Kerry il superviaggiatore e Bibi sentono l'aria giusta per la pace

Rolla Scolari

Benjamin Netanyahu ha telefonato domenica al rais palestinese Abu Mazen per fargli gli auguri all’inizio del mese del digiuno sacro dei musulmani, Ramadan. “Spero che avremo l’opportunità di parlare tra noi non soltanto in occasione delle festività e che inizieremo a negoziare”, ha detto, anticipando le ancora incerte notizie di queste ore sulla possibile ripresa di colloqui diretti tra israeliani e palestinesi. Lo stesso giorno, il premier israeliano è comparso sugli schermi dell’emittente americana Cbs, a “Face the Nation”.

    Tel Aviv. Benjamin Netanyahu ha telefonato domenica al rais palestinese Abu Mazen per fargli gli auguri all’inizio del mese del digiuno sacro dei musulmani, Ramadan. “Spero che avremo l’opportunità di parlare tra noi non soltanto in occasione delle festività e che inizieremo a negoziare”, ha detto, anticipando le ancora incerte notizie di queste ore sulla possibile ripresa di colloqui diretti tra israeliani e palestinesi. Lo stesso giorno, il premier israeliano è comparso sugli schermi dell’emittente americana Cbs, a “Face the Nation”. Ha parlato poco di rapporti con i vicini palestinesi, tanto di minaccia nucleare iraniana, il tema che anima da sempre le sue battaglie politiche e che da anni prevale nel dibattito nazionale sulla questione palestinese. Eppure, negli ultimi mesi, la robusta retorica del premier sull’Iran ha perso d’intensità, lasciando spazio al decennale conflitto. Le ricorrenti dichiarazioni di Netanyahu sulla necessità di tornare a trattare con i palestinesi raccontano, secondo alcuni, di una sua nuova tentazione politica, sostenuta da sforzi americani.

    Il sesto viaggio nella regione di John Kerry è iniziato lunedì e questa volta ha fatto parlare. Ieri mattina il sito del quotidiano Haaretz scriveva che il segretario di stato americano potrebbe annunciare qualcosa di concreto già oggi. Poi, hanno frenato tutti: il partito di Abu Mazen, Fatah, riunitosi ieri, vorrebbe apportare cambiamenti alla proposta. Il governo israeliano nega di aver approvato una formula di ripresa dei negoziati che faccia riferimento ai confini del 1967, come era stato indicato in precedenza da fonti anonime. Con il ricorrere delle visite di Kerry, però, “Netanyahu improvvisamente usa toni nuovi e inconsueti”, ha scritto recentemente la rivista americana New Republic, aggiungendo che il primo ministro non soltanto parla dei palestinesi ogni volta che ne ha l’occasione, ma lo fa “usando termini radicalmente diversi dal solito, appropriandosi del punto di vista della sinistra, secondo la quale lo stato ebraico andrebbe incontro all’annientamento demografico se non firmasse la pace”. Di fronte alle parole forti di alcuni suoi ministri, nelle ultime settimane il premier è stato obbligato a difendere “l’impegno del governo per una soluzione a due stati”.

    Naftali Bennett, leader del partito di destra Focolare ebraico, vicino alle posizioni dei coloni, aveva detto per esempio a metà giugno che “l’idea di uno stato palestinese accanto a Israele è arrivata al capolinea”. In diverse occasioni, Netanyahu ha dichiarato che Israele sarebbe “pronto a negoziati diretti”. A fine giugno, mentre Kerry continuava a fare avanti e indietro tra Ramallah e Gerusalemme, fonti interne al Likud hanno rivelato al quotidiano Haaretz che il primo ministro sarebbe pronto a ritirarsi dal 90 per cento della Cisgiordania.
    “L’immagine diffusa di Netanyahu è quella di un politico che non vuole la pace”, dice al Foglio Stephen Miller, consulente politico ed ex portavoce del sindaco di Gerusalemme, Nir Barakat. Del premier si ricordano soprattutto i toni che usa sulla minaccia iraniana, gli acidi scambi di dichiarazioni con l’Amministrazione Obama sulle costruzioni israeliane nei Territori palestinesi e a Gerusalemme est. Il dissenso interno al partito e la constatazione che il suo corso politico si avvicina al termine rappresenterebbero però per Netanyahu una spinta a cercare di lasciare un’eredità, sulla questione del nucleare iraniano ma non soltanto. “Negli ultimi mesi abbiamo assistito, per esempio con la nomina a capo del comitato centrale del Likud del viceministro della Difesa Danny Danon, non certo un uomo di Bibi, a un indebolimento del premier”, spiega Miller. “La fine politica di Netanyahu si avvicina. Essere il leader che fa un’offerta concreta ai palestinesi potrebbe aiutarlo ad riacquistare punti e a dare forma alla sua eredità”.