Ci sono poche certezze per i banchieri centrali avanguardisti

Alberto Brambilla

Fare il banchiere centrale è diventato ben più difficile che “pattinare su un lago ghiacciato con la nebbia”, come spesso ama ripetere il capo della Federal Reserve di Dallas, Richard Fisher, un antagonista delle politiche monetarie troppo accomodanti. I banchieri centrali sono infatti ben oltre la “terra incognita”, terreno in cui esplorano gli interventi non convenzionali per sostenere l’economia; ciascuno secondo i propri scopi, consentiti dai rispettivi mandati. In politica monetaria, infatti, poco si può dare per scontato: il “non convenzionale” sarà la norma e l’imprevedibilità degli effetti di questi interventi, si passi il termine “inconsueti”, sarà la regola.

    Fare il banchiere centrale è diventato ben più difficile che “pattinare su un lago ghiacciato con la nebbia”, come spesso ama ripetere il capo della Federal Reserve di Dallas, Richard Fisher, un antagonista delle politiche monetarie troppo accomodanti. I banchieri centrali sono infatti ben oltre la “terra incognita”, terreno in cui esplorano gli interventi non convenzionali per sostenere l’economia; ciascuno secondo i propri scopi, consentiti dai rispettivi mandati. In politica monetaria, infatti, poco si può dare per scontato: il “non convenzionale” sarà la norma e l’imprevedibilità degli effetti di questi interventi, si passi il termine “inconsueti”, sarà la regola. L’ha sostenuto sul Financial Times l’economista Adam Posen, attuale presidente del Peterson Institute for International Economics, e già membro della Bank of England (BoE). Posen è un fervente sostenitore dell’espansione monetaria; nel suo periodo “londinese” ha infatti condotto una lunga battaglia perché a Threadneedle Street si stampasse più denaro. Anche da professore, guarda lontano. E spiega sul quotidiano finanziario inglese che i riferimenti finora consueti (e rassicuranti) della politica monetaria, come l’obiettivo di una certa inflazione o di un dato tasso d’interesse, non sono più un ancoraggio solido, una garanzia, né per i banchieri né per gli investitori. “Negli ultimi trent’anni, l’economia e la politica monetaria hanno introiettato l’assunto confortevole secondo cui i movimenti dei tassi d’interesse delle banche centrali avrebbero influenzato l’economia in una maniera prevedibile”. Ciò ha “permesso ai banchieri centrali di reiterare la finzione che i loro interventi non impattassero in maniera differente su differenti gruppi, come gli obbligazionisti o i disoccupati. Combinato con i fortunati sviluppi della grande moderazione – quel quarto di secolo di crescita ragionevole e bassa inflazione cominciato nel 1984 – questo ha dato l’illusione di poter esercitare un relativamente preciso controllo degli esiti dell’inflazione e della crescita tramite la politica monetaria”. E’ un periodo concluso, morto:  si apre un nuovo panorama completamente diverso, secondo Posen. “La grande lezione della crisi è che non c’è alcun tasso d’interesse che rappresenta o è in grado di determinare le moderne condizioni del credito”, dice Posen, che aggiunge: “Recenti eventi mostrano la più complessa realtà di come la politica monetaria viene trasmessa all’economia reale”. Una realtà con cui le principali banche centrali dovranno confrontarsi.

    Il futuro è infatti incerto perché se il contesto è quello di un’espansione monetaria, detta Quantitative easing (Qe), che porta a inondare i mercati finanziari con denaro a basso costo – finora garantito per certo “stampando moneta” –, gli investitori cominciano a chiedersi se, quando e come l’abbondanza finirà. Due indizi importanti: il direttivo della BoE non sembra volere supportare i piani “espansionistici” del nuovo governatore Mark Carney, ma è soprattutto la Fed, guidata da Ben Bernanke, ad avere già ventilato la fine di un approccio accomodante, terrorizzando i mercati. Ieri la posizione della Fed è sembrata più morbida, perché Bernanke ha detto davanti al Congresso che la riduzione del programma di acquisto di bond non è “in alcun modo su un percorso predefinito” e quindi la Fed potrebbe lasciare il programma intatto o addirittura aumentare gli acquisti, se giustificati (per la Fed l’espansione non terminerà finché il tasso di disoccupazione non sarà al 6,5 per cento, a maggio era al 7,2). Le parole di Bernanke dimostrano però che la Fed naviga a vista. Questa posizione ondivaga della prima banca centrale del mondo rappresenta un’altra incognita, spiegata in un lungo rapporto diffuso ai clienti dell’Economist Intelligence Unit (Eiu), la branca del settimanale inglese concentrata sulle previsioni economiche. “Per circa cinque anni le banche centrali hanno inondato il sistema finanziario di liquidità, come risposta alla crisi economica […] Ora gli investitori cominciano a preoccuparsi circa quello che verrà dopo il Quantitative easing, e anche circa il ritorno di alti tassi d’interesse (una stretta, ndr). Il momento è ancora lontano – dice l’Eiu –  ma traghettare l’economia globale nella prossima fase della sua ripresa pone sfide imponenti”. Sfide che sono diverse per ciascuna banca centrale. Ecco quelle della Fed, della Banca centrale europea (Bce) e della Bank of Japan (BoJ).

    Un problema di “comunicazione” alla Fed
    La fine del Qe sarebbe una notizia positiva per i mercati perché, quando arriverà, vorrà dire che l’economia si è ripresa: è a questo che mira la Fed. Eppure “le maggiori sfide riguardano la capacità della Fed di gestire le reazioni dei mercati”, dice l’Eiu. A giugno “Bernanke non aveva lanciato messaggi da falco; e diversi membri del comitato direttivo avevano chiarito che non ci sarebbero stati cambiamenti imminenti. Eppure i mercati hanno tratto le proprie conclusioni, e si sono molto innervositi”. Servirà dunque una “chiara e prudente modalità di comunicazione” da parte della Fed e del successore di Bernanke, il quale lascerà il posto l’anno prossimo – forse – a Lawrence Summers, segretario al Tesoro sotto l’Amministrazione Clinton, di cui però non è al momento nota la posizione sull’exit strategy della Fed.

    Draghi “ostaggio” dell’ideologia tedesca
    L’Eurozona è in recessione, il credito non circola, l’espansione monetaria è lenta, e resta alto il rischio di un periodo di deflazione. Non solo. Per il presidente della Bce, Mario Draghi, il problema principale è essere “ostaggio della politica”. “Diversamente dalle altre Banche centrali di Stati Uniti, Giappone e Inghilterra, la Bce non è appoggiata da nessuno stato sovrano”, dice l’Eiu, che aggiunge: “C’è anche la posizione ideologica della Bundesbank”. “E anche se l’Eurozona nel complesso avrebbe bisogno di più inflazione, alcuni paesi ne abbisognano meno di altri”. Così gli analisti spiegano la “cautela” di Draghi e la permanenza di una politica più “restrittiva delle altre banche centrali” del pianeta.

    Il laboratorio “imperfetto” dell’Abenomics
    Secondo l’Eiu, la “non ortodossa” e “enorme” espansione monetaria cominciata in aprile dalla BoJ ha “generato ottimismo, sostenuto la Borsa, dato sollievo agli esportatori, deprezzato lo yen”. Il problema è la “complessiva strategia” del governo di Shinzo Abe (detta Abenomics): “Non è così convincente, e fa dubitare di un ritorno del Giappone a concrete prospettive di crescita”.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.