a tempo” dal Parlamento in maggio, sulla base di alcuni pronunciamenti della magistratura (su ricorso di pazienti e famiglie di pazienti) che avevano di fatto imposto, in quei casi, la prosecuzione delle cure secondo il metodo Stamina, non ancora sperimentato (la sperimentazione ufficiale del ministero inizia in agosto). Lorenzin l’altro giorno si è trovata davanti alla porta la manifestazione delle famiglie pro Stamina e, dopo alcune ore di silenzio (“fare il ministro della Salute è un lavoro bellissimo ma delicato, si incide sulla vita delle persone e non si possono creare false speranze”, dice ai collaboratori), ha fatto una dichiarazione netta: “Sbaglia chi continua ad autorizzare pazienti a sottoporsi a delle cure che non sono tali, è un grande errore che crea confusione e illusioni nella fascia di popolazione affetta da malattie rare o incurabili”.
Gli occhi sono puntati su di lei. Piacere a tutti non è possibile, i nemici si moltiplicano al crescere della visibilità, e il carattere non morbido, utile nell’ascesa, non sempre è d’aiuto sulla ribalta. Lorenzin, finora, era quella che veniva arruolata nelle situazioni dall’esito incerto (vedi campagna elettorale di Renata Polverini per la regione Lazio nel 2010, con Polverini che alla fine diventa governatore e Lorenzin che, dopo averla affiancata in campagna elettorale, si allontana sempre più). Con la caduta del governatorato Polverini, Lorenzin è stata a sua volta messa in lizza come possibile candidato per il Lazio, ma è finita come altre volte, con le “esigenze superiori” che suggeriscono di candidare qualcun altro (Francesco Storace). Solo che stavolta la nemesi ha voluto che Lorenzin, una berlusconiana della prima ora oggi ascrivibile all’area Alfano, diventasse addirittura ministro.
Sorride, Lorenzin, nel nuovo look (secondo le amiche dovuto “al fatto che finalmente è innamorata”), look che, da un anno, le ha guadagnato il soprannome non amato di “Meg Ryan de noantri”. Tutto si tiene: “Anche la storia d’amore”, dicono le amiche, “sembra una cosa da ‘Harry ti presento Sally’”, con l’amico di vecchia data che improvvisamente a cena dice “ma perché non hai mai pensato a me?” e ti sciocca al punto che ti devi rifugiare in bagno a pensarci su, per poi tornare al tavolo con l’aria terrorizzata di chi ha deciso di prendere in considerazione la proposta. E siccome Lorenzin, ragazza di impostazione tradizionale che vuole la famiglia con tutti i crismi, marito e figli e pranzi con i nonni, si era anche scherzosamente e pubblicamente lamentata, in radio, della penuria di uomini non Peter Pan disposti ad accasarsi, cosa che provocò un’inondazione di profferte da parte di sconosciuti radioascoltatori, chi la conosce cerca gli indizi della raggiunta serenità. “Vuole cambiare casa”, dice chi si è ritrovato, l’anno scorso, a una festa “chez Lorenzin” in un bilocale stipato all’inverosimile di invitati bipartisan, in mezzo a pezzi d’arredamento orgogliosamente esposti in quanto souvenir di safari o regali di qualche amico consapevole del fatto che il ministro non ha molto tempo per la ricognizione in tema di divani, poltrone e armadi (il tempo che ha, in casa, è dedicato ai gatti). Fatto sta che le feste sono ancora quelle della ragazza Lorenzin, e non del ministro Lorenzin – qualcuno l’anno scorso a un compleanno ha “imbucato” il Cav. (ma non si sa che cosa abbia pensato il Cav. del sincretismo estetico dei soprammobili, fissato com’è con il più pomposo antiquariato francese). Intanto sono comparse, nel guardaroba di Lorenzin, le giacche avvitate di colore neutro al posto dei camicioni a fiori e degli abiti rossi, e i capelli biondi carré al posto dei capelli castani lunghi da ragazza recalcitrante persino alla coda di cavallo, obbligatoria in orario di lavoro secondo le regole non scritte di Bonaiuti (il quale, nel periodo dell’apprendistato di Lorenzin da capo segreteria, le aveva dato il soprannome – gradito – di “citrulla”). In compenso in consiglio comunale, a Roma, dove era arrivata nel 2001, unica donna del centrodestra, la pignola Lorenzin, pasdaran delle interrogazioni al sindaco Veltroni ma anche del cavillo in commissione, veniva chiamata “il pungolo”. Mai nessun nomignolo, però, ha raggiunto i bassi livelli di galanteria di quello che girava nella cameratesca Forza Italia dei primi anni Duemila, dove i colleghi azzurri di Roma centro o Parioli, magari con un pizzico di invidia, si divertivano a prendere in giro la tosta Beatrice di Ostia-Acilia – che non nascondeva la cadenza verace, in cui le “c” diventano “sc”, e i modi da combattente – storpiandone il nome in “Beatruce”. “Lorenzin contraccambiava”, dice un amico, ma fondamentalmente “si occupava d’altro”, oltre a fare lavori saltuari per mantenersi (impieghi dal nome inglese, tipo “quality manager” nelle aziende): erano anni di costruzione della sua constituency nel Lazio, tra i giovani che all’uscita da scuola volantinavano con lei. Risultato: dal primo successo in circoscrizione, nel 1997, con seicentonovanta voti al primo colpo e tutti a dire “ma questa chi è?”, Lorenzin era passata in quattro anni alla notorietà locale. Mancava un passaggio, la visibilità su grande scala raggiunta più tardi con la presenza in televisione (si ricorda lo scontro su crisi economica e vicende berlusconiane con il vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini, a “Ballarò”, con il futuro ministro Lorenzin che a un certo punto sgrana gli occhi e dice: “In un paese ci vuole speraaaanza, non si uccidono i sogni dopo trent’anni di sacrifici”).
Che poi Beatrice Lorenzin voleva fare tutt’altro, nella vita: la politica l’aveva incontrata al liceo Anco Marzio, negli anni della Pantera e della “Panterina”, dove quelli che, come lei, non si dicevano “comunisti” ma “liberali” o “socialisti” (approdo naturale per una figlia di padre esule istriano, anche se nipote di nonna comunista, poi neo berlusconiana) erano messi nel gran calderone dei cosiddetti “fascisti”, da guardare storto in assemblea anche se poi erano amici degli stessi amici, magari fondatori di centri sociali (poi diventati centri sociali fighetti, ma questa è un’altra storia). Sono la Scuola di liberalismo della Fondazione Einaudi (con tesina su Hannah Arendt) e l’incontro con Antonio Martino, negli anni del dopo Tangentopoli, a far venire voglia alla giovane Beatrice di fondare un club di Forza Italia ad Acilia: arriva alla spicciolata gente del quartiere, con problemi pratici da risolvere, una volta a settimana. Dopo sei mesi, alle amministrative, Lorenzin, che intanto si è iscritta senza molto slancio a Giurisprudenza, viene eletta, anche se alla domanda “che vuoi fare da grande?” ancora risponde dicendo che sogna un futuro da professore di Filosofia o un (più abbordabile) avvenire da Oriana Fallaci del litorale laziale, motivo per cui si mette a scrivere pezzi di cronaca nera per i giornali locali (arriva al commissariato, non capisce granché, prende appunti, ferma una volante e butta giù il pezzo con l’improvvisazione indispensabile al neofita).
La folgorazione definitiva per la politica arrivò, comunque, molto prima di approdare in Parlamento e nel bel mezzo di un percorso da “formichina” appreso tra Ostia e Acilia – era già irreversibile, la passione, ma lei dissimulava. Fino a che dissimulare divenne impossibile, e Lorenzin si ritrovò un bel giorno non candidata, ma in battaglia, nell’aria fredda di novembre, sulla tolda di un battello fuori stagione che solcava il Tevere con a bordo il Cav. (prossimo alla svolta del predellino). Non si fidava di nessuno, Lorenzin, ma aveva amici trasversali, e vai a pensare che poi sarebbero stati trasversali addirittura i colleghi di governo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano