Affittare un utero in India

Nicoletta Tiliacos

Due giorni fa, le agenzie di stampa hanno parlato di una coppia di cinquantenni, originaria del Cremasco, che dopo aver pagato trentamila euro per una maternità surrogata in Ucraina ha scoperto che il bambino così ottenuto non poteva essere iscritto come loro figlio allo stato civile italiano. Il bambino è stato nel frattempo tolto alla coppia e affidato a un istituto, mentre i due “committenti”, accusati di alterazione di stato civile, a ottobre saranno processati. Una storia spaventosa, comunque vada a finire.

Meotti Strage per un figlio fuori quota

    Due giorni fa, le agenzie di stampa hanno parlato di una coppia di cinquantenni, originaria del Cremasco, che dopo aver pagato trentamila euro per una maternità surrogata in Ucraina ha scoperto che il bambino così ottenuto non poteva essere iscritto come loro figlio allo stato civile italiano. Il bambino è stato nel frattempo tolto alla coppia e affidato a un istituto, mentre i due “committenti”, accusati di alterazione di stato civile, a ottobre saranno processati.
    Una storia spaventosa, comunque vada a finire. Così come è terribile quella della coppia tedesca che, qualche anno fa, ha vissuto una vicenda analoga in India: il bambino nato con maternità surrogata non ha potuto lasciare il paese, perché in Germania, come in Italia, la gravidanza “per conto terzi” è proibita. E giustamente: non vale la pretesa di regolamentare, in nome della libertà di decisione della madre surrogata e del “diritto” al figlio dei committenti, qualcosa che non è emendabile. Anche le madri surrogate occidentali, in teoria ben pagate campionesse di prestazioni gestazionali, sono soggette a una forma avvilente di mercificazione che non sarebbe considerata ammissibile se volessero, per esempio, vendersi un rene. Pura merce diventa anche il figlio commissionato dietro regolare contratto, come dimostrano i casi in cui alla madre portatrice viene chiesto di abortire se il bambino atteso mostra di essere “difettoso”. E’ successo nel 2010 in Canada e anche quest’anno, in America, che due madri surrogate si siano rifiutate di abortire due bambini portatori, rispettivamente, di trisomia e di una malformazione del volto.

    Terribili sono soprattutto le storie che arrivano dall’India. La vera terra promessa dell’utero in affitto, legalizzato dal 2002 e al centro di un business in crescita sregolata, favorita dalle tariffe concorrenziali rispetto agli altri paesi dove pure la pratica è legale (Stati Uniti, Spagna, la citata Ucraina). A raccontare in che cosa consista quel mercato che solo in India, oggi, è valutato in due miliardi di dollari, arriva lo studio di una ong con sede a Nuova Delhi, che dal 1983 si occupa di diritti delle donne: il Centre for social research (Csr), molto attivo anche contro l’aborto selettivo delle femmine e le sterilizzazioni forzate, altre feroci piaghe indiane. Nelle 168 pagine del rapporto, intitolato “Surrogate motherhood. Ethical or commercial”, troviamo i risultati di un sondaggio che ha preso in considerazione cento madri portatrici e cinquanta coppie di committenti (quasi sempre di indiani ricchi residenti in paesi occidentali dove l’utero in affitto è vietato), intervistate a Mumbai e a Nuova Delhi. E’ questa la vera novità dello studio del Crs: a parlare in prima persona sono stavolta anche quelle donne povere e poverissime che accettano di portare avanti una gravidanza su commissione per puro bisogno, a condizioni che non è esagerato definire di tipo schiavistico.

    Vediamo così che i contratti stipulati tra queste donne e gli aspiranti genitori (le cliniche in questa fase non compaiono, così non tocca a loro rispondere se qualcosa andasse storto) sono normalmente firmati dopo il secondo trimestre di attesa, una volta consolidata la gravidanza (nelle fecondazioni in vitro c’è un’alta percentuale di aborti spontanei). La maggior parte delle madri surrogate non possiede copia del contratto e spesso non è nemmeno a conoscenza del suo contenuto: a contattarle, magari per strada, è stato uno dei tanti agenti che incassano una commissione dalle cliniche. Oppure ad attirarle è stata un’inserzione pubblicitaria che promette soldi alle madri portatrici. Gli stessi agenti sono, per il settantasette per cento delle donne consultate nel sondaggio, l’unica fonte di informazione su quello che le attende.

    Queste e altre circostanze fanno concludere al Csr che, in India, “la libertà della madre surrogata è un’illusione”. Se il neonato mostra un’anomalia o il suo sesso non è quello specificato nel contratto, per esempio, i committenti possono ottenere che la madre surrogata abortisca, spesso con “comodi” metodi chimici somministrati nelle stesse baby factory. Queste donne, durante la gravidanza, vivono nelle cliniche o in case rifugio: ufficialmente per essere al riparo da circostanze che potrebbero metterle a rischio, in realtà per essere controllate: inzeppate di farmaci ormonali prima dell’impianto embrionale, soggette a qualsiasi somministrazione da parte dei medici, dopo. A loro è riservato tra l’uno e il due per cento di quanto riscosso dalla clinica. Si tratta di poche migliaia di rupie, che diventano a rischio se la gravidanza si interrompe o se i committenti non accettano il figlio.

    Perché succede anche questo. Che le coppie committenti si separino nel frattempo, o che il bambino si riveli malato e quindi automaticamente indesiderabile. In questi casi, le prestatrici di utero possono essere pagate la metà o non essere pagate affatto.

    L’avvocato Kirti Gupta, intervistato nel rapporto del Centre for social research, spiega che “in India non è difficile avere un bambino attraverso la maternità surrogata, perché non esiste una legge per controllarla o regolarla”. Esistono in realtà, dallo scorso gennaio, alcune linee guida che vietano di affittare l’utero a coppie gay o a coppie non sposate da almeno due anni. La maternità surrogata, inoltre, deve essere legale nel paese d’origine dei richiedenti, i quali devono dotarsi di un visto per ragioni mediche (quindi non basterà più quello turistico). Deve anche essere mostrata la prova documentale, rilasciata dall’ambasciata, che il paese da cui provengono i committenti accetterà a tutti gli effetti come loro figlio biologico il bambino partorito da una madre surrogata indiana. E’ presto per dire se quelle linee guida – in attesa che sia varata una vera legge, in stallo al Parlamento indiano da almeno tre anni – sia riuscita a frenare  almeno alcuni degli abusi. Oltre ai problemi legali legati al riconoscimento dei nati, esistono infatti altri abusi, tuttora in corso. Il rapporto del Centre for social research parla, per esempio, di venticinque cicli di fecondazione in vitro praticati su una stessa donna, di altre donne che hanno superato il massimo di tre gravidanze consentite (in teoria) per pratiche di utero in affitto, del generale sistema di costrizione nel quale prospera la pratica della maternità surrogata nel subcontinente indiano: a cominciare dal fatto che spesso, a convincere una donna ad affittare l’utero, è un marito che ha bisogno di soldi. E a volte succede, come è accaduto il 16 maggio del 2012 in una clinica indiana della fertilità, che una di queste madri incubatrici muoia. Premila Vaghela, trent’anni, sposata con due figli, è morta all’ottavo mese di una gravidanza su commissione. A causa di “complicazioni inspiegabili”, ha scritto il Times of India, che si sono manifestate con convulsioni e collasso mentre la donna si sottoponeva a una visita nella clinica della fertilità che l’aveva ingaggiata, il Women Hospital Pulse, con sede ad Ahmedabad, nello stato del Gujarat, dove si concentra il maggior numero di cliniche della fertilità indiane. I medici le hanno praticato un cesareo, prima di mandarla a morire in un altro ospedale, e Premila Vaghela  ha potuto “portare a termine il proprio lavoro”: il bambino che aveva in grembo è stato consegnato alla donna americana che l’aveva commissionato. Il Women Hospital Pulse – struttura moderna che opera in collegamento con un’importante clinica australiana della fertilità – è noto per gli eccellenti standard internazionali di assistenza,  per essere molto ben frequentato da coppie occidentali abbienti e abituate al meglio. La morte della signora Vaghela è stata definita una tragica ma inevitabile “fatalità”. Purtroppo, nel contratto che aveva firmato prima di intraprendere la gravidanza surrogata, erano state inserite clausole che sollevavano committenti e clinica da ogni responsabilità in caso di problemi, se non per atti di negligenza che nessuno ha potuto provare.

    Sono gli incerti del mestiere di madre surrogata. Il Centre for social research, al termine del suo studio, chiede un quadro legale certo che regoli la materia in India, e che tuteli le madri portatrici e i bambini. Ma l’unica legge che può mantere questa promessa è quella che vieti quella pratica odiosa e schiavistica.

    Meotti Strage per un figlio fuori quota