I paladini dell'eutanasia dovrebbero leggere la storia di Peggy e Brooke
In Inghilterra si parla nuovamente di eutanasia, in occasione di una vicenda simile a quella di cui fu protagonista Tony Nicklinson, morto nell’agosto scorso a cinquantotto anni. Rimasto paralizzato nel 2005 in seguito a un ictus, dal 2010 l’uomo aveva chiesto ai giudici britannici una sorta di lasciapassare che liberasse da conseguenze penali chiunque, parenti o medici, lo avesse “aiutato” a morire. Il 16 agosto dello scorso anno, la sua richiesta era stata respinta per l’ennesima volta dalla Corte suprema britannica, dato che le leggi del paese vietano il suicidio assistito (di questo si trattava).
In Inghilterra si parla nuovamente di eutanasia, in occasione di una vicenda simile a quella di cui fu protagonista Tony Nicklinson, morto nell’agosto scorso a cinquantotto anni. Rimasto paralizzato nel 2005 in seguito a un ictus, dal 2010 l’uomo aveva chiesto ai giudici britannici una sorta di lasciapassare che liberasse da conseguenze penali chiunque, parenti o medici, lo avesse “aiutato” a morire. Il 16 agosto dello scorso anno, la sua richiesta era stata respinta per l’ennesima volta dalla Corte suprema britannica, dato che le leggi del paese vietano il suicidio assistito (di questo si trattava).
Un altro cinquantottenne, Paul Lamb, di Leeds, padre divorziato di due figli e paralizzato dopo un incidente dal 1990, chiede ora ciò che è stato negato a Nicklinson. In entrambi i casi, la richiesta di impunità per gli eventuali somministratori della “buona morte” nasce dalla paura di non potersi uccidere con le proprie mani, se la sofferenza diventasse insostenibile (Lamb, come già Tony Nicklinson, afferma che per lui già lo è). E, in entrambi i casi, a opporsi alla richiesta è la constatazione che di fronte a malattie non terminali (a Nicklinson erano stati prospettati almeno altri vent’anni di vita, e lui ha scelto di non nutrirsi più, fino a morire), qualsiasi intervento medico diventa indistinguibile da un omicidio. Introdurre un’eccezione legale, anche su mandato dell’interessato, rischia di diventare un’arma ai danni di persone fragili e sofferenti.
Proprio in questi giorni, e sempre in Inghilterra, il fisico Stephen Hawking ha raccontato, in un documentario sulla sua vita, che i medici della clinica svizzera dove era stato ricoverato nel 1985, cosiderandolo spacciato, avevano consigliato alla moglie di autorizzare il distacco del respiratore che lo teneva in vita (lo scienziato, all’epoca già completamente paralizzato dalla sclerosi laterale amiotrofica, si era ammalato di polmonite). La moglie rifiutò, lo fece portare a Cambridge e lì gli fu praticata un’incisione alla gola che, racconta Hawking, “mi ha rubato per sempre la possibilità di parlare ma mi ha fatto guarire” (a gennaio ha compiuto settantuno anni, e molto del meglio che la vita gli ha riservato è arrivato dopo l’85).
Si potrebbe obiettare, come fa lo scrittore Mauro Covacich intervistato ieri sulla Repubblica, che è solo una questione di libertà, “perché chi vuole possa continuare a curarsi a oltranza e chi invece subisce la malattia e si sente umiliato, offeso nella sua dignità, abbia il diritto di morire”.
Libertà? E’ difficile pensare che non ci sia un nesso tra certe dilaganti “campagne di libertà” pro eutanasiche, rese glamour da film e romanzi, e il fatto che i paesi occidentali sempre più faticano a garantire degne prestazioni di welfare a un numero crescente di vecchi e di disabili. Meglio, e soprattutto molto più economico, incoraggiare il sogno universale di un’uscita di scena “pulita”, “dignitosa” e “indolore”. Come se morire avvelenati dal pentobarbital in una clinica svizzera, per un vecchio semplicemente infragilito dall’età (o per uomini disperati ma non malati nel corpo, come il giudice calabrese Pietro D’Amico o il politico Lucio Magri) fosse più “dignitoso” e comunque più desiderabile che morire come è destino degli esseri umani, quando è arrivata l’ora.
Anche l’americana Margaret Pabst Battin (detta Peggy), nel suo ruolo professionale di bioeticista di fama internazionale, aveva sempre affermato con convinzione la “libertà di scelta” alla fine della vita, e il rispetto pieno dell’autonomia della persona in questo campo. Fino a quando il suo amato marito, il docente di Letteratura Brooke Hopkins, non ha avuto un rovinoso incidente in bicicletta, che gli ha provocato la rottura della colonna vertebrale. Era il 14 novembre del 2008 – lo racconta un lungo e bell’articolo uscito sul New York Times magazine del 21 luglio scorso – e nonostante l’uomo avesse aggiornato solo qualche mese prima il suo testamento biologico, specificando che non avrebbe voluto nessuna forma di rianimazione se lo avesse costretto a sopravvivere in condizioni di grave invalidità, nessuno aveva potuto comunicarlo ai soccorritori. Peggy era ora all’ospedale, e Brooke combatteva tra la vita e la morte attaccato a un respiratore: “La sofferenza, il suicidio, l’eutanasia, una morte dignitosa: su questi temi aveva pensato e scritto per anni, e ora, improvvisamente, diventavano insopportabilmente personali. Accanto al marito fisicamente devastato – scrive la giornalista Robin Marantz Henig – avrebbe visto quelle nobili idee superate dalla realtà, e avrebbe scoperto quanto disordinata, cruda e confusa può essere la fine della vita”.
Da allora, Brooke è tornato a casa paralizzato, su una carrozzella, ma ha anche continuato a insegnare part-time all’università. Gli effetti della paralisi, progressivi e costanti, rendevano però più difficili e poi impossibili, una dopo l’altra, tutte le cose che aveva amato. Anche mangiare – era sempre stato un buongustaio – diventava problematico, perché il cibo “sbaglia strada” e finisce nei polmoni.
Finché nel 2012, con il suo software di riconoscimento vocale, Brooke detta la sua “Lettera finale”, nella quale spiega perché vuole morire: “Come ho detto a Peggy nel corso degli ultimi mesi, sapevo che avrei raggiunto un limite a ciò che potevo fare. Sono arrivato a quel limite da un paio di settimane”. Le crisi si susseguono, Brooke alla fine ha bisogno del respiratore, ma Peggy – proprio lei, la paladina della libera scelta – sente che non può lasciarlo andare. Finché, qualche tempo fa, in occasione di una crisi più terribile del solito, con l’infermiera accetta di staccare tutti i macchinari ai quali è attaccato Brooke: “Peggy e Jaycee, l’assistente, hanno fatto quello che aveva chiesto. Hanno spento il ventilatore, lo hanno scollegato dalla tracheostomia, hanno messo un tappo nell’apertura della gola. Hanno spento l’ossigeno e la batteria esterna per il pacemaker diaframmatico. Hanno mostrato a Brooke che tutto era stato disconnesso”.
Brooke si accinge a morire, ma non muore (Peggy lo sapeva, in realtà. Sapeva che il marito aveva un’autonomia di respirazione di qualche ora, anche senza aiuti meccanici). Passano i minuti e subentra in lui una grande pace. “E’ un sogno?”, chiede, “non sono morto?”. Più tardi, ha chiesto di ricollegare tutto, e “ha fatto un pisolino”, racconta Peggy. Quando la giornalista del Nyt è andata a trovarli, Brooke aveva scritto una nuova “Lettera finale”, nella quale programma la sua morte per la primavera del 2014. Per quell’epoca avrà finito il suo corso sul “Don Chisciotte”: “Ma in quel momento, Brooke si sentiva bene. ‘Penso che sarà un’estate produttiva’, ha detto. E lui e Peggy hanno sorriso”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano