Renzi piace ancora alla destra?

Claudio Cerasa

L’articolo che state per leggere nasce da una questione che da mesi vive sottotraccia nel dibattito politico legato al futuro del centrosinistra e che nelle prossime settimane, a prescindere da quale sarà il destino del governo guidato da Enrico Letta, diventerà uno dei grandi fili conduttori sia della campagna congressuale che si accinge ad affrontare il Partito democratico sia della campagna elettorale che per forza di cose ogni tanto si incomincia a intravedere dietro l’orizzonte della grande coalizione.

    L’articolo che state per leggere nasce da una questione che da mesi vive sottotraccia nel dibattito politico legato al futuro del centrosinistra e che nelle prossime settimane, a prescindere da quale sarà il destino del governo guidato da Enrico Letta, diventerà uno dei grandi fili conduttori sia della campagna congressuale che si accinge ad affrontare il Partito democratico sia della campagna elettorale che per forza di cose ogni tanto si incomincia a intravedere dietro l’orizzonte della grande coalizione. La questione, o meglio la domanda, è semplice, e al suo interno contiene diversi elementi che, per quanto possa sembrare paradossale, spiegano bene alcune ragioni della debolezza di questo governo e, contemporaneamente, della sua sostanziale forza di fondo. Prima di arrivare alla domanda provate però a fare un esperimento. Mettete attorno a un tavolo dieci persone, cinque elettori di centrodestra e cinque elettori di centrosinistra, e poi chiedete a queste persone che cosa ne pensano di Matteo Renzi. Il risultato sarà sorprendente: i cinque elettori di centrodestra, con gli occhi pieni di cuoricini, diranno tutto il bene possibile sul sindaco di Firenze; mentre i cinque elettori di centrosinistra si perderanno in mille avversative, e in mille “ma”, in mille “però”, e si divideranno tra chi considera Renzi il nuovo messia del centrosinistra e tra chi invece considera Renzi come un corpo estraneo per il centrosinistra. Provate, provate e provate ancora e vedrete che, a meno che tra i cinque amici di centrodestra non ci sia Renato Brunetta, alla fine il risultato sarà sempre quello, e la domanda vi verrà naturale: ma per quale  ragione Matteo Renzi piace al centrodestra?

    I più spiritosi tra i fondamentalisti dell’antirenzismo, che ovviamente uscirebbero galvanizzati dall’esperimento, potrebbero essere tentati dal mettere subito un punto a quest’articolo ricordando al cronista che la questione è più semplice di quanto la si voglia fare: Renzi è di destra, e dunque piace alla destra. Chiaro, no? Facili ironie a parte, il tema del perché il sindaco di Firenze sia così intimamente apprezzato all’interno del popolo del centrodestra è un argomento cruciale per avere in mano una chiave di lettura utile a capire qualcosa di più sia rispetto alla tenuta del governo sia rispetto alla partita legata al futuro del Pd. Dal punto di vista del Partito democratico, l’attenzione prestata da Renzi al popolo del centrodestra è testimoniata, tra le altre cose, dalla volontà del sindaco di voler alleggerire lo statuto del Pd in modo da coinvolgere alle primarie anche gli elettori tradizionalmente distanti dal mondo della sinistra, ed è in questo senso che Renzi, anche a costo di cadere in qualche contraddizione, ripete incessantemente che le primarie devono essere aperte al maggior numero possibile di elettori.
    Dal punto di vista del governo, invece, la partita è più complicata, e va osservata sotto due lenti di ingrandimento. Da un lato, Renzi (la cui forza oggi è proprio legata al fatto di essere un candidato che potrebbe raccogliere voti non solo a sinistra ma anche a destra) viene osservato dai ministri del governo Letta allo stesso modo con cui un benzinaio scruterebbe un gigantesco falò acceso di notte accanto a una pompa di benzina: la luce generata dal falò potrebbe ovviamente aiutare il benzinaio a lavorare meglio; ma alla lunga è evidente che la dimensione del falò rischia di causare un’esplosione bestiale. Se dunque la vicinanza di Renzi alla segreteria del Pd potrebbe generare un naturale cortocircuito nei rapporti tra il partito e il governo (e Renzi sa che la sua capacità di attirare consensi anche da altri schieramenti non è eterna e potrebbe essere compromessa da una lunga attesa generata dal governo delle larghe intese, ed è per questo che ogni volta che si presenta l’opportunità i renziani sono portati a mettere il dito nelle piaghe del governo, è successo anche ieri con il caso kazako); dall’altro lato è anche vero che il fuoco prodotto dalla presenza in campo di Renzi costituisce un deterrente mica da poco per il centrodestra – e considerando che il Pdl teme la capacità del sindaco di Firenze di attrarre voti dal suo bacino elettorale è chiaro che una delle ragioni per cui il Popolo della libertà ci penserà due volte prima di staccare la spina al governo Letta è legata proprio al fatto che con Renzi in campo la campagna elettorale del Pdl rischia di essere più complicata del previsto. E dunque rieccoci al punto di partenza: ma perché Renzi piace così tanto al centrodestra (al punto che negli ultimi tempi anche alcuni ex Pdl sono finiti sotto il mantello renziano, vedi il caso del sindaco di Agrigento, Marco Zambuto)? E perché piacere al centrodestra è considerato un tabù per una buona parte del centrosinistra (al punto che nel Pd c’è chi sarebbe disposto a uscire persino dal partito nel caso in cui Renzi dovesse conquistare la segreteria)?

    Il tema, conversando con un po’ di osservatori incuriositi dalla corsa del Rottamatore, può essere analizzato seguendo almeno tre tracce: una riguarda una questione culturale, una riguarda una questione di contenuti, un’altra riguarda una questione estetica. Dal punto di vista culturale, i primi spunti di riflessione ce li offrono il professor Angelo Panebianco, professore di Scienze politiche all’università di Bologna ed editorialista del Corriere della Sera, e il professor Gianfranco Pasquino, politologo ed ex senatore del Pci. Il ragionamento di Panebianco parte dalla natura del blocco psicologico con cui il Pd si ritrova a fare i conti ogni volta che nomina la parola “Renzi” e arriva alla ragione per cui nel mondo del centrodestra il sindaco, il più delle volte, viene osservato con occhio più che benevolo. Panebianco la mette così. “In tutta la storia della sinistra il leader è sempre stato espressione dell’apparato, di un gruppo di persone più ampio, di una sorta di cervello collettivo. Renzi, a prescindere poi dal giudizio che ognuno di noi può dare del sindaco, ha imposto un modello che finora non si era mai visto nella sinistra italiana, in cui la leadership non corrisponde a tutto questo, e in cui si va ad affermare un messaggero che mette al centro del suo messaggio l’importanza dell’individuo. Renzi, in buona sostanza, si presenta come un leader  che declina un tipo di ‘leadership capitalistica’ in cui viene affermato un principio basilare: che un collettivo può avere successo solo se guidato non solo da un’intelligenza collettiva ma da un leader plenipotenziario che indica la rotta e trasforma la sua leadership in valore aggiunto. Il tema della valorizzazione dell’individuo, in questo senso, è un concetto che in Italia da secoli è stato fatto proprio dalla destra, e io sono convinto che sia questa la ragione per cui molti elettori di centrodestra vedano oggi in Renzi un politico in grado di dare al nostro paese un tocco simile a quello che Berlusconi aveva promesso di dare all’Italia vent’anni fa”.

    “La verità – ragiona invece Pasquino – è che Renzi piace alla destra per le stesse ragioni per cui non piace alla sinistra. Piace perché è un leader giovane, mentre a sinistra come è noto per essere un leader occorrono almeno trent’anni di carriera. Piace perché è dinamico e disinvolto, mentre a sinistra i leader che piacciono sono sempre quelli un po’ lenti nei movimenti che calcolano qualsiasi mossa che fanno e che non si muovono mai in modo istintivo. Piace perché finalmente non gliele manda a dire ai vecchi parrucconi dell’apparato, mentre come è noto a sinistra se non fai parte dell’apparato non fai parte del ‘noi’ ma fai parte del ‘loro’, dei nemici, dei cattivi. Semplice no?”.
     Un’idea simile a quella di Panebianco e di Pasquino sulla ragione per cui Renzi riscuote una simpatia all’interno del centrodestra se l’è fatta anche un giovane sindaco del Pdl che da due anni prova a muoversi nel suo partito con un passo simile a quello del rottamatore. Il sindaco si chiama Alessandro Cattaneo, ha trentaquattro anni, governa da quattro anni la città di Pavia e parlando con il Foglio prova a spiegare la ragione per cui spesso si ha l’impressione che il sindaco di Firenze quasi quasi piaccia più a destra che a sinistra.
    “Dal punto di vista mediatico – dice Cattaneo – oggi Renzi è sicuramente il più berlusconiano dei leader, e bisogna dargli atto che il suo tentativo di stravolgere alcune ritualità del nostro paese lo rendono oggi uno dei personaggi più moderni del panorama politico. Naturalmente, dietro l’appeal che Renzi ha all’interno del nostro mondo c’è anche il suo tentativo di far diventare patrimonio della sinistra alcuni storici cavalli di battaglia della destra (penso alle sue posizioni sulle politiche del lavoro, sulle privatizzazioni delle municipalizzate, sul ruolo dei sindacati), ed è evidente che per noi del Pdl la forza di Renzi è una minaccia che paradossalmente ci porta a restare uniti all’interno del governo delle larghe intese. Insieme ai Fassina, agli Orfini e ai Vendola sinceramente credo però che a lungo andare Renzi perderà la sua forza propulsiva. Ma se nei prossimi mesi il Pdl non valorizzerà i vari Renzi che ci sono sul territorio – e se alcuni esponenti del mio partito continueranno ad attaccarlo in modo un po’ strumentale dopo averlo elogiato per mesi durante le primarie del centrosinistra solo per provare a dividere il fronte opposto al nostro – non mi sorprenderei se tanti elettori, di fronte a una sinistra a trazione renziana, fossero tentati dal cambiare squadra”. “Il vero punto – suggerisce Luca Sofri, direttore del Post, osservatore attento dell’universo renziano – è che gli elettori di destra sono disperati, e non hanno nessuno che dia loro fiducia, speranza o passione – hanno persino votato di nuovo Berlusconi, pensa come stanno messi – e quindi si prendono di corsa uno che è in grado di farlo, e che non li criminalizza né li tratta da nemici in una guerra civile, ma da italiani come lui e tutti gli altri”. Accanto alle questioni legate ai contenuti, e alla disperazione di un elettorato di centrodestra che giorno dopo giorno si ritrova a vivere una condizione paradossale in cui vi è un partito che in sostanza non esiste e un leader che potrebbe essere interdetto dal Parlamento, esiste poi un tema di carattere persino antropologico che riguarda il rapporto tra Renzi e il centrodestra.

    “Una delle ragioni per cui la presenza in campo del sindaco è una minaccia per il Pdl – dice Giovanni Orsina, docente di Storia Comparata alla Luiss di Roma – è che Renzi ha dimostrato di non essere schifato dagli elettori del centrodestra e che gli elettori di centrodestra di fronte a Renzi non si sentono giudicati in modo negativo. E in un certo modo, quando il sindaco – rinnegando l’idea che possa esistere un’Italia giusta, ovvero quella di sinistra, che si contrappone a un’Italia non giusta, ovvero quella di destra – dice che lui vuole cambiare l’Italia e non vuole cambiare gli italiani fa passare impercettibilmente un messaggio importante che mi sentirei di riassumere così: gli elettori di centrodestra non sono dei maledetti puzzoni da cui – vedi il caso Briatore – la sinistra deve stare lontano ma sono dei semplici elettori che devono essere conquistati per vincere le elezioni. Per dirlo con uno slogan: Renzi piace agli elettori di destra perché gli elettori di destra piacciono a Renzi. Poi – prosegue Orsina – ovviamente c’è una questione più epidermica che riguarda il fatto che Renzi, come gli elettori del centrodestra, è un anti comunista che porta in campo un ‘noi’ diverso da quello inteso dai vecchi discepoli del Pci. Ma questo non mi sembra il punto. Semmai, direi che conta più la questione del giubbottino di pelle…”. Il giubottino, già. La storia della famosa giacca di pelle indossata durante la prima puntata stagionale di Amici è stato uno show che ha messo a nudo una certa idea di rivoluzione estetica con cui Renzi sta provando a connotare il suo profilo da leader. Ovviamente, il senso della partecipazione al programma di Maria De Filippi era quello di conquistare un pubblico giovane che solitamente sfugge ai radar della politica. Ma dietro a quella scelta, come fa notare Andrea Romano, deputato montiano e autore anni fa di un libro di successo sulla storia dei “Compagni di scuola” del Pci, c’è un nuovo e preciso tratto della possibile e futura sinistra italiana. Esagerazione? Romano si spiega così.

    “Il tentativo di Renzi di voler uscire dai confini della vecchia sinistra è una questione che è a metà strada tra la politica, l’estetica e il pop. Renzi ha capito che un leader che vuole governare l’Italia non può far finta che negli ultimi anni il modo di fare politica del nostro paese non sia stato rivoluzionato da Berlusconi. Non è una questione di merito, è una questione di metodo: e Renzi, oserei dire, si trova in una condizione simile a quella in cui si ritrovò dopo la Seconda Guerra mondiale Palmiro Togliatti. All’epoca, si capì subito che non si poteva far finta che il fascismo non aveva cambiato il paese, e Togliatti lo capì. Oggi, invece, pur con tutte le ovvie differenze del caso, è evidente che fingere che il berlusconismo non abbia cambiato il paese è semplicemente ridicolo, e in questo senso chiunque vorrà governare un domani dovrà adattarsi a un nuovo linguaggio, dovrà farsi contaminare e non potrà tornare ai geroglifici. Il populismo democratico declinato da Renzi – conclude Romano – è un buon esempio di come ci si possa impossessare degli strumenti lasciati sul campo dal Cavaliere. E in questo senso la particolarità di Renzi, cosa per la quale credo venga apprezzato anche non dai soliti e tradizionali elettori di sinistra, è che il sindaco di Firenze non ha paura di sporcarsi le mani, e di miscelare linguaggi diversi. Finora il massimo della trasgressione per un leader del Pd è stato quello di mettere insieme un po’ Pasolini e un po’ Jovanotti, e al massimo un po’ di Madre Teresa di Calcutta. Oggi invece Renzi sta provando a fare una cosa diversa, a giocare con gli stili, ad aprire i confini territoriali della sinistra, a mettere insieme non solo Kennedy, Obama e Steve Jobs ma anche, per capire, le comparsate ad Amici, le foto alla Fonzie, la musica dei Tacabrò. Mi rendo conto che nel Pd per qualcuno questo possa sembrare uno scandalo, una violazione del codice di deontologia del buon politico di sinistra, ma senza tentare di produrre questa miscela la sinistra non vince, e se Renzi riesce a imporre questo modello il Pd, da domani, potrebbe fare un salto in avanti, conquistare nuovi elettori e, semplicemente, non fare più la fine di De Coubertin”.

    Ecco. Questa dunque è la situazione oggi. Renzi sa di avere ancora un certo appeal nell’elettorato rivale ma allo stesso tempo sa anche che non sarà facile mantenere questo profilo qualora dovesse diventare segretario del Pd. Il rischio di spostare il suo baricentro sul versante sinistro sarà molto forte e in più ci sono altre questioni da non sottovalutare: i sondaggi da qualche settimana lo danno in leggera discesa, il Pdl da qualche mese ha cominciato a prenderlo di mira e prima del caso kazako i consensi del giovane Letta erano in continua crescita (e persino migliori di quelli di Renzi). Tutto dunque si gioca sul filo e tutto dunque sarà in bilico ancora chissà per quanto. Di sicuro però il falò del rottamatore è stato ormai accesso. E a prescindere da quale sarà il destino del governo, e a prescindere se il falò poi si trasformerà in un incendio, il sindaco di Firenze oggi più che mai sa che per arrivare alla guida del partito da una posizione utile a conquistare un domani il governo non potrà che continuare a coltivare un amore scandaloso e proibito: quello, ovviamente, con i suoi elettori di centrodestra.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.