Quando Foster Wallace e socio cercavano brividi (e sberle) nella musica rap

Stefano Pistolini

Una storia del secolo scorso. Due twentysomething, dopo aver diviso la stanza al campus di Amherst, decidono di prolungare la loro endless summer della giovinezza andando ad abitare insieme a Boston. Uno si sta faticosamente trasformando in un avvocato (riuscirà nell’impresa a intermittenza, perché la vocazione repressa di fare lo scrittore alla fine avrà la meglio) e si chiama Mark Costello. L’altro, invece, pare già rassegnato a un futuro da intellettuale che l’avrebbe portato a un’ondeggiante vita per lo più squattrinata, ma fortunatamente punteggiata dalla pubblicazione di alcuni dei suoi torrenziali, stravaganti scritti. Il suo nome era David Foster Wallace.

    Una storia del secolo scorso. Due twentysomething, dopo aver diviso la stanza al campus di Amherst, decidono di prolungare la loro endless summer della giovinezza andando ad abitare insieme a Boston. Uno si sta faticosamente trasformando in un avvocato (riuscirà nell’impresa a intermittenza, perché la vocazione repressa di fare lo scrittore alla fine avrà la meglio) e si chiama Mark Costello. L’altro, invece, pare già rassegnato a un futuro da intellettuale che l’avrebbe portato a un’ondeggiante vita per lo più squattrinata, ma fortunatamente punteggiata dalla pubblicazione di alcuni dei suoi torrenziali, stravaganti scritti. Il suo nome era David Foster Wallace. Già qui, il quadro è interessante: due ometti al fatale passaggio d’età, al cospetto dell’abbandono delle gioie giovanili, degli eterni rinvii, dell’organizzazione futile di tutto il tempo del mondo. Siamo nel 1989, e colui che diverrà l’interprete della perdita di prospettive nella generazione americana di fine millennio ha già archiviato un fallito tentativo di suicidio e si trastulla annotando l’inutile decorativo americano. L’amico però lo stuzzica con qualcosa di provocante: un pacco di audiocassette di quel suono rivoluzionario da qualche tempo affiorato dai quartieri neri delle grandi città, che è già un linguaggio comune per i coetanei afroamericani, ma che è ancora un idioma e un’esperienza incomprensibile per qualsiasi giovane bianco, seppure dotato della buona volontà di capirci qualcosa.

    Il colpo di fulmine scocca e l’idea segue di poco: DFW e Costello scrivono il pamphlet “Signifying Rappers”, che nella versione italiana (minimum fax) diventerà acutamente “Il rap spiegato ai bianchi”. Un quarto di secolo più tardi, Little, Brown and Company ripubblica il volume, con una nuova introduzione a firma del superstite, Costello. Una lettura particolare. Prima di tutto perché racconta un “come eravamo” rapidamente scomparso dalle descrizioni dei comportamenti dell’altroieri: a fine anni 80, se s’imboccava una ricerca come questa e ci si metteva sulle tracce di un fenomeno culturale poco conosciuto, l’unica cosa seria da fare era procurarsi una macchina e spostarsi sui luoghi deputati, disporre di giorni liberi da impegni e padroneggiare l’empatia necessaria a osservare, avvicinare e conoscere. Due post ragazzi bianchi che vogliono parlare di rap, suono dell’arrabbiata metropoli nera, rischiano il ridicolo e rischiano pure qualche sberla. Ma quel suono ipnotizza e convince e, accordandosi sullo stendere un capitolo a testa,

    Mark e David tracciano la loro partigiana storia di una musica che è “poesia di protesta”, indirizzata a quanti come loro, sono bianchi e sono stati educati secondo certi canoni, ma sono pur sempre giovani americani, curiosi, entusiasti, veloci. Sentirli oggi parlare di voci guerriere che escono dal ghetto con nomi di battaglia come Ice Cube, Tone Loc o Slick Rick ha un potente effetto di delocalizzazione: è stato un brivido elettrizzante, perché c’era una voglia culturale serpeggiante, un desiderio di ritrovare quel filo di trasgressione intelellettuale sbriciolatosi nel rock, e che qui presentava agli occhi dei piccoli esploratori un universo di linguaggi, seduzioni e figure da scoprire, catalogare, trasmettere. Una causa per la quale battersi, confrontandosi con lo scetticismo, l’indifferenza, l’ostilità. Una manna per fresche teste d’uovo in cerca di appartenenza. E adesso, sfogliando questa ristampa dal gusto postumo, rivivere un passaggio del genere col distacco dell’età matura fa un effetto strano, complicato. Scendeva la sera e i ventenni Mark e David s’infilavano per le strade di Roxbury, in cerca del punto di contatto e del margine di rischio. Oggi, foderati come siamo di nuove tecnologie, isolati dalla realtà, rivivere quella piccola epifania di coppia appare un’esperienza irripetibile. Non resta che attendere che il miracolo si ripeta, tenere le antenne dritte e non rinunciare mai a un giro in macchina in un quartiere sconosciuto.