Mal di fuffa
Ogni minuto che passa, secondo uno studio della società americana Qmee, su Facebook appaiono due milioni e mezzo di post, quasi due milioni di “mi piace” e vengono caricati 350 giga di dati. Contemporaneamente nascono 571 nuovi siti e solo su WordPress (la piattaforma di blog più famosa) vengono pubblicati 347 post; nel frattempo su Twitter compaiono 278 mila nuovi cinguettii. E poi ancora vengono inviati 204 milioni di email, su YouTube si caricano 72 ore di filmati e su Instagram appaiono 3.600 fotografie (tendenzialmente paesaggi, gambe distese sulla spiaggia e piatti pieni di cibo).
Ogni minuto che passa, secondo uno studio della società americana Qmee, su Facebook appaiono due milioni e mezzo di post, quasi due milioni di “mi piace” e vengono caricati 350 giga di dati. Contemporaneamente nascono 571 nuovi siti e solo su WordPress (la piattaforma di blog più famosa) vengono pubblicati 347 post; nel frattempo su Twitter compaiono 278 mila nuovi cinguettii. E poi ancora vengono inviati 204 milioni di email, su YouTube si caricano 72 ore di filmati e su Instagram appaiono 3.600 fotografie (tendenzialmente paesaggi, gambe distese sulla spiaggia e piatti pieni di cibo). Non basta un giorno per leggere o vedere tutto quello che in un minuto viene caricato sul Web, come non basterebbe una vita per sfogliare tutti i libri che l’uomo ha scritto dall’inizio dei tempi. Viviamo sommersi dalle parole, dai commenti, da tweet più o meno spiritosi (inquietante qualche giorno fa la cronaca del giornalista e scrittore americano Scott Simon che ha documentato con immagini e tweet la morte della madre), post perdibilissimi e foto che un tempo non avremmo neppure portato a sviluppare. I giornali sono in crisi ma non ci sono mai stati tanti giornalisti come oggi, l’omologazione del pensiero ha paradossalmente creato un’infinità di opinionisti che si sentono in dovere di dire la loro sui propri blog, convinti che la platea potenziale dei lettori – il mondo intero – non aspetti altro.
Domenica scorsa Charlie Brooker, quarantaduenne columnist del Guardian, giornalista, autore e conduttore televisivo, ha scritto nella sua rubrica settimanale di sentirsi schiacciato da tutto questo chiacchiericcio continuo che c’è nel mondo: una immensa nuvola di bla-bla alla quale – ammette – contribuisce lui stesso. “Tutti parlano contemporaneamente e uno sull’altro; tutti in tutto il mondo scrivono parole sui propri computer, per sempre, come sto facendo io adesso. Non riesco ad afferrare il punto di almeno il 98 per cento delle comunicazioni umane, il che indica che ho bisogno di una passeggiata e di stare un po’ tranquillo”. Brooker in fondo ha scritto quello che molti utilizzatori di Internet e social network pensano, quando si fermano a farlo: ogni giorno compaiono miliardi di parole a commento di qualsiasi cosa succeda. “Fatti e rumore, fatti e rumore. Tutto questo non è nient’altro che fatti e rumore”. Internet è il regno della fuffa, dice Brooker, “sparare altre parole nel bel mezzo di tutto questo mi sembra sempre più futile e non necessario”. Ovviamente lo ha fatto scrivendo altre parole, ma promettendo di diminuire drasticamente il numero dei suoi articoli (e forse non guarderebbe con simpatia questo, che aggiunge commenti al suo). “Ho deciso di ridurre le mie emissioni di parole – scrive – Dopo una pausa, e un ripensamento, tornerò scrivendo qualcosa di diverso e con meno regolarità”.
Viviamo iperconnessi e ipercomunicanti, le nostre timeline sono un continuo flusso di notizie, pensieri, idiozie, battute sarcastiche, argomenti che per lo più ci lasciano indifferenti ma che dobbiamo assolutamente sapere: se fa caldo ci sentiamo in dovere di scrivere a tutti quelli che ci conoscono su Facebook che fa caldo, anche se la maggior parte di loro vive nella nostra stessa città, e a meno che non stia lavorando in una cella frigorifera da 24 ore lo sente benissimo da sé che fa caldo; i giornali lanciano notizie che vengono commentate su Twitter, e quei commenti diventano a loro volta notizie per gli stessi giornali che li rilanciano con stilemi rodati tipo “la rete si scatena”, o “il Web si indigna”. Accettiamo tutto questo perché fa parte del gioco, perché abbiamo l’impressione di perderci qualcosa di decisivo che da qualche parte sta sicuramente accadendo, perché adesso le notizie sono là, perché l’idea che abbiamo di un fatto potrebbe cambiare o approfondirsi. Con la controindicazione che tutte queste parole concorrono a generare entropia, un rumore di fondo sostanzialmente inutile.
Brooker non è il primo a teorizzare la necessità di “staccare” (al di là delle vere motivazioni che lo hanno spinto a scrivere quell’articolo): ciclicamente leggiamo storie di giornalisti, appassionati di tecnologia ed esperti di comunicazione che si sentono schiacciati. Il 30 aprile del 2012 il giornalista esperto di tecnologia dell’americano Verge, Paul Miller, scrisse il suo ultimo post e poi si disconnesse da tutto: basta computer, via il portatile, in una scatola il tablet e lo smartphone. Un anno passato offline, andando a trovare i parenti che una volta vedeva via Skype o a leggere libri al parco. “Mi sono sbagliato”, ha detto senza parafrasare quando, il 1° maggio del 2013, è tornato online, dimostrando che il concetto di “vita vera” non è un assoluto luogo comune fatto di passeggiate a piedi nudi sull’erba o gite in bicicletta ma, per uno come lui, cresciuto con la tecnologia, è proprio l’essere continuamente online. Non a tutti fa bene staccare: lo scriveva qualche settimana fa sulla Lettura del Corriere della Sera Roberto Cotroneo, parlando di “retorica del silenzio” e osservando come la maggior parte di queste fughe arrivino quasi sempre da chi, culturalmente, può permettersele. Una reazione snob alla modernità.
Ci sono giornalisti che sembrano vivere su Twitter: qualsiasi cosa succeda, sono i primi a commentarla, segnalarla, farla diventare un tormentone, spesso ingigantendola. Uno di questi è Filippo Sensi, vicedirettore del quotidiano Europa, e noto in rete con il nome di Nomfup (da “Not my fucking problem”, non sono cazzi miei). Nomfup invade le timeline di chi lo segue con battute, notizie, giochi di parole e commenti in diretta alle trasmissioni televisive – talvolta anche due o tre in contemporanea. E’, almeno in Italia, uno dei principali produttori del rumore di fondo che tanto infastidisce Charlie Brooker: “Io sono per il cazzeggio spinto”, ammette subito, raggiunto telefonicamente. Concorda con l’analisi del columnist del Guardian, anche se gli sembra più un tentativo di nobilitare, buttandola sul dibattito “alto”, una decisione che forse nasconde motivi più contingenti: “Si producono troppi tweet? Sì, come si produce troppo di tutto, ma non per questo mi metterei a scomodare il tramonto dell’occidente. E’ vero – prosegue Sensi – la rete e i social network sono popolati di sciocchezze, ma questo perché la nostra vita è piena di sciocchezze, di pettegolezzi. Vogliamo economizzare sul cazzeggio? Va bene, facciamolo, ma senza stare a teorizzarlo o farne una filosofia”. Talvolta capita che i follower di Nomfup gli chiedano più o meno ironicamente se sia impazzito: “Succede quando comincio a sparare tweet a raffica commentando qualcosa. Spesso mi scuso preventivamente, altre volte mi rendo conto che sto esagerando quando mi arrivano messaggi di quel tipo. Ma io fondamentalmente sono una persona curiosa, mi piace il fatto che Twitter sia un luogo a cui posso consegnare un’idea che poi rimbalza, e magari torna indietro migliorata. Spesso scrivo per vedere l’effetto che fa, ma per esempio non mi metto mai a criticare colleghi o altri con il ditino alzato; né imperverso con foto di cose da mangiare. Non ci crederete, ma io non sono su Facebook, né su altri social network, e non twitto mai dal telefonino: non saprei nemmeno come si fa”. La “nuvola di bla-bla” di cui ha scritto Brooker si nutre soprattutto dell’ego di chi scrive tutte quelle parole, e – come insegna anche un sito che prende in giro il vezzo di chi scrive sui quotidiani a parlare di sé – l’ego del giornalista è quello che ne produce di più. “Twitter è un viagra per repressi – sorride Nomfup – Esalta il lato egotico e narcisistico di ognuno”. Il tweet, meglio se compulsivo, è la consacrazione dell’idea per cui ogni atto individuale è anche sociale, “un modo per imporre il proprio ego – conclude Sensi – ma anche per mettere a tema certe tesi. Io ne scrivo moltissimi, ma penso che potrei farne a meno. Il giorno in cui non mi divertirà più smetterò”.
A maggio il giornalista americano Matt Labash ha scritto una lunga invettiva sul Weekly Standard contro la “Twidiozia” e i “twidioti”, descrivendo un mondo in cui la produzione continua di fuffa online prevale sull’attenzione alla realtà che si ha davanti: la descrizione fatta da Labash di un panel sui social network durante il quale la maggior parte di chi è seduto in aula non segue quanto sta dicendo l’oratore ma guarda il proprio smartphone è al contempo surreale e indicativa. “Ogni volta che c’è un passaggio tecnologico importante che permette alle persone di conversare di più – ci dice Marco Bardazzi, social editor alla Stampa cresciuto però alla scuola del giornalismo tradizionale – siamo naturalmente portati a lanciarci nel ‘nuovo mondo’. La gente vuole chiacchierare, è sempre stato così: si pensi all’invenzione del telefono, ideato inizialmente per far ascoltare musica e poi divenuto strumento per parlare da lontano; o al progenitore di Internet, Arpanet, che venne subito utilizzato per inviare messaggi di posta elettronica più che per consultare i database”. Bardazzi si trova d’accordo con l’analisi di Brooker: “Siamo sommersi da una valanga di chiacchiere, c’è un rumore di fondo che spesso porta a nulla, ma è anche vero che tutto questo è molto umano: il desiderio di condivisione è connaturale all’uomo. Questo è un momento di passaggio per l’informazione, che sta cambiando dalla modalità broadcasting a quella sharing, cioè della condivisione”. Brooker si lamenta del fatto che sui siti internet dei quotidiani sia possibile per i lettori commentare a piacere, anche perché poi i commenti sono quasi sempre insulti o banalità che a nulla servono se non ad aumentare il chiacchiericcio. “Ha ragione a segnalare il pericolo – prosegue Bardazzi – ma non possiamo avere paura della condivisione”. Comprensibile dunque che a un certo punto uno “stacchi”? “Ognuno deve regolarsi in base alla propria voglia di concedersi – conclude Bardazzi – dipende dal carattere, dalla predisposizione personale… Stare al ritmo delle chiacchiere continue è stancante, vero, ma permette di mantenere la stessa velocità che ha la comunicazione. Detto questo, penso che servirebbe davvero ‘staccare’ ogni tanto, pensare a una modalità per entrare in silenzio, almeno per un poco”.
Rinunciare alla parola soltanto perché se ne dicono troppe, però, non convince Pierluigi Battista, nota firma del Corriere della Sera, che su Twitter spesso prende in giro dichiarazioni preconfezionate e tic verbali di colleghi e protagonisti della politica e della cultura italiana: “Mi pare una scemenza, soprattutto perché viene da un giornalista e autore televisivo. Le parole hanno una loro sonorità. Trovare la parola giusta è un’arte: le parole servono, seducono, convincono. Certo, esistono le urla, gli strepiti, gli schiamazzi, ma ci sono sempre stati. Se Brooker non vuole più scrivere smetta di farlo, perché rompere le scatole a noi, oltretutto scrivendolo? Nulla e nessuno ti costringe a fare una cosa. Pensi che i social network e Internet uccidano la parola? Stanne fuori senza tante storie. Io personalmente non lo penso: ma poi è come se un grande scrittore smettesse di scrivere perché intanto è uscito un prodotto dozzinale che vende più di lui”. Quella di Battista è una contestazione “alla radice: contesto chi dice che una cosa ne escluda altre. Viviamo in un mondo plurale, politeistico. Che troppa comunicazione crei entropia, tra l’altro, era una lamentela diffusa nell’Ottocento, quando nacquero i giornali”.
Forse tutto si gioca sul valore di quello che viene scritto. Si potrebbe affrontare la questione dividendo tra contenuti di qualità e contenuti fuffa: “Questo è già l’atteggiamento scelto da molti professionisti – ci dice Luca Sofri, direttore del Post – Un conto è un articolo per un giornale, un altro uno status su Facebook. Non tutto deve per forza finire nello stesso calderone. Gli stessi giornalisti che scrivono pezzi impegnativi da 6-7.000 battute poi fanno tweet volatili”. Fare questa divisione è però sempre più difficile: accanto a una notizia di cronaca, sulle home page dei siti, c’è il più delle volte la galleria immagini dei gattini o il video con i gol strani di uno sconosciuto calciatore brasiliano in un campionato dilettantistico. “Io tendo a essere realista e a fregarmene di questa distinzione – prosegue Sofri – Dobbiamo metterci nell’ordine delle idee che, piaccia o no, quello che ci aspetta è il disordine, e con esso la perdita dell’ordine formale delle gerarchie. Le gerarchie diventano personali, le categorie tradizionali non esistono più, le stesse notizie perdono di credibilità, per ogni notizia vera ne circola una falsa. Occorre costruirci le nostre bussole”. Pensare un po’ prima di twittare o scrivere un post (chiedendosi se possa essere utile, o almeno non troppo cretino) potrebbe aiutare. “Certamente occorre fare attenzione a quello che si scrive – conclude Sofri – ma non credo che diminuendo i tweet si risolva il problema. Far circolare un parere è utile: spesso torna indietro migliorato, aiuta a capire di più quello di cui hai scritto. Capisco il fastidio di Brooker per i commenti dei lettori, ma scrivere avendo sempre in mente che cosa potrebbero pensare gli altri è sbagliato: si diventa schiavi di una minoranza”.
Due anni fa Charlie Brooker ha ideato e scritto la serie tv “Black Mirror”, finora due stagioni per sei puntate in tutto. Nella prima puntata la principessa del Galles viene sequestrata, e i rapitori mandano un video con la richiesta di riscatto: il premier inglese dovrà accoppiarsi con un maiale in diretta tv o lei verrà uccisa. “Non fate uscire la notizia”, chiede il primo ministro. “Il video è già su YouTube”, rispondono dal suo staff. “Cancellatelo”. “Troppo tardi, sta circolando su Twitter”. In un’altra puntata, un marito sempre distratto dai social network muore in un incidente d’auto, ma grazie a un nuovo software che rielabora tutto ciò che lui ha scritto e detto in vita sulla rete, la moglie riesce a chattare e parlare al telefono con una sua riproduzione virtuale, illudendosi che sia ancora lui. Quella però che forse più di tutte dice del pensiero di Brooker anche rispetto alla sua professione (su Internet prima e sulla Bbc poi ha condotto programmi contro la tv) è la seconda puntata della prima stagione: in un futuro immaginario gli uomini passano la loro giornata a pedalare su biciclette che creano energia elettrica. Le pareti sono grandi schermi televisivi con cui si può interagire. Ogni persona vive dentro a piccole stanze e ha un avatar, un alter ego virtuale, che fa acquisti o partecipa come pubblico ai programmi tv. Per ogni attività si guadagnano o perdono dei punti (una riedizione futuribile dei “like”), e con 15 milioni di punti si può partecipare a un reality show in stile “X-Factor”, unica possibilità di uscita dalla routine delle pedalate. Il protagonista, Bing, riesce a salire su quel palco e, minacciando il suicidio in diretta, dice ai giudici e alla platea di avatar quello che pensa del sistema: “La falsità è l’unico valore ormai – grida – l’unica cosa che riusciamo a digerire, assieme alla violenza e al dolore. Siamo così immersi nella disperazione che non ci accorgiamo più di nulla, passiamo la nostra vita a comprare cazzate, i nostri discorsi sono pieni di cazzate. Desideriamo stronzate che neanche esistono, e siamo stufi di farlo. Dovreste darci voi qualcosa di reale, ma non lo fate: ci ucciderebbe. Perciò fanculo! Fanculo voi, fanculo tutti!”. Applausi. Dalla settimana successiva Bing conduce un programma tv durante il quale può attaccare il sistema. Fingendo di volersi suicidare.
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