Privatizzare è bello di per sé, non per sdebitarsi o per abbassare le tasse: fa arretrare lo stato inefficiente

Carlo Stagnaro

Grande è la confusione sotto il cielo delle privatizzazioni: la situazione non è per niente buona. La domanda fondamentale, di fronte a un progetto di riduzione del perimetro dello stato, è perché lo si fa. Dalla risposta derivano il cosa, il come e il quando. Le generiche indicazioni del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e del presidente del Consiglio, Enrico Letta, si sono subito scontrate con le prevedibili opposizioni, anche in seno al governo (i ministri del Pd Stefano Fassina e Flavio Zanonato).

    Grande è la confusione sotto il cielo delle privatizzazioni: la situazione non è per niente buona. La domanda fondamentale, di fronte a un progetto di riduzione del perimetro dello stato, è perché lo si fa. Dalla risposta derivano il cosa, il come e il quando. Le generiche indicazioni del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, e del presidente del Consiglio, Enrico Letta, si sono subito scontrate con le prevedibili opposizioni, anche in seno al governo (i ministri del Pd Stefano Fassina e Flavio Zanonato). Ma pure tra i favorevoli regna una certa ambiguità: vi è chi vorrebbe utilizzare i proventi per ridurre le imposte (il parlamentare renziano Yoram Gutgeld, la parlamentare del Pdl Mara Carfagna), e chi spera di poter “privatizzare senza privatizzare”, usando le partecipazioni come mero collateral per nuove obbligazioni (Renato Brunetta). Tutte queste letture scontano una visione meramente contabile della faccenda. Fare cassa – e usare in modo sperabilmente saggio il gettito – è una delle ragioni per cui è utile privatizzare. In un momento di stretta fiscale e in un paese ad alto debito pubblico, forse è addirittura la motivazione politicamente più rilevante. Tuttavia, non dovrebbe essere considerato né l’unico obiettivo né il più importante. Infatti, se vuole massimizzare i ricavi il governo deve travestire da privatizzazione la mera creazione di rendite: più è alta la rendita e più lungo l’orizzonte temporale su cui si proietta, e più generose saranno le offerte. Non è un caso se gli esempi di “cattiva privatizzazione” che vengono in mente ripensando agli anni Novanta – lo ha ricordato ieri sul Foglio il professore Emilio Barucci – siano quelli segnati dalle considerazioni più profondamente politiche, vuoi per spremere un prezzo più alto (Autostrade) vuoi per privilegiare compratori nazionali (Telecom). E ciò a dispetto degli evidenti miglioramenti che perfino queste operazioni hanno prodotto nei rispettivi mercati.

    Una “buona privatizzazione”, al contrario, avviene per mezzo di un processo trasparente e aperto. Prevede, cioè, la più ampia partecipazione (inclusa quella di compratori stranieri) e magari la preferenza per cessioni di pacchetti di azioni e non delle quote di controllo “in blocco”, in modo da favorire un azionariato diffuso, almeno in prima battuta. Dopo di che, se qualcuno vuole scalare l’impresa privatizzata, si rimbocchi le maniche, raccolga le partecipazioni sul mercato e sappia che non troverà ostacoli politici.

    Meglio, dunque, puntare a un tesoretto più piccolo, e fare qualcosa che serva davvero al paese: tracciando un confine netto tra lo spazio dello stato (fare le regole) e la sfera del mercato (competere secondo le regole). Ciò presuppone di costruire i processi di privatizzazione con estrema attenzione al disegno e alla struttura del mercato sottostanti. Per esempio, come ha sottolineato Linda Lanzillotta (Scelta civica), benissimo privatizzare le Ferrovie, ma non senza scorporare la rete, per eliminare il conflitto di interessi endemico che in questi anni ha impedito la concorrenza nel trasporto su ferro.
    Se vogliamo fare le cose perbene, dobbiamo insomma rivedere le priorità: la cassa deve essere una conseguenza, più che un obiettivo. Privatizzare – in un contesto competitivo almeno formalmente – è un modo per riempire di contenuto le liberalizzazioni. La concorrenza non è solo la mobilità dei consumatori tra imprese predefinite: è anche contendibilità di asset e imprese. Solo un mercato dinamico, in continua evoluzione, può determinare quei benefici – innovazione, prezzi, investimenti, occupazione, crescita – che sono la ragione ultima per cui il sistema capitalistico è superiore alla pianificazione statale. Privatizzare per creare concorrenza abbassa l’asticella del gettito potenzialmente ottenibile: chi compra non ottiene una rendita ma fa una scommessa imprenditoriale; non acquista certezze ma rischio; ed è bene che sia così. Il senso della privatizzazione è privatizzare.