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“Un atto di guerra”
Il Pentagono ha cinque opzioni in Siria, ma non pensa di cacciare Assad
La campagna americana in Siria sarà lunga, costosa e comporta gravi rischi di insuccesso, dice il Pentagono, che ha fornito per la prima volta al Congresso la lista dettagliata delle opzioni militari per fermare la guerra civile in Siria – con una lettera di tre pagine del presidente del Joint Chiefs of Staff, il generale Martin Dempsey, al capo della commissione Forze armate del Senato, il democratico Carl Levin. Il generale sottolinea (letteralmente) che il suo è un consiglio su “come la forza può essere utilizzata in modo da decidere se debba essere utilizzata”, e rivela tutto il suo scetticismo sull’intervento militare.
La campagna americana in Siria sarà lunga, costosa e comporta gravi rischi di insuccesso, dice il Pentagono, che ha fornito per la prima volta al Congresso la lista dettagliata delle opzioni militari per fermare la guerra civile in Siria – con una lettera di tre pagine del presidente del Joint Chiefs of Staff, il generale Martin Dempsey, al capo della commissione Forze armate del Senato, il democratico Carl Levin. Il generale sottolinea (letteralmente) che il suo è un consiglio su “come la forza può essere utilizzata in modo da decidere se debba essere utilizzata”, e rivela tutto il suo scetticismo sull’intervento militare. Le opzioni non sono nuove: addestrare l’opposizione al regime di Bashar el Assad; organizzare strike mirati; la no-fly zone; la creazione di “buffer zones” ai confini con Turchia e Giordania; prendere il controllo delle riserve di armi chimiche del regime. Nessuna opzione esclude l’altra, anzi, una strategia complessiva potrebbe “avvicinare l’obiettivo militare di aiutare l’opposizione e di mettere sotto pressione il regime”, scrive Dempsey, ma attenzione: “Una volta che si prende l’iniziativa, bisogna essere pronti a quel che accade dopo. Un coinvolgimento più profondo è difficile a quel punto da evitare”. Il presidente Barack Obama deve scegliere in modo chiaro, insomma, perché l’uso della forza “non è niente di meno che un atto di guerra”, con effetti collaterali molto pericolosi: “Potremmo inavvertitamente rafforzare gli estremisti o ‘liberare’ quelle armi chimiche che vorremmo invece controllare”, dice Dempsey.
I costi, poi, sono molto alti: soltanto il training dell’opposizione – stima Dempsey – costerebbe almeno 500 milioni di dollari l’anno. Le altre opzioni, per essere messe in pratica, prevedono la presenza di centinaia di aerei, di navi da guerra e di migliaia di truppe sul terreno: i blitz mirati possono costare miliardi di dollari; la no-fly zone costerebbe circa un miliardo di dollari al mese; le forze per le operazioni speciali necessarie per mettere al sicuro i siti delle armi nucleari costerebbero anch’esse un miliardo al mese. E questo dispendioso sforzo potrebbe non essere nemmeno sufficiente per ribaltare il regime di Assad.
In Senato, la scorsa settimana, il repubblicano Lindsey Graham ha chiesto al generale Dempsey: “Se non cambia nulla, se non cambiamo il nostro gioco, Assad sarà ancora al potere tra un anno?”. “Penso sia molto probabile”, ha risposto il generale, che anche nella sua lettera non ha fatto nulla per nascondere la preoccupazione dei militari di fronte a un maggior coinvolgimento in Siria. I suoi dubbi non fanno che rafforzare la riluttanza di Barack Obama che procede a piccoli passi nella gestione della crisi siriana, senza prendere decisioni che possono davvero cambiare gli equilibri di forza nel paese. Il New York Times ieri sottolineava che la Casa Bianca non sente l’urgenza di rivedere la strategia contro il regime di Damasco, e anzi si sta abituando all’idea che si arriverà a una soluzione di compromesso in cui Assad non sarà deposto. A testimonianza di questa analisi, i due autori dell’articolo portano le parole del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, il giorno della testimonianza di Dempsey al Senato: “Anche se ci sono cambiamenti sul terreno di battaglia – disse Carney – Bashar el Assad, nella nostra visione, non sarà mai più a capo di tutta la Siria”. Fino a quel momento la Casa Bianca aveva detto che i giorni di Assad erano contati, mentre quella frase su “tutta la Siria” lascia intendere un cambiamento di prospettiva: il dittatore di Damasco non se ne andrà facilmente, e forse da alcune parti della Siria non se ne andrà mai, si dividerà il paese. In seguito dall’Amministrazione Obama hanno fatto sapere che quella frase non significava nulla in particolare, eppure non aveva affatto l’aria della casualità (sulle performance di Carney si è scritto e detto molto, ma sull’utilità della conferenza stampa quotidiana è definitivo l’articolo di Reid Cherlin su New Republic: è diventato un esercizio inutile per evitare di dare risposte, e neppure le domande sono poi così geniali).
Forse Assad non si può più cacciare, forse una divisione della Siria è davvero plausibile se i russi fanno sapere che il rais di Damasco è disposto a discutere di pace senza precondizioni, basta che gli Stati Uniti e gli altri paesi riescano a portare al negoziato anche i gruppi di opposizione al regime (lavoro difficilissimo, visto che i ribelli sono divisi e per buona parte controllati da fondamentalisti di al Qaida). Della strategia americana non si fida più nessuno, tanto che anche le commissioni Intelligence di Camera e Senato che hanno approvato l’operazione della Cia per rifornire di armi leggere l’opposizione siriana (Obama ha scelto la strada “covert” per non dover chiedere troppe approvazioni al Congresso, e non dover dare troppe spiegazioni) hanno scritto nelle loro motivazioni al consenso che restano “preoccupazioni forti sulla forza dei piani dell’Amministrazione in Siria e sulle possibilità di successo”. L’inviato dell’Onu, Lakhdar Brahimi, non è contento: “Le armi non portano la pace”, dice. Uno dei capi dei ribelli invece conferma fiducioso che le armi sono in arrivo: “August is the day”, ha scritto.
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