Una giuria di sole donne

Stefano Pistolini

A posteriori, riesaminando gli interpreti e il contesto della tragica morte di Trayvon Martin e il processo penale che ne è scaturito, il verdetto emesso sabato scorso dalla giuria che ha definito “non colpevole” George Zimmerman appare fatalmente scontato. La vicenda, infatti, già conteneva quasi in modo esemplare, gli elementi necessari a dar luogo a una simile rappresentazione e, di conseguenza, a eccitare dibattiti e contrasti sociali all’indomani della sentenza. La risonanza del caso è stata amplificata dalla maniacale copertura mediatica del processo: grandi network, talk show, stampa e Web gli hanno dedicato un’attenzione che non si vedeva dai tempi di O.J. Simpson, con la complicità delle laconiche cronache provenienti da uno scenario politico depresso e da andamenti economici insicuri.

    A posteriori, riesaminando gli interpreti e il contesto della tragica morte di Trayvon Martin e il processo penale che ne è scaturito, il verdetto emesso sabato scorso dalla giuria che ha definito “non colpevole” George Zimmerman appare fatalmente scontato. La vicenda, infatti, già conteneva quasi in modo esemplare, gli elementi necessari a dar luogo a una simile rappresentazione e, di conseguenza, a eccitare dibattiti e contrasti sociali all’indomani della sentenza. La risonanza del caso è stata amplificata dalla maniacale copertura mediatica del processo: grandi network, talk show, stampa e Web gli hanno dedicato un’attenzione che non si vedeva dai tempi di O.J. Simpson, con la complicità delle laconiche cronache provenienti da uno scenario politico depresso e da andamenti economici insicuri. Non era la visita di Obama a Mandela a poter sottrarre l’attenzione di Fox, Cnn & co. dall’aula di Sanford. Nemmeno la formidabile tragedia dei 19 pompieri arsi vivi soccombendo agli incendi nel west ha scalfito la monumentale descrizione del processo e la pletora di teste parlanti sfilate sui teleschermi, ciascuna con le sue certezze.

    E’ stato il “giallo dell’estate americana” per quanto volgare sembri la definizione: una vicenda in cui decidere da che parte schierarsi e quali principi sposare, contando sulla condivisione e la partecipazione collettiva. Tutti i fattori in gioco erano accessibili alla valutazione di qualsiasi americano: il diritto alla difesa, il principio della sorveglianza, la definizione di “aggressione” – tutti astri fissi del pensiero popolare contemporaneo d’oltreoceano, sull’asse tra i due poli su cui si regge quell’attuale progetto di convivenza: la paura e la sicurezza. Poi, a fianco a questo scenario, ne corre un altro, che da punti di vista diversi, per esempio dalla vecchia Europa o dalle redazioni giornalistiche italiane, ha avuto flagrante predominio: la questione razziale, il ragazzino nero ucciso dal vigilante bianco, il riproporsi della giustizia a due velocità, la retorica sul gioco delle parti invertite. Cosa sarebbe successo, quale sarebbe stato il verdetto, se invece un pistolero nero avesse ucciso un incolpevole, innocente teenager bianco? Invece bisogna sforzarsi di capire che questi sono discorsi celibi, se connessi col pragmatismo americano e anche coi comandamenti dell’informazione d’oltreoceano. Sono ragionamenti a latere, note a piè di pagina.

    Mentre ciò che la storia di Trayvon drammaticamente ha proposto è stato il confronto tra un popolo e il peso delle sue stesse scelte, una volta che da propositi si trasformano in conseguenze. Le risposte da dare erano complesse, ad alto tasso di riflessione e di responsabilità, anche considerando quanto andranno a costituire sotto forma di precedenti. Ecco perché il verdetto d’innocenza per George Zimmerman oggi viene accolto negli States con una sobrietà diversa che altrove: non per cinismo, ma per implacabile logica. A dispetto della disinvoltura che pare avallare, almeno sulla base dei fatti accertati, ribadisce che in America le questioni etiche sono bandite dal sistema giudiziario, laddove non abbiano trovato formulazione come leggi.

    Ma andiamo con ordine. Ripartiamo dal 26 febbraio 2012, alle 7 di sera. Da una settimana il 17enne Trayvon Martin e suo padre Tracy sono arrivati da Miami a Sanford, anonima cittadina della Florida centrale, per far visita alla compagna di Tracy. Trayvon cammina verso la casa dov’è ospite, dopo aver comprato qualcosa in un emporio 7-Eleven. In mano ha delle caramelle Skittles, una lattina di tè alla frutta e il cellulare. Per ripararsi dalla pioggia ha il capo coperto dal cappuccio della felpa. La sua presenza viene notata dal 29enne George Zimmerman, a bordo del suo Suv, impegnato in una delle perlustrazioni che svolge come sorvegliante volontario di quartiere. A Zimmerman ciò che vede non piace e perciò chiama il 911, il centralino della polizia, spiegando che “abbiamo avuto dei furti d’appartamento in zona e vedo un tipo molto sospetto”. La polizia lo invita a non prendere iniziative e a non scendere dalla sua macchina. Sette minuti più tardi il 911 riceve un’altra chiamata da qualcuno che avverte che una rissa è in corso. Durante la telefonata il poliziotto all’apparecchio sente un colpo di pistola e invia subito una volante sul posto che trova il corpo di Martin colpito da un proiettile al petto. Il ragazzo viene dichiarato morto sul posto e dal momento che la polizia non trova documenti sul cadavere, lo dichiara non-identificato. Interrogato dagli agenti, Zimmerman dice d’essere stato aggredito da Martin e di aver sparato per difendersi. Gli viene confiscata la 9 mm e viene scortato alla centrale. Qui viene sottoposto a un secondo interrogatorio e poi rilasciato attorno all’una di notte. Poco dopo Tracy, il padre di Trayvon, si fa vivo per denunciare la scomparsa del figlio. Gli investigatori collegano i fatti e lo informano della morte del ragazzo. Nelle ore successive Zimmerman viene curato da un medico di famiglia per le ferite alla nuca e per la rottura del setto nasale che sostiene d’aver subito nel corso dello scontro con Trayvon. Quindi torna sul luogo dell’uccisione e mostra agli agenti come si sarebbero svolti i fatti.

    Alcuni giorni più tardi Tracy Martin tiene una conferenza stampa nella quale critica l’operato della polizia e sostiene che “giustizia non è stata fatta”. Il 10 marzo le Pantere nere organizzano una manifestazione fuori dalla centrale di polizia di Sanford. Il 12 il capo locale della polizia, Bill Lee, spiega che non si è proceduto all’arresto di Zimmerman in quanto protetto dalla legge della Florida del “Stand Your Ground”, principio di legittima difesa che permette ai residenti di usare le armi contro chi sembri ragionevolmente intenzionato a minacciarli. “Non esistono elementi per dubitare della sua parola”, dichiara Lee. La famiglia Martin reagisce con una petizione sul sito change.org e riceve quasi un milione di firme alla richiesta d’incriminazione di Zimmerman. Il 14 marzo la testimone oculare Mary Cutcher, bianca e residente di Sanford, dichiara d’essere stata interrogata dalla polizia la sera della sparatoria e di aver detto di non aver visto alcuno scontro fisico, ma di non aver ricevuto altre convocazioni dalla polizia. Le autorità definiscono inconsistente la sua testimonianza e il giorno dopo il padre di Zimmerman, intervistato dall’Orlando Sentinel dichiara “insensate” le accuse di razzismo rivolte al figlio, nato dal matrimonio tra lui, bianco di origine tedesca, e una donna peruviana.

    Il 16 marzo la polizia di Sanford rilascia le registrazioni telefoniche che riguardano il caso: in una si sente una voce che chiede aiuto e poi uno sparo. Nell’ultima telefonata di Trayvon, invece, il ragazzo dice alla fidanzata d’essere pedinato da un “rottinculo”. Il 20 marzo viene ufficialmente aperta un’inchiesta sulla vicenda. Il giorno dopo il consiglio comunale di Sanford toglie la fiducia al capo della polizia Lee e ne chiede le dimissioni, che arrivano 24 ore più tardi. In città si tiene una manifestazione con Al Sharpton, Martin Luther King III e altri leader della comunità nera, che proietta definitivamente il caso sulla ribalta nazionale. Il 23 marzo Barack Obama, in piena campagna per la rielezione, interviene sul caso, sostenendo che il paese deve fare “un esame di coscienza per capire come una cosa del genere possa essere accaduta”. La sua conclusione guadagna le prime pagine dei giornali: “Se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato come Trayvon”. I campioni Nba dei Miami Heat si fanno fotografare nascosti dai cappucci – loro, tutti neri come Trayvon, ma resi inattaccabili dalla celebrità.
    L’8 aprile viene lanciato il sito The Real Goerge Zimmerman che raccoglie fondi per la sua difesa: incassa 200 mila dollari prima d’essere chiuso, 15 giorni dopo. L’11 aprile il procuratore della Florida Angela Corey annuncia l’imputazione di Zimmerman per omicidio colposo. L’uomo si presenta alle autorità e viene incarcerato. La difesa viene assunta da Mark O’Mara che lo dichiara innocente e ne ottiene la libertà per una cauzione di 150 mila dollari, con obbligo d’indossare un Gps alla caviglia. Il primo giugno la libertà su cauzione viene revocata e Zimmerman torna in prigione, mentre sua moglie viene arrestata per falsa testimonianza sulla consistenza delle finanze di famiglia. Il 6 giugno Zimmerman è di nuovo libero su cauzione: 1 milione di dollari. Infine, maggio 2013: alla vigilia del processo emergono foto e tweet che gettano cattiva luce su Trayvon, alludendo al suo uso di marijuana e a condotte irregolari. Il giudice Debra Nelson dichiara non rilevanti tutti questi elementi. Sono necessari nove giorni per formare la giuria. Il 24 giugno si apre il processo.

    Il verdetto arriva 17 giorni dopo. Il giudice Nelson dice a Zimmerman che non ha altro da fare in aula, che gli verrà tolto il Gps, che è libero di andare e che la cauzione gli verrà restituita, secondo la decisione raggiunta dalle sei donne, nessuna delle quali afroamericana, che hanno formato la giuria, sulla quale nel frattempo s’è acceso un dibattito parallelo. E’ giusto assegnare una decisione così impegnativa a un campione non rappresentativo della nazione – ovvero di un unico sesso e non rispecchiante la composizione demografica dell’America d’oggi? Beh, può non essere equilibrato, ma è di certo possibile, rispondono gli interessati. Ovviamente si può ipotizzare che una simile configurazione della giuria possa aver influenzato il verdetto: non si può presupporre che 5 madri su 6 donne-giurato propendano per proteggere la vita di un ragazzino che potrebbe essere loro figlio? La risposta però è soprendente, perché non sembrerebbe così, visto il risultato, considerando poi che solo due delle  6 giurate possiedono armi da fuoco. Si potrebbe invece supporre che un aprioristico, incosciente gesto di prevenzione messo in atto dal quello strano Zimmerman, che sognava d’essere un poliziotto, meriti comprensione al di là dei tragici esiti? Difficile a credersi, ma il verdetto pare proprio esprimersi in questa direzione. L’invocazione di sicurezza che travolge il senso di maternità. Sempre, poi, con quella variabile della razza di cui tenere, o no, conto. Il che, alla fine, conduce alla conclusione che forse una giuria di sole donne, nell’America d’oggi, agisca semplicemente come una giuria tout court – e questo nonostante siano meno di 40 anni che in tutti gli Stati Uniti le donne sono ammesse a far parte di un organismo del genere. Insomma che le donne non “decidano diversamente”. Che non siano una variabile in base al genere. Il che, riflettendoci, sia pur teorico, è un fattore non trascurabile, che permette ai volenterosi di uscire dal pantano del pregiudizio.

    Perché ovviamente questa vicenda può essere in ogni momento rovesciata in termini razziali e di qui ridicolizzata, umiliata, messa alla berlina, tacciata di razzismo e ingiustizia e vilipesa insieme a tutto il sistema giudiziario americano. Ma ci può essere anche un’altra strada di riflessione. Che resta sempre, a ogni passo, connessa ai fatti, esattamente come chiede, anzi impone, quello stesso sistema d’oltreoceano. Ovvero, se si ha la forza di uscire dalla radicale contestazione razziale, che peraltro coinvolge solo un’esigua minoranza degli americani, si può arrivare al vero nocciolo di questa storia, quello che invece viene percepito dalla maggioranza: l’effettivo, operativo diritto, legalmente sancito, di difendersi legittimamente anche nel modo più estremo. Zimmerman, dal momento che non è stato dimostrato il contrario (e le pignole strategie procedurali del suo difensore, gli interrogatori dei testimoni, l’arringa finale, hanno evitato che avvenisse), dal momento che non è emersa oltre ogni ragionevole dubbio la sua colpevolezza, è protetto dal principio di autodifesa in vigore nello stato della Florida.
    Il suo estremo uso della forza è suffragato da circostanze che gli accusatori non sono riusciti a smentire: la presunta aggressione del ragazzino ai suoi danni, dopo essersi sentito minacciato, la colluttazione a terra, la testa sbattuta sul marciapiede, quello stesso marciapiede interpretato dalla difesa come un’arma puntata contro Zimmerman. Che poi ha sparato. Secondo il principio “Stand Your Ground”, il pericolo che Zimmerman valutava di dover affrontare poteva essere anche “potenziale”, se però dal suo punto di vista era effettivamente “reale”, se è stato attaccato fisicamente, se non ha commesso torti o provocazioni, se si è trovato a fronteggiare uno scontro fisico, aver fatto ricorso alla pistola è legalmente legittimo. Punto. E’ la legge. Non tocca al processo o alla giuria sovvertirla. Zimmerman non era obbligato a scappare. Era autorizzato dalla legge a reagire. E lo ha fatto. Il processo, secondo la logica giudiziaria locale, doveva emettere un verdetto su questo. La giuria, anche se bizzarramente composta da sole donne non nere, doveva riflettere ed esprimersi su questa successione di eventi, licenze e regole. La colpevolezza di Zimmerman, diversamente, andava dimostrata, e in modo inoppugnabile. Cosa che gli accusatori del processo nel nome dello stato della Florida non sono riusciti a fare, sfiorando piuttosto questioni caratteriali o parlando delle ambizioni sbagliate dell’uomo, ma non ribaltando in modo irrevocabile la sua versione dei fatti.

    Su questo l’America ha trovato la passione di discutere e scontrarsi. Sul fatto che una legge estrema, draconiana, apparentemente emergenziale, come “Stand Your Ground”, abbia un brutto giorno trovato applicazione nel più crudele dei modi, coinvolgendo una flagrante contrapposizione razziale, tirando in ballo un paio di secoli di questioni irrisolte, coinvolgendo nella parte della vittima un ragazzino nero, misterioso e affascinante come tutti i 17enni del mondo. E nella parte del carnefice uno sgradevole mezzosangue dalle idee confuse e i sogni impronunciabili, poco fotogenico e dall’aria truce. Lui, George, è diventato il veicolo, lo strumento applicativo della regola, la stessa pretesa e approvata nel nome del “più sicurezza”, del “dobbiamo difenderci”, del “sorvegliamoci a vicenda”, del “lo sconosciuto è un potenziale pericolo”, che l’America timorosa e nervosa di oggi ha trasformato in stato mentale. Il caso Martin diventa così una beffarda resa dei conti con le prevalenti aspirazioni di un popolo che, diventando realtà, si rivelano dolorosamente più feroci del previsto.

    Ovviamente il fattore razziale non scompare di fronte a tutto ciò, semplicemente non gli appartiene. Nel mondo dei “se” e delle ipotesi, può anche essere inoculato in questa storia, facendone un’impressionante mina sociale. Ma diventa mito, non cronaca. Se vogliamo restare aderenti alla valutazione di ciò che è accaduto a Sanford nell’ultimo anno e mezzo, la conclusione è quella naturale. Uno stato americano che si è dato come legge un ricorso più che ampio alla legittima difesa individuale – dunque ha di nuovo alzato l’asticella dell’individualismo “garantito” – ha fatto i conti con una tremenda applicazione di questa sua scelta. Ci saranno discussioni, forse revisioni. Ma è così. Lo stesso Obama, tornando a parlare sulla vicenda, ha detto che la morte di Trayvon è una tragedia per tutta la nazione. Che le passioni si scateneranno. Ma che un paese che ha delle leggi deve rispettarne l’applicazione. Anche se poi – ha concluso – sospingere la logica dei vigilantes e dello “spara per primo” può avere conseguenze deleterie. Qualcosa succederà. Il presidente continua quella sua battaglia per disarmare parzialmente l’America che certamente non vincerà entro il suo mandato. Intanto le televisioni e il pubblico s’interrogano. Certe volte la realtà sa spingersi oltre la più sofisticata pianificazione. E ciò a cui ci mette di fronte richiede infine un cambiamento, che possiede uno slancio incredibilmente più potente dei nostri principi e perfino della nostra originale volontà.