E' il mercato, bellezza

Alberto Brambilla

Nel mese di maggio il Foglio aveva scritto che in “questo scandalo nulla si tiene”. Ora è ufficiale, sabato scorso il tribunale del riesame ha smontato un pezzo portante dell’impianto accusatorio del cosiddetto scandalo del Monte dei Paschi di Siena: quello che riguarda l’operazione finanziaria di scambio di titoli tra Mps e Nomura. Le pressioni politiche nella tumultuosa arena senese, la bulimia del circo mediatico-giudiziario, la pretesa di ottenere un immediato risarcimento economico dopo quello che è stato dipinto dalla stampa come lo “scandalo” finanziario italiano più devastante di sempre, avevano spinto le ipotesi della magistratura al di là dei limiti possibili (e plausibili) del diritto internazionale.

Ferrara Montepaschi e Ilva, la nostra lotta con gli idoli della piazza

    Nel mese di maggio il Foglio aveva scritto che in “questo scandalo nulla si tiene”. Ora è ufficiale, sabato scorso il tribunale del riesame ha smontato un pezzo portante dell’impianto accusatorio del cosiddetto scandalo del Monte dei Paschi di Siena: quello che riguarda l’operazione finanziaria di scambio di titoli tra Mps e Nomura. Le pressioni politiche nella tumultuosa arena senese, la bulimia del circo mediatico-giudiziario, la pretesa di ottenere un immediato risarcimento economico dopo quello che è stato dipinto dalla stampa come lo “scandalo” finanziario italiano più devastante di sempre, avevano spinto le ipotesi della magistratura al di là dei limiti possibili (e plausibili) del diritto internazionale. E così la “punta di lancia” dell’inchiesta condotta dai pubblici ministeri di Siena – il contratto di scambio titoli tra Monte dei Paschi e Nomura – è stata spezzata per due volte negli ultimi cinque mesi: non c’è illecito, non c’è un danno, non c’è nulla di occulto. La prima volta in aprile. Il giudice per le indagini preliminari, Ugo Bellini, aveva respinto la richiesta di sequestro di 1,8 miliardi di euro ai danni della banca giapponese Nomura, “rea”, secondo l’accusa, di avere truffato e di avere tratto un guadagno usurario da quella che in realtà era una regolare operazione di ristrutturazione di titoli derivati (un pacchetto chiamato Alexandria), fatta con il Monte dei Paschi nel 2009, come ce ne sono molte altre nel mondo, per coprire perdite di bilancio derivanti in particolare dall’azzardata acquisizione di Antonveneta. La decisione di Bellini ha provocato un conflitto istituzionale ai massimi livelli burocratici dello stato, fino al Consiglio superiore della magistratura, evidenziando un dissidio interno alla procura senese. I pm Aldo Natalini, Giuseppe Grosso e Antonino Nastasi avevano infatti esposto immediato ricorso presso il tribunale del riesame contro la decisione del gip. Ricorso che è stato ora respinto dai giudici competenti, decisione da cui si evince che l’ipotesi accusatoria risulta inconsistente.

    Così il riesame smonta le accuse dei pm
    Lo spiegano i giudici del riesame (Stefano Benini, Francesco Bagnai, Pierandrea Valchera) nell’ordinanza che respinge la richiesta d’appello dei pm in tre punti chiave.
    1) Al di là della voglia di rivalsa della politica cittadina nei confronti dell’usurpatore internazionale (“ridare a Siena quel che è di Siena”, dicevano gli esponenti del movimento di Beppe Grillo alla vigilia delle elezioni comunali di maggio), per i giudici “l’importo non può essere oggetto di sequestro perché non rappresenta una perdita ai fini della determinazione del danno ove si voglia ipotizzare la truffa, e nemmeno una componente della sproporzione tra le prestazioni, nelle ipotesi di usura, bensì una minus valenza latente, valutata in un determinato momento”.
    2) E non è nemmeno possibile soddisfare le velleità vendicative dei senesi perché il reato di usura non sussiste: si sta parlando infatti di un’operazione consueta in finanza. Dicono i giudici: “Nella prassi bancaria internazionale degli swap e dei Repo, non risulta la previsione di limiti quantitativi, e sono usuali clausole contrattuali di marginazione dei rischi connessi all’operazione su sottostanti, per non parlare della normalità degli scambi sui tassi d’interesse, tipica degli asset swap”.
    3) Infine, l’operazione era nota alla Banca d’Italia ben prima dell’esplosione dello scandalo mediatico nato con la pubblicazione del “contratto segreto” – che segreto non è – da parte del Fatto quotidiano a gennaio, a ridosso delle elezioni politiche nazionali, rimaste perciò “ostaggio” dei fatti legati al Monte durante quelle settimane, e anche oltre. Dicono i giudici: è emerso da due ispezioni della Banca d’Italia del settembre 2011 e del marzo 2012 il collegamento tra la ristrutturazione del derivato Alexandria, preso in carico da Nomura, e lo scambio di titoli a lungo termine, presi dal Monte dei Paschi. Era cioè noto anche prima del “reperimento del mandate agreement” che sarebbe stato conservato nella cassaforte dell’attuale amministratore delegato Antonio Vigni fino allo scoop del Fatto. Secondo i giudici, l’accusa ha gonfiato questo aspetto dell’indagine per avvalorare la tesi per cui tale operazione finanziaria sarebbe servita a coprire le perdite derivanti dalla acquisizione di banca Antonveneta; un clamoroso errore da parte degli ex vertici Mps che ha determinato il dissesto finanziario in cui ora versa la terza banca italiana per dimensioni. Dicono i giudici: “Il collegamento tra la ristrutturazione di Alexandria e l’acquisto dei Btp al 2034, enfatizzato dai pm, a seguito del reperimento del mandate agreement nella cassaforte […] per colorare l’illiceità dell’operazione complessiva, sembra, in realtà, al di là del significato che potrà assumere la circostanza alla stregua di altre ipotesi criminose che appaiono estranee alla attuale fase cautelare, la giusta chiave per interpretare il significato economico della rovinosa dissipazione operata, secondo l’inquirente, sul patrimonio di Mps”, si legge ancora nell’ordinanza.

    L’inchiesta sui derivati che ha tenuto in scacco la politica nazionale per mesi, riempiendo le pagine dei quotidiani, si trasforma dunque, per il riesame, soltanto in una “giusta chiave” per descrivere il dissesto del Monte. E’ un depotenziamento notevole dell’inchiesta giudiziaria rispetto alle premesse di sconquasso iniziali. Premesse che erano vacillate già nel mese di giugno quando gli ex dirigenti Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e il capo dell’Area finanza, Gianluca Baldassarri, sono stati chiamati al “giudizio immediato” per “ostacolo all’autorità di vigilanza” e non per altri reati più gravi ipotizzati in passato: la procura ha raggiunto un obiettivo minimo. Quest’ultima azione della magistratura rafforza peraltro l’ipotesi, sostenuta anche dal Foglio, secondo la quale il contratto con Nomura è stato in realtà vidimato a tutti i livelli di controllo interni al Monte dei Paschi, perché altrimenti anche la banca stessa avrebbe esposto denuncia per “truffa” nei confronti dei suoi ex vertici, ma non l’ha mai fatto. Va aggiunto che i pubblici ministeri probabilmente presenteranno ricorso  in Cassazione contro la decisione del riesame. Allo stesso tempo è la Fondazione Monte Paschi a volere insistere nell’accusare le banche d’affari con cui il Monte ha operato in passato, nonostante le ormai flebili prove a conforto.

    I borbottii della politica non funzionano più
    Due settimane fa, la Fondazione ha chiesto il risarcimento danni a Nomura e Deutsche Bank. L’istituto tedesco aveva stipulato con Mps un contratto simile a quello di Nomura, che aveva come oggetto il derivato Santorini. La banca tedesca, la cui sede – a differenza di quella di Nomura – non è stata perquisita, ha rimandato all’ente senese qualsiasi addebito (“l’operazione è stata soggetta ai rigorosi processi interni di approvazione di DB e ha ricevuto la necessaria autorizzazione di Banca Mps, a sua volta supportata da consulenti indipendenti”, ha risposto in una nota).

    La mossa della Fondazione cadeva a ridosso di due appuntamenti chiave: il primo è la  riforma dello statuto bancario per consentire ai soci, diversi dalla Fondazione, di entrare in modo significativo nel capitale di Mps per rendere così la banca contendibile sul mercato; il secondo è l’Assemblea dei soci in programma questo giovedì. E’ una prassi che pare consolidata a Siena, quella di lanciare strali, o comunque dare particolare risalto mediatico a vicende legate al Monte, alla vigilia di appuntamenti importanti. Stavolta però la Fondazione, da sempre il trait d’union tra banca e politica, difficilmente avrà la meglio sulle banche d’affari. Allo stesso modo i politici senesi, contrari al rinnovamento, non riescono a influenzare la strategia di Mps come un tempo. La riforma statutaria infatti passerà: avere più del 4 per cento del capitale azionario non sarà più una prerogativa della Fondazione. Era un obiettivo del nuovo management e un requisito richiesto dalla Commissione europea per avallare il prestito di 4 miliardi da parte dello stato.

    Ferrara Montepaschi e Ilva, la nostra lotta con gli idoli della piazza

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.