Il peso di Obama

Paola Peduzzi

“Abbiamo da sempre un buon rapporto con i generali egiziani – ha detto il democratico Richard Durbin, numero due del Senato americano, domenica a ‘This Week’ – Ma dobbiamo chiarire all’Egitto, così come abbiamo fatto con la Libia e la Siria, che sparare sul proprio popolo è inaccettabile da parte di chiunque”. In realtà la soglia dell’accettabilità, per l’America, è ben più in là di dove la posiziona il senatore Durbin, ma quel che più è grave è che nessuno sta ascoltando le “chiarificazioni” di Washington.

    “Abbiamo da sempre un buon rapporto con i generali egiziani – ha detto il democratico Richard Durbin, numero due del Senato americano, domenica a ‘This Week’ – Ma dobbiamo chiarire all’Egitto, così come abbiamo fatto con la Libia e la Siria, che sparare sul proprio popolo è inaccettabile da parte di chiunque”. In realtà la soglia dell’accettabilità, per l’America, è ben più in là di dove la posiziona il senatore Durbin, ma quel che più è grave è che nessuno sta ascoltando le “chiarificazioni” di Washington. In Egitto i generali alleati non rispondono agli appelli americani: il ministro della Difesa, Chuck Hagel, ha mandato numerosi messaggi privati al capo delle Forze armate del Cairo, il generale Fattah al Sisi, invitandolo a non andare allo scontro violento contro la Fratellanza musulmana, e il risultato è stata la mattanza di sabato, almeno 72 morti, uccisi con colpi alla testa, agli occhi, al collo. Il segretario di stato, John Kerry, ha telefonato al vicepremier, il re della diplomazia inefficace Mohamed ElBaradei, chiedendogli di far sentire forte la voce della leadership civile, ed ElBaradei si è messo a tuittare inutili inviti alla calma. Ieri s’è presentata per mediare la capa della diplomazia europea, quella Christine Ashton che non mette in curriculum una qualsivoglia negoziazione positiva da anni. Gli egiziani non ascoltano – e perché dovrebbero? Finché non ci sono ritorsioni, finché non ci sono alternative sostenibili, l’Amministrazione Obama non può che lasciare le cose come stanno, cioè in mano a un esercito che vuol far dimenticare la rivoluzione del 2011 e l’esercizio (fallimentare) del potere da parte dei Fratelli musulmani, e vuole farlo in fretta, con ogni mezzo a disposizione.

    Non è che in Siria, laddove secondo il volenteroso senatore americano Durbin la voce americana s’è sentita forte e chiara, le cose vadano diversamente. Le Forze armate di Bashar el Assad ieri hanno riconquistato una parte della cittadina di Homs, una zona che i ribelli siriani avevano conquistato nel 2011, una roccaforte dell’opposizione al regime.

    Assad conquista terreno giorno dopo giorno: i dispacci siriani parlano di attacchi quotidiani contro i ribelli, i quali, grazie all’arrivo di al Qaida e dei suoi leader, sono sempre meno coesi e quindi facili da colpire. La voce americana contro le brutalità nei confronti dei civili è talmente forte e chiara che a oggi i siriani o restano con Assad o rischiano di finire in mano ad al Qaida, o forse entrambe le cose se lo smembramento del paese – ipotesi non più tanto remota – finirà per essere la terza via che mette tutti d’accordo. Anche qui: Assad non ascolta gli appelli internazionali alla fine delle violenze (più di 100 mila morti, ha detto il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon), ma perché dovrebbe? Ha alleati solidi e generosi, milizie ben preparate, nessuna pressione o deadline da temere, è stato persino invitato ai negoziati che si terranno – non si sa quando – a Ginevra, di che cosa dovrebbe mai preoccuparsi?
    Semmai le preoccupazioni sono a Washington, perché la strategia dello status quo ha prodotto scenari catastrofici: in Egitto, l’America potrebbe rivedere gli aiuti economici, ma in questo modo darebbe l’impressione di sostenere i Fratelli musulmani, che già sono stati facilitati dall’Amministrazione Obama ma poi hanno dato povera – e dittatoriale – prova di sé. L’unica alternativa è stare a vedere, e sperare che la leadership civile riesca a imporre un improbabile dialogo d’unità nazionale. In Siria, gli americani hanno sì deciso di armare i ribelli con un’azione covert della Cia, ma ci hanno messo talmente tanto tempo che l’opzione è diventata meno efficace se non addirittura controproducente: è più facile che le armi siano intercettate da al Qaida che dai ribelli “buoni”.

    In Libia, grande eccezione interventista della presidenza Obama, da giorni si combatte nel centro di Bengasi, ci sono esplosioni, morti e una fuga di prigione di parecchi carcerati. In Iraq, da cui Obama si è ritirato in fretta nonostante la fragilità politica di Baghdad, ieri ci sono state diciassette bombe, quasi cento morti: luglio è stato il mese più volento da quando gli americani se ne sono andati. Non tutte le violenze possono essere imputate all’America, naturalmente, ma il calcolo dello status quo può essere sbagliato. La Reuters ha pubblicato sabato un approfondimento sull’approccio di Obama in Siria: c’era uno “small team”, di quelli che piacciono al presidente perché sono mezzi segreti, che lo consigliava su Assad. Il team ha scommesso sulla debolezza del dittatore, cadrà in fretta, ripeteva: a metà del 2012 il team è stato smantellato, Assad è ancora lì.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi