Piccolo manuale dell'autoscatto, cioè l'evoluzione dell'Io e degli spaghetti

Annalena Benini

Bisogna inclinare la testa, tenere il telefono leggermente sopra la linea dello sguardo (per ingrandire gli occhi e snellire il volto), evitare nel modo più assoluto il flash, che spara e fa l’effetto foto segnaletica, sorridere ma senza troppi denti, trattenere un po’ d’aria fra le guance in modo da far risaltare le labbra, inventarsi un’aria furba, o almeno maliziosa, qualcosa rispetto a cui poter dire: era un autoscatto autoironico. La posa è importante, scrive Elizabeth Day in un piccolo saggio sull’Observer intitolato: “Me, my Selfie and I”, e il Selfie è l’autoscatto (da non confondere con la foto allo specchio), fenomeno planetario di autobiografia di sé.

    Bisogna inclinare la testa, tenere il telefono leggermente sopra la linea dello sguardo (per ingrandire gli occhi e snellire il volto), evitare nel modo più assoluto il flash, che spara e fa l’effetto foto segnaletica, sorridere ma senza troppi denti, trattenere un po’ d’aria fra le guance in modo da far risaltare le labbra, inventarsi un’aria furba, o almeno maliziosa, qualcosa rispetto a cui poter dire: era un autoscatto autoironico. La posa è importante, scrive Elizabeth Day in un piccolo saggio sull’Observer intitolato: “Me, my Selfie and I”, e il Selfie è l’autoscatto (da non confondere con la foto allo specchio), fenomeno planetario di autobiografia di sé. Anche dei propri pasti, spesso: il fritto di mare mangiato su quell’isola di scogli diventa un racconto indispensabile, da fotografare e condividere sui social network, un altro modo per farsi un autoritratto, per dire: io. Io mangio, io strizzo l’occhio, io mando baci con le labbra a forma di cuore, io sono sulla spiaggia e mi autoritraggo il costume da bagno, il tatuaggio, il broncio, i piedi smaltati. E’ un piccolo romanzo narciso e immediato, costruito con la grandiosa possibilità di scartare le immagini malriuscite, gli occhi chiusi, i capelli smorti, l’aria infelice, e costruirsi un sé carino, magari con i contorni sfumati, qualcosa che gli altri desiderino ritwittare, condividere oppure salutare con un pollice alzato o con molti cuori.

    Se nessuno mette un pollice, la giornata è distrutta, la vita fa schifo, nessuno ci vuole bene e Twitter è un cesso di posto che andrebbe chiuso per sempre, pieno di gente arrogante. Se invece i like si affollano, scende come una calma esistenziale, l’idea che il mondo sia ancora pieno di belle speranze, e valga quindi la pena donargli i propri autoscatti in vacanza, al lavoro, prima di uscire a cena con il vestito nuovo: offrire un diario visivo di un momento felice, o semplicemente di un’angolatura magica in cui si è davvero magre (ci sono forme di autoscatto meno innocenti, anche autovideo non tutti condivisibili con l’umanità intera, e i genitori di adolescenti sono molto preoccupati per questo gioco di foto troppo sexy, scambiate come figurine). L’iPhone 4 ha introdotto qualche anno fa la possibilità di guardarsi, mentre ci si autoscatta, ed evitare così di girare il telefono, scattare senza sapere se ci si sta fotografando uno sguardo intenso, un angolo di orecchio o un pezzo di divano (più complicato è l’autoscatto con il sole in faccia, in cui non si vede nulla e si fa clic a caso, mostrando così un non romantico braccio teso a immortalarci).

    Del resto, tutti abbiamo provato qualche volta a dire: dài, fammi una foto davanti a questo mare così bello, e il risultato è stato quasi sempre deprimente, motivo di litigio perfino (“questa non è una foto, è un’offesa, è una mancanza d’amore”, “ma tesoro, perdonami, la faccia è la tua”, “ti odio vattene per sempre”), mentre da soli possiamo autoscattarci e autoscartarci fino allo sfinimento, anche per strada lo fanno tutti: nessuno ci prenderà per pazzi se mandiamo un bacio a un telefono o gli mostriamo le gambe nude. E’ il perfezionamento dei decenni dell’Io, con la possibilità di manipolare la nostra immagine e trasformarla in ciò che crediamo o speriamo di essere. Autoscattiamo e condividiamo è quello che vogliamo che gli altri conoscano di noi, anche gli spaghetti con le cozze. Ma le foto scartate e le posizioni assurde che assumiamo, da soli in cima a una montagna, rischiando di cadere in un dirupo per un autoscatto affascinante, sono l’autobiografia più bella.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.