E' la biopolitica, bellezza
L'intellettuale di oggi, che non riesce più a definirsi e dubita della propria esistenza, sperimenta una forma di frustrazione del tutto nuova: non sa che cosa pensare e gli sfuggono i mezzi per farlo. Merita comprensione, povero intellettuale. Non capirci nulla è quanto di peggio gli potesse capitare.
L’intellettuale di oggi, che non riesce più a definirsi e dubita della propria esistenza, sperimenta una forma di frustrazione del tutto nuova: non sa che cosa pensare e gli sfuggono i mezzi per farlo.
Merita comprensione, povero intellettuale. Non capirci nulla è quanto di peggio gli potesse capitare. Di fronte alla globalità della globalizzazione, dovrebbe essere capace di una altrettanto globale conoscenza, ma questo è al di sopra delle forze di chiunque.
I politici devono comunque agire, fingere di agire, prendere decisioni, evitare di prenderle, rimandarle, fare finta di prenderle. La scena politica prevede una certa agitazione ininterrotta e anche inconsulta. Basta muoversi, fare dichiarazioni, assumere posizioni agonistiche. Ma l’intellettuale dovrebbe dirci con chiarezza che cosa sta succedendo e magari che cosa sarebbe meglio fare per evitare il peggio. Ci prova, apre bocca. Ma gli vengono fuori delle frasi banali, troppo giuste, cose che tutti hanno già detto e già pensato e che politicamente nessuno riesce a fare in tempo utile.
Le teorie, i politologi, i filosofi della politica non mancano. Leggerli a volte è interessante. Chi inventa nuove parole che sembrano idee nuove, suscita curiosità. Ma quando i teorici vengono interpellati perché dicano se c’è una soluzione, si vede subito che nuotano nel doveroso o nell’immaginario. La politica dei politici è un’altra cosa. Le teorie non la intaccano, non la contagiano, non la orientano, non la cambiano.
Da tutto questo può nascere un’idea alla quale personalmente sono affezionato da tempo. Quest’idea prevede l’esistenza di due politiche: a) la politica di chi la fa (i politici) e b) la politica immaginaria, augurale, ipotetica di chi ne parla, la pensa, la osserva (intellettuali e gente comune). La prima politica non ha niente a che fare con la seconda. La politica che si fa, nessuna potrebbe teorizzarla né idealizzarla. Si tesse e si disfa giorno per giorno. La sua prima regola è: galleggiare. Meglio galleggiare senza fare che fare e andare a fondo.
Pessimismo? E’ molto diffuso. Il libro di Laura Bazzicalupo “Politica. Rappresentazioni e tecniche di governo” (Carocci, 268 pp., 19 euro) si apre con l’affermazione che politica e discorsi politici oggi ispirano in prevalenza “un senso di estraneità, di fastidio e insieme una sensazione di oppressione”.
Dunque: politica uguale malumore, sfiducia, indignazione, indifferenza, apatia, senso di impotenza. E va aggiunto che anche la società, su cui la politica dovrebbe lavorare, è una nebulosa poco afferrabile.
Il fatto poi che la crisi economica attuale abbia dimensioni tanto estese da coinvolgere molto più di mezzo mondo, aumenta la sfiducia. Non solo i politici debbono semplicemente ubbidire agli imperativi dell’economia continentale e mondiale, ma questa economia è a sua volta poco afferrabile, si è mescolata troppo con i giochi di prestigio e d’azzardo della finanza e richiede una tale quantità di lunghe trattative e accordi instabili fra governi di tutti i continenti, che parlare di soluzione dei problemi sembra una chimera.
Ma quando tutto è troppo complicato e fuori misura, si apre la strada ai grandi semplificatori. Tra questi ci sono i propagandisti dell’indignazione, quelli della forza delle moltitudini, i filosofi della vita controllata che potentemente si libera, o quelli delle differenze e delle pluralità. Siamo arrivati alla Biopolitica: che dice tutto e niente. Che va al di là della politica comunemente intesa e offre o promette prospettive di pensiero e d’azione, di nuove comunità indeterminate o utopiche che smontano o scavalcano (come preferite) tutte le categorie politiche tradizionali e convenzionali.
Sembrerebbe di essersi calati finalmente nel concreto. In verità si sprofonda in astrazioni più capienti di quelle già note. L’uso del termine biopolitica è sempre più diffuso, in accezioni ora abbastanza precise ora molto sfuggenti. Come ha spiegato Laura Bazzicalupo in un suo precedente libro sul tema, questo sarebbe giustificato dal fatto che oggi la politica si occupa sempre più “di problemi della vita” e “diventa centrale il corpo di quelli che hanno potere e di quelli che subiscono il potere”.
Ma allora perché non parlare di biosociologia, biopedagogia, bioturismo, biolegislazione, biomoda, bioarte, bioromanzo, bioarchitettura? Se non sbaglio, la vita e il corpo degli esseri umani è sempre stata in gioco ogni volta che non si parla di rocce, animali, piante, corpi celesti ecc.
Come non ci è venuto in mente, per esempio, che si potrebbe parlare del cristianesimo come bioreligione per eccellenza, dal momento che è fondato sulla vita umana di Gesù, sulla sua crocifissione (indubbiamente fisica), sulla sua morte e resurrezione, sempre fisica, sulla rappresentazione del suo corpo straziato, sul sacramento dell’eucaristia in cui ci si nutre del suo corpo e del suo sangue… Se il cristianesimo è la religione che nasce dall’incarnazione del divino e dal dramma di questa incarnazione, non c’è più bioreligione di questa.
D’altra parte però sono bioreligioni anche le altre, che si occupano tutte (non potrebbe essere altrimenti) della vita e del corpo umani: delle discipline quotidiane, dell’atteggiamento mentale e fisico della preghiera, della devozione, dell’ascesi. Non c’è religione che non sia bio, in cui non si parli di vita e di corpo, di come migliorarli, purificarli, tenerli a bada, salvarli, offrirli alla divinità, sottrarli al male.
Ho l’impressione che l’uso così frequente del termine biopolitica sia una bella trovata per ribattezzare cose note, attirando l’attenzione con un uso verbale che sa di specializzazione e di tecnica. Si finge l’innovazione teorica e un originale mutamento di analisi, mentre si lancia sul mercato culturale un nuovo tic verbale che allude a speciali profondità e a un’urgente attualità.
Se si pensa alla smodata, illusionistica inventività terminologica di quella che fu la French Theory degli anni Sessanta e Settanta, fra strutturalismi e post, si capisce perché il termine biopolitica sia stato lanciato da quelle parti. Foucault, Toni Negri e Michael Hardt, Agamben, Esposito e parecchi altri… Tutti biopolitici.
Non c’è mai stata politica che non sia stata biopolitica. Ma non c’è dubbio che biopolitico è oggi il discorso politico di chi con la politica ha poco a che fare. In effetti i biopolitici non dicono che cosa politicamente si può fare: questo sarebbe un lavoro vile e rischioso. Sono o ex rivoluzionari o utopisti immaginari che vedono all’orizzonte, ma più spesso dietro l’angolo, la rivolta definitiva, contro ogni organizzazione, del puro Essere Sociale, perché trionfi la sua potenza originaria, o perché la felicità regni in terra. Come gli asceti di Buñuel, santi mancati, urlano: “Evviva l’apocatastasi!”.
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