
Un sublime pettegolo
Non è la prima volta che la voce di Orson Welles arriva a noi con ritardo esagerato. Nel 1968 Peter Bogdanovich gli fece una serie di interviste, le prime a Beverly Hills, poi in Messico e in Europa. Aveva intenzione di ricavarne un libro, come François Truffaut con Alfred Hitchcock. I nastri vennero trascritti e dimenticati in uno scatolone. L’intervistato cercava soldi per film che quasi mai riusciva a chiudere, campava facendo l’attore e incassava anticipi promettendo agli editori autobiografie. L’intervistatore ebbe il suo periodo d’oro, all’inizio degli anni 70, con “L’ultimo spettacolo”, “Ma papà ti manda sola?” e “Paper Moon”. Seguiti da tre disastri e dalla tragedia di Dorothy Stratten, ex playmate e sua amante, uccisa dal marito geloso dopo le riprese di “E tutti risero”.
Non è la prima volta che la voce di Orson Welles arriva a noi con ritardo esagerato. Nel 1968 Peter Bogdanovich gli fece una serie di interviste, le prime a Beverly Hills, poi in Messico e in Europa. Aveva intenzione di ricavarne un libro, come François Truffaut con Alfred Hitchcock. I nastri vennero trascritti e dimenticati in uno scatolone. L’intervistato cercava soldi per film che quasi mai riusciva a chiudere, campava facendo l’attore e incassava anticipi promettendo agli editori autobiografie. L’intervistatore ebbe il suo periodo d’oro, all’inizio degli anni 70, con “L’ultimo spettacolo”, “Ma papà ti manda sola?” e “Paper Moon”. Seguiti da tre disastri e dalla tragedia di Dorothy Stratten, ex playmate e sua amante, uccisa dal marito geloso dopo le riprese di “E tutti risero”.
Restituiti gli anticipi per le biografie mai scritte ed elaborato il lutto, i nastri rispuntarono alla fine degli anni 80. Nel 1992 uscì “Io, Orson Welles”, curato da Jonathan Rosenbaum (in Italia, da Baldini & Castoldi). Tra le altre cose il regista di “Quarto potere” racconta la sua passione per il teatro yiddish e il set romano di un film diretto da un “tizio di nome Steno”. Era “L’uomo, la bestia e la virtù”, molto liberamente tratto dalla commedia di Luigi Pirandello: “L’uomo era un comico italiano di nome Totò, che sosteneva di essere discendente di qualcuno tipo Carlo Magno; lo chiamavano ‘Sua Altezza’, perché sosteneva anche di essere un principe. Magari lo era. ‘Pronti per la prossima scena, Altezza’, gli dicevano; lui entrava sul set e gli tiravano una torta in faccia”.
Peter Bogdanovich ha un piccolo ruolo anche in quest’altra storia di nastri perduti e ritrovati. I fedeli resoconti – tra chiacchiere con il cameriere e flatulenze dell’amata cagnetta Kiki: “Per favore eviti di portarci i piatti nei prossimi due minuti” – delle conversazioni a tavola che Orson Welles quasi settantenne ebbe con Henry Jaglom. Curate da Peter Biskind, storico del cinema che celebrò la nuova Hollywood con il saggio “Easy riders, raging bulls. Come la generazione sesso-droga-rock’n’roll ha salvato Hollywood”, escono da Macmillan con il titolo: “My Lunches with Orson”. L’intervistatore era un tipetto ostinato che fece scrivere a Welles il suo ultimo copione, e gli diede la sua ultima parte d’attore in “Someone to love”, da lui diretto. Nato in una famiglia di russi emigrati – il padre era stato arrestato dopo la Rivoluzione d’ottobre per il pericoloso reato di capitalismo – aveva frequentato l’Actors Studio. Peter Bogdanovich gli aveva promesso un ruolo nel suo primo film, “Bersagli”, anno 1968: la storia di un vecchio attore dell’horror, Boris Karloff con la veste da camera di Boris Karloff, in ritiro perché non se la sente di competere con la violenza del mondo.
Promessa non mantenuta, per Jaglom fu il secondo duro colpo. Si era infatti convinto, del tutto unilateralmente, che la parte di Benjamin nel film di Mike Nichols “Il laureato” gli spettasse di diritto. Quando seppe che se l’era aggiudicata Dustin Hoffman approntò un piano B. Chiese a Peter Bogdanovich di presentargli Orson Welles, con l’intenzione di scritturarlo per il suo primo film, “A Safe Place”, accanto a Jack Nicholson. Bogdanovich nicchiò – sapeva per certo che arrivare con un copione in mano era il modo più sicuro per rendersi odiosi – e Jaglom stanò Welles in albergo. Orson gli aprì la porta in pigiama di seta viola: “Pareva un enorme grappolo d’uva” ricorda Jaglom. Il grappolo d’uva parlò: “Non recito in film scritti e diretti da esordienti”. (E allora “Quarto potere”, esordio di un genio di 25 anni? “Per me non vale, io sono l’eccezione a tutto quel che penso del cinema” avrà modo di precisare anni dopo, davanti a un’insalata di pollo con troppi capperi). Cambiò idea solo quando Jaglom gli disse “farai il mago, con cilindro e mantello”: tra i suoi molti talenti, da pianista e da disegnatore, Welles era un prestigiatore appassionato e piuttosto abile, negli spettacoli per le truppe faceva con Marlene Dietrich il numero della donna tagliata in due. Gore Vidal, un altro che spesso pranzava con lui, lo descrive “drappeggiato in una tenda, solo tasche e bottoni messi a caso suggerivano un abito maschile”.
Mantello, bacchetta magica, tendone con dettagli sartoriali erano nulla rispetto alla coda di cavallo e alle scarpe da balletto Capezio (le Repetto americane, cucite da un calzolaio emigrato da Muro Lucano) esibite da Henry Jaglom sul set. “La troupe mi odia” confessò a Orson Welles al secondo giorno di riprese. “Il cameraman dice che le mie scene sono impossibili da montare”. “E tu spiegagli che stai girando la sequenza di un sogno”. Funzionò: l’operatore si esaltò, “grande, facciamo una sequenza psichedelica!”, sicuramente pensando alle pasticche di Lsd che aveva nel cassetto. Per il successivo decennio Jaglom cercò di riaccendere “the girlish enthusiasm” che Welles – depresso e inseguito dai creditori – diceva di avere perduto. Meditava di scrivere le sue memorie (in venti volumi) per incassare un po’ di soldi. Ebbe lo stesso pensiero Ava Gardner, quando convocò Peter Evans per non dover vendere i gioielli: la trascrizione tardiva delle chiacchierate, altra storia orale di Hollywood ottima per le letture sotto l’ombrellone, è appena uscita da Simon & Schuster con il titolo “Ava Gardner. The secret conversation”
“Io Orson Welles” era una miniera di storielle, pettegolezzi, aneddoti biografici, segreti del mestiere, Ma nulla eguaglia la simpatia, la furia iconoclasta, l’ironia che l’uomo capace di terrorizzare gli Stati Uniti con un microfono e qualche trucco da rumorista dispiega in questi pranzi, cogliendo l’occasione per regolare qualche conto. Il suo ultimo copione - “The Big Brass Ring”, sempre con Jaglom a far da levatrice – raccontava di un ex consigliere di Roosevelt, tale Kimball Menaker, mentore di un giovane senatore che fu poi sconfitto da Reagan. Chiamò un po’ di attori suoi amici. Warren Beatty gli disse di no perché dopo “Reds” – il più stupido film mai fatto, secondo Welles – era troppo stanco (“mi sento come uno che ha passato la notte in un bordello e il mattino dopo non degna di uno sguardo neanche la Monroe”). Clint Eastwood considerò il copione troppo di sinistra (prendano nota quelli che lo celebrano come campione dell’America “che ci piace”, gli stessi che lo chiamavano fascista per l’ispettore Callaghan). Burt Reynolds rifiutò attraverso il suo agente. Burt Reynolds – ripetiamo – disse di no a Orson Welles che per la prima volta dopo “Quarto potere” aveva otto milioni di dollari da spendere e il “final cut”, e neppure si scomodò personalmente. Jack Nicholson due anni dopo non aveva ancora risposto, e quando lo fece disse che per nessun regista al mondo avrebbe accettato di ridursi la paga. Welles sapeva di essere la bestia nera dei produttori, dei grandi studi, dei critici come Pauline Kael che attribuivano tutto il merito di “Quarto potere” allo sceneggiatore Joseph Mankiewicz. Perfino degli scrittori che di secondo mestiere recensivano film, come Jorge Luis Borges e Graham Greene. Il primo era mezzo cieco, il secondo intelligente ma non brillante: “Puoi anche sbagliarti, ma hai l’obbligo contrattuale di divertire il pubblico. In fondo facciamo lo stesso mestiere”. Sugli attori però ancora credeva di poter contare.
Per amicizia, almeno. Li considerava infatti stupidi nel caso migliore, e idioti nel caso peggiore (una delle poche cose che aveva in comune con il disprezzato Hitchcock, convinto che gli attori fossero bestiame: “Non capisce niente di voyeurismo”, fu il suo commento a “La finestra sul cortile”). Stupido e narciso era Laurence Olivier, che si rimirava allo specchio in camerino e colto sul fatto lamentò: “Un vero peccato che non posso scoparmi da me”. Stupido ma simpatico era Clark Gable. Stupido e basta Marlon Brando, che secondo Welles non poteva essere narciso perché privo di collo. Son senza collo anche i bosniaci, mentre i sardi hanno le dita piccole, sostiene in una delle sue tirate sui caratteri nazionali, che Jaglom cercava di rintuzzare dandogli del razzista. Lui rincarava la dose: “La sai la ricetta della frittata ungherese? Ruba due uova…” (dall’Ungheria arrivava Alexander Korda, che nel “Terzo uomo” gli diede la strepitosa parte di Harry Lime, sterminatore di piccini per via della penicillina annacquata).
Peggio sono solo i cantanti d’opera, interessati solo alle loro corde vocali. Con l’eccezione di Leo Slezak (padre di Walter Slezak, che in “Prigionieri dell’oceano”, dove Hitchcock fa la sua comparsata in una pubblicità dimagrante “prima e dopo la cura”, è il tedesco traditore). Grande tenore wagneriano, nell’ultimo atto di “Lohengrin” entrava in una barca-cigno, cantava, e sarebbe dovuto risalire sul cigno, per l’uscita di scena. Una sera mancò il cigno, che ripartì senza di lui (l’aneddoto non chiarisce se fu distrazione del macchinista, o fu il tenore a indugiare). Leo Slezak chiese senza scomporsi: “Quando passa il prossimo cigno?”. L’avevamo letta in un delizioso libriccino, ora fuori commercio, intitolato “Disastri all’opera”: Hugh Vickers raccontava un incidente simile occorso nel 1936 a Lauritz Melchior, Metropolitan di New York, che ricordava l’episodio e riciclò la battuta. Walter Slezak la usò come titolo per la sua autobiografia uscita nel 1962: “What Time’s the Next Swan?”.
“Vogliono vedere l’orso ballerino” disse una volta Welles a Jaglom, riassumendo in una frase gli studi del medievalista Michel Pastoureau sul re dei boschi, temibile in natura e costretto dai circensi a mettersi la gonnella e a pedalare sul triciclo (come in “Madagascar 3 – Ricercati in Europa”, quando l’orsetta gira per Roma sulla biciclettina). Volevano vedere il ragazzo prodigio con un grande avvenire dietro le spalle, che non riusciva a pagare i costumi di “Othello” e con un colpo di genio girò la scena nella sauna. Volevano vedere come si era ridotto il bellissimo giovanotto definito da Britt Ekland, mentre nel 1967 diretti da John Huston recitavano nel satirico “James Bond 007 – Casino Royale” (Welles era Le Chiffre), “l’uomo più sexy mai visto”. Il marito Peter Sellers non glielo perdonò mai, come Spencer Tracy non perdonò mai a Welles di aver suggerito – in un risvolto di copertina, il libro era “Tracy and Hepburn. An Intimate Memoir” di Garson Kanin – che Katharine Hepburn si dava abbastanza da fare in giro. Erano vicini al trucco, lui girava “Quarto potere” lei “Febbre di vivere” di George Cukor, altro regista che a Welles piaceva pochissimo. La sentì raccontare, con abbondanza di “four-letter words” (parolacce che da noi hanno due zeta o cominciano per effe), le scopate con Howard Hughes. “Nessuno a Hollywood parlava in quel modo, eccetto Carole Lombard”, spiega Welles a Janglom, che per l’occasione si atteggia a ragazzo perbene (l’attrice era tanto spiritosa da presentarsi sul set, dopo la sparata di Hitchcock, con un cartello “bestiame” appeso al collo). E aggiunge: “Anche Grace Kelly si dava parecchio da fare nei camerini deserti, ma poi non andava a raccontarlo in giro”.
L’orso ballerino si dichiara “molto più insicuro di quel che sembro”. “Ma figurati, sei arrogante e sicuro di te” gli fa notare Jaglom (anche alla cortesia e all’amicizia verso l’anziano genio c’è un limite). Welles, che sembrava avviato sulla perigliosa strada delle banali confidenze – dopotutto anche i geni si possono distrarre per un attimo – rispose con la memorabile frase: “Di me sono sicuro, ma non sono sicuro di nessun altro”.
Welles racconta quando usciva con Marilyn Monroe, allora una ragazza carina come tante altre. La segnalò al produttore Darryl Zanuck, che la soppesò e ne stimò il prezzo: “La possiamo avere per 125 dollari a settimana”. Sei mesi dopo la mise sotto contratto per 400 mila dollari annui. Sempre nella serie “sviste”, Welles racconta che gli portarono il primo dramma di Tennessee Williams, e senza leggerlo lo respinse al mittente. Era “Zoo di vetro”, poco dopo le attrici si sarebbero scannate per la parte della zoppetta.
Jaglom tende a interrompere, quasi sempre per questioni di menu. Il botta e risposta delle parti facilmente trascrivibili – Welles non voleva vedere il registratore sul tavolo, bisognava nasconderlo in borsa – fa risaltare le interpolazioni: Biskind ha aggiunto brani presi dall’intervista di Bogdanovich, quando l’argomento lo consentiva e le parole sfuggivano. Il ristorante era il Ma Maison di Los Angeles, così snob da non avere il numero sull’elenco telefonico (ma il cuoco lasciava un po’ a desiderare: “Maledetta nouvelle cuisine, mettono l’insalata dappertutto”).
Grandiose sono le pagine sull’odio per Charlie Chaplin, vanesio che si metteva gli strass sulle ciglia e aveva sei persone per scrivergli le gag. Alla rivelazione, Jaglom reagisce come il cinquenne a cui hanno appena rivelato che Babbo Natale non esiste. Welles preferiva Buster Keaton, e il furto del copione di “Monsieur Verdoux” – dove viene citato solo come autore del soggetto, che peraltro aveva un finale migliore – non migliorò i rapporti tra i due. Odiatissimo anche Woody Allen, che ha l’arroganza dei deboli. Jean-Paul Sartre è l’imbecille, totalmente sprovvisto di senso dell’umorismo, che si atteggia a ras del quartiere (consigliarono a Welles di non avvicinarsi, quando lo vide in un bar: il francese avrebbe attaccato briga ed era disposto a fare a botte, incurante dell’inferiorità fisica). Questa è la parte frivola. La parte seria spiega perché bisogna dare le mance, perché certi scrittori russi gli piacciono più di altri (“Gogol is my writer”), chi era Indio Fernández (il regista che posò nudo per la statuetta degli Oscar e prese la pistola per sparare a un critico). Spiega il suo disinteresse per Proust: “Non ho niente in contrario a vedere uno scrittore nudo, ma non sopporto di vederlo mentre fa lo spogliarello”. E per le biografie: non voglio sapere che Dickens era un figlio di puttana (ne aveva appena letta una dell’adorata Karen Blixen, ed era rimasto delusissimo: “Si era costruita per piacermi, vorrei restare della mia idea”). Non manca un po’ di galateo, quando si parla di Micheál Mac Liammóir, che ebbe la parte di Iago nello sfortunato “Othello” e scrisse un diario della lavorazione dal titolo shakespeariano “Put Money in Thy Purse”: “Quando vado a cena con un omosessuale come lui, mi atteggio un po’ a omosessuale. Per farlo sentire meno solo”.


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