Self help, miracolismo, individualismo: un Papa tra le sette
Dal Brasile promettono che la ventottesima Giornata mondiale della gioventù – si inizia lunedì prossimo, con Papa Francesco che incontrerà la presidente Dilma Rousseff non appena sceso dall’Airbus 330 dell’Alitalia – sarà “lo show del futuro”. E a guardare il palco progettato dall’architetto Joao Uchoa c’è da crederci. Una struttura che definire moderna è dire poco: enorme piattaforma circolare di quattromila metri quadrati, altare in stile minimal, enormi torri di ferro a fare da sfondo (secondo i designer simboleggiano un organo a canne tipico delle cattedrali gotiche), croce di trentatré metri e semiarchi a ricordare due mani in preghiera.
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Dal Brasile promettono che la ventottesima Giornata mondiale della gioventù – si inizia lunedì prossimo, con Papa Francesco che incontrerà la presidente Dilma Rousseff non appena sceso dall’Airbus 330 dell’Alitalia – sarà “lo show del futuro”. E a guardare il palco progettato dall’architetto Joao Uchoa c’è da crederci. Una struttura che definire moderna è dire poco: enorme piattaforma circolare di quattromila metri quadrati, altare in stile minimal, enormi torri di ferro a fare da sfondo (secondo i designer simboleggiano un organo a canne tipico delle cattedrali gotiche), croce di trentatré metri e semiarchi a ricordare due mani in preghiera. Alta tecnologia, assicurano entusiasti gli organizzatori. Perché la settimana in terra brasiliana del primo Papa latinoamericano dovrà essere uno spettacolo indimenticabile, unico. Non a caso, il cardinale Stanislaw Rylko, prefetto della Congregazione per i laici e quindi sovrintendente massimo dell’evento, sottolinea che uno degli aspetti da non tralasciare è “la fede del popolo latinoamericano, una fede esuberante, piena di entusiasmo e di gioia che caratterizzerà questa Giornata mondiale della gioventù”. E se show dev’essere, lo sia fino in fondo: pochissimo latino durante le celebrazioni, Via crucis sulla spiaggia di Copacabana, niente gregoriano o “Tu es Petrus” del maestro perpetuo della Cappella musicale pontificia sistina, Domenico Bartolucci, come accaduto a Madrid due anni fa, ma tante chitarre e musiche locali.
Un momento di profondo raccoglimento, però, Francesco l’ha voluto per quella che considera forse la tappa principale del suo ritorno in America meridionale: la visita al Santuario di Nostra Signora di Aparecida. Il Papa ha disposto che la messa sia celebrata all’interno della basilica e non fuori, all’aperto. Lo ha confermato proprio ieri, il cardinale Raymundo Damasceno Assis, che di Aparecida è arcivescovo. Bergoglio vuole immergersi nel clima di preghiera, in silenzio, prima di “andare e fare discepoli tutti i popoli”, come recita lo slogan scelto per l’evento. D’altronde, ricordava sempre Benedetto XVI, le giornate mondiali della gioventù non sono altro che “una nuova evangelizzazione in atto”. E di essere rievangelizzato il Brasile ne ha tanto bisogno. I numeri parlano chiaro: i cattolici (pur rimanendo in maggioranza) sono oggi il 68 per cento circa della popolazione. Trent’anni fa erano il 90, vent’anni fa l’81. Una china discendente che ora rallenta e ora accelera, ma che non sembra fermarsi. Francesco lo sa bene, lui che ha tra i suoi migliori amici il cardinale Claudio Hummes. Arcivescovo di San Paolo del Brasile prima e prefetto del Clero poi, Hummes (francescano) era sulla Loggia delle Benedizioni in San Pietro mentre Bergoglio appariva per la prima volta vestito di bianco. E sempre Hummes (lo ha detto il Papa, qualche giorno dopo l’elezione) ha suggerito all’allora arcivescovo di Buenos Aires di prendersi il nome di Francesco, per “ricordarsi dei poveri”. L’ex arcivescovo di San Paolo (diocesi più grande del mondo ora retta dal cardinale Odilo Pedro Scherer) è l’uomo che durante il Sinodo dei vescovi sull’eucaristia del 2005 in Vaticano si alzò per presentare il dramma della chiesa carioca: “In Brasile i cattolici diminuiscono in media dell’uno per cento l’anno. Fino a quando sarà ancora un paese cattolico?”, si domandò con angoscia. Il quadro già allora era sconfortante: “Risulta oggi (nel 2005, ndr) che per ogni sacerdote cattolico ci sono già due pastori protestanti, la maggior parte inquadrati nelle chiese pentecostali”.
Le sette prendono sempre più terreno, attirano i giovani con messe che sembrano più grandi feste comunitarie che celebrazioni religiose; i pastori, armati di microfono, danno l’idea di essere show-men di provincia. I raduni di massa degli evangelici spopolano, ogni piccola setta si cerca un testimonial (spesso vip) da esporre su cartelloni pubblicitari a mo’ di richiamo. Poi c’è il merchandising sviluppato attraverso reti televisive, giornali, radio e siti internet. E la chiesa cattolica, in tutto questo, soffre. E arranca, apparendo vecchia, anticaglia da museo, come disse anche Francesco. Il rischio è di rincorrere i movimenti protestanti, copiandoli o adattando le liturgie cattoliche a quelle delle sette. Più volte, negli anni, l’episcopato brasiliano su questo tema si è lacerato. Tentativi di invertire la rotta se ne sono fatti tanti, e uno dei più attivi è il sacerdote di origine italiana Marcelo Rossi, che tenta di bloccare l’emorragia vendendo cd, scrivendo libri, organizzando raduni “di musica e preghiera”. Ha spinto per la costruzione del santuario Theotokos Madre di Dio di San Paolo, che si estende su 30 mila metri quadrati di superficie e che viene definito senza imbarazzo anche un’“attrazione turistica”. Il cardinale Rylko conosce la situazione e a Radio Vaticana lo dice senza trincerarsi dietro perifrasi diplomatiche né ridimensionando l’emergenza: “La pietà popolare, grande ricchezza dell’America latina, si trova oggi ad affrontare la sfida dell’aggressiva invasione delle sette”. Ecco perché bisogna “evangelizzare in profondità”. Da qui, spiega ancora il porporato polacco, nasce il progetto della “missione continentale” in cui un ruolo fondamentale spetta ai giovani.
Quando Joseph Ratzinger scelse Rio come sede per la Giornata mondiale della gioventù, non lo fece a caso o per mera rotazione geografica come si trattasse dei Mondiali di calcio o le Olimpiadi. Sapeva che la situazione nel cuore del continente dove comunque vive il 42 per cento dei cattolici di tutto il mondo – come ricordava ieri sul Foglio il cardinale Walter Kasper, già presidente del Pontificio consiglio per l’Unità dei cristiani – era critica.
Benedetto XVI, l’uomo che mise la nuova evangelizzazione in testa alla propria agenda pastorale (tanto da creare perfino un pontificio consiglio ad hoc), ad Aparecida c’era stato nel maggio del 2007. L’occasione era data dallo svolgimento in quella sede della quinta Conferenza generale dei vescovi dell’America latina e dei Caraibi. Fu Ratzinger ad aprire i lavori, dando indicazioni generali sui problemi del continente ma lasciando ai vescovi locali il compito di discutere e di lavorare al documento finale. In piena libertà e autonomia, tanto che il presidente del comitato incaricato di redarre il documento finale giudicò “grandissimo” il gesto del Papa. Quell’uomo era il cardinale Jorge Mario Bergoglio, che definì la relazione conclusiva della conferenza “l’Evangelii nuntiandi dell’America latina”. Conversando con la rivista 30Giorni, l’allora primate della chiesa argentina disse che dal santuario mariano nel cuore del Brasile si alzava l’invito a uscire, a porre l’attenzione sulla missione. “Il rimanere fedeli implica un’uscita. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita”, aggiungeva il porporato gesuita. Parlava dell’importanza di “proiettarsi verso le periferie, non solo quelle geografiche o culturali, ma anche quelle esistenziali, affinché la chiesa sia evangelizzatrice”.
Concetti diventati familiari una volta che Bergoglio ha smesso l’abito cardinalizio per indossare la talare bianca di Romano Pontefice. Parlando in Brasile, sei anni fa, l’allora arcivescovo di Buenos Aires rifletteva sulle chiese vuote e sull’emorragia di fedeli verso il protestantesimo che non accennava ad arrestarsi. “Se parte del nostro popolo di battezzati non sperimenta la propria appartenenza alla chiesa si deve, in molti casi, a una evangelizzazione superficiale che caratterizza gran parte della popolazione, a un cattolicesimo tradizionale senza catechesi e senza vita sacramentale. Se questo accade è anche per l’atmosfera poco accogliente che si respira nelle parrocchie e comunità, e in alcuni luoghi anche per una liturgia altamente intellettuale e verbale e per un atteggiamento burocratico nell’affrontare i problemi complessi della vita delle persone nelle nostre città”, diceva Bergoglio nell’intervento tenuto ad Aparecida in qualità di presidente della Conferenza episcopale argentina.
Ora, tornando per la prima volta nell’emisfero meridionale dal quale proviene, il gesuita Francesco dovrà convincere i cattolici a non farsi ammaliare dalle liturgie musicali e inebrianti delle sette caratterizzate da una spiritualità “incentrata sulla ricerca di benessere individuale, che nega la sofferenza come parte della vita, che si trasforma in auto aiuto o pseudo miracolo che consente di raggiungere i propri obiettivi, senza un ulteriore impegno per la società”. Un viaggio da missionario, la messa in pratica di un’agenda pastorale che ha contrassegnato questi primi quattro mesi di Pontificato.
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