La sporca lingua della verità
Sabato, 3 agosto. Allora, 3 agosto (1966, Hollywood, all’8825 di Hollywood Boulevard). L’uomo ha quarant’anni appena, è nudo, sta buttato ai piedi della tazza del cesso. Crepato. Schiattato. Scoppiato. “Era ingrassato enormemente, aveva un ventre obeso, a furia di bibite e dolciumi, e anche la sua mente si era ispessita. Ed era popolata di incubi: sentenze, revisioni di sentenze, ricorsi, certificazioni, certificati di ‘ragionevole dubbio’…” (Dick Schaap, “Playboy”). Ha una siringa, vicino al corpo. Cosa significa, si sa.
“Lo hanno bollato ed etichettato come si fa con i pantaloni e le camicie, / ha combattuto una guerra su un campo dove ogni vittoria è una ferita. / Lenny Bruce era in gamba, era il fratello che non avete mai avuto” (Bob Dylan, “Lenny Bruce”, 1981)
Sabato, 3 agosto. Allora, 3 agosto (1966, Hollywood, all’8825 di Hollywood Boulevard). L’uomo ha quarant’anni appena, è nudo, sta buttato ai piedi della tazza del cesso. Crepato. Schiattato. Scoppiato. “Era ingrassato enormemente, aveva un ventre obeso, a furia di bibite e dolciumi, e anche la sua mente si era ispessita. Ed era popolata di incubi: sentenze, revisioni di sentenze, ricorsi, certificazioni, certificati di ‘ragionevole dubbio’…” (Dick Schaap, “Playboy”). Ha una siringa, vicino al corpo. Cosa significa, si sa. “Ma non era un junkie, non era un rottame, uno schiavo della droga. Voleva soltanto, quel 3 agosto 1966, assaggiarne un po’. Fu la sua ultima cena”. Ai poliziotti non pare vero di aver finalmente così vicino alle suole delle loro scarpe quel rompicoglioni, quell’assatanato, quello stronzo che li prendeva per il culo sul palco e nelle aule dei tribunali – magari costringendoli semanticamente a ruotare intorno alla parola “bocchinaro” (D. “Agente Ryan, a lei il termine cocksucker, bocchinaro, è familiare, non è vero?”. R. “L’ho sentito adoperare, questo è vero”… D. “Dunque lei ha udito adoperare questo termine in un luogo pubblico come un posto di polizia. Orbene, agente Ryan, non c’è nulla di osceno, in sé e per sé, nella parola cock, uccello, vero?”), oppure provocando torcimenti lessicali intorno al verbo venire (“Non venire dentro di me”. “Non riesco a venire”. “Perché tu non mi ami, ecco perché”. “Non riesci a venire”. “Ti amo, invece”. “Non riesco a venire, ecco tutto. Ho un complesso”). Nudo e morto, Lenny Bruce adesso sta. Magari, oltre che un po’ fessa, la polizia di Hollywood è pure un po’ carogna, come la polizia della Hollywood dei romanzi di James Ellroy, tale e quale quella dei ceffi di “L. A. Confidential”. Così, il nudo e morto Lenny Bruce – lì nel cesso, ai piedi del cesso, e ben gli sta, lui che sfotteva e ridicolizzava, “fatto sta che da bambini, a tutti noi, ci hanno messo il complesso del cesso. Ci hanno impartito, al riguardo, un’educazione sbagliata. Siamo venuti su con due fobie: da una parte la polizia, dall’altro il cesso”, ben gli sta ancora e per sempre – gli sbirri offrono a giornalisti e fotografi per circa mezz’ora il corpo gonfio e il silenzio, finalmente il silenzio, di Lenny Bruce. Un quarto di bue appeso, nella macelleria mediatica dell’America di Lyndon Johnson – “Lyndon Johnson potrebbe disquisire sulla filosofia di Schopenhauer, ma quel suo accento sciuperebbe tutto. Il bianco del sud viene preso a calcinculo per l’accento che ha”. Ammirate. Fotografate. Il cesso contiene, la polizia consente. Sciacquone. Sipario.
Né facile era, Lenny Bruce. Né simpatico, forse. Sgradevole – di quella sgradevolezza amara e necessaria, sgradevolezza medicamentosa della verità (più o meno). “La verità è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. Ciò che dovrebbe essere è una sporca bugia”, diceva. Ciò che allora disturbava gli sbirri da Los Angeles a New York, e i procuratori da est a ovest, “m’ha sempre dato uggia il sacro sdegno di cui s’infiammano i giudici e i procuratori distrettuali”, oggi chissà, parecchio disturbo avrebbe arrecato al casto Facebook (che alla parola “frocio” si turba – pur se la parola “frocio” esiste, come spiegava Lenny Bruce, tale e quale la parola “bocchinaro”, a dispetto del locale procuratore, a dispetto del planetario social network) e alla lamentosa e legnosa (del legno dritto dell’umanità essendo fatta) confraternita del politicamente corretto. Bruce era scorretto. Fino all’inverosimile scorretto. Intollerabile. Allora. Oggi forse è pure peggio. Prendeva Cristo, nel modo sacro e dissacrante in cui prendono Cristo certi che vedono meglio la croce che i fumi dell’incenso circostante che sale. Il Papa, un po’. Il cardinale Spellman, parecchio. Metteva di mezzo gli ebrei, l’ebreo Lenny Bruce (nato Leonard Alfred Schneider: a Mineola, isola di Long Island). Le religioni tutte – certe Madonne di plastica che venivano fabbricate per finanziare scuole segregazioniste. I negri. Gli zingari. Le puttane. I froci. La fica. Le tette. Le seghe. Il culo – diceva negri e zingari e puttane e froci e fica e tette e seghe e culi, ché a mettere il pannolone alla verità fa sempre un danno più grosso del danno che si vuole evitare. Diceva parolacce con fanciullesca incoscienza: “Levate il diritto di dire ‘vaffanculo’ e leverete il diritto di dire ‘vaffanculo il governo’”, altro che Vaffa Day. I politicanti – e diceva di peggio. Quelli della televisione. I banditi lenzuolati del Ku Klux Klan. La famiglia. La sbirreria. La guerra quale vera pornografia, altro che tette e culi e cazzi, ché fece pure quattro anni di guerra nel Mediterraneo, lo sconsiderato, “sono stato un assiduo dei postriboli”, da costa a costa, “ho visto preti, dottori e giudici morire di fame. Però ho visto anche tanti principi morali cedere al principio del tornaconto”.
Però non fece mai la vittima, né l’eroe di nobili cause liberali o libertarie. Meno che mai l’eroe di guerra. Anzi, umanissima viltà rivendicò. Così spiegava: “Amo il mio paese, e non vorrei scambiare la mia patria con un’altra, né servire sotto un’altra bandiera, ma – se cadessi in mano al nemico insieme a un mio camerata e vedessi che a quest’altro, dopo averlo messo a nudo a culo-a-pizzo, gli ficcano un imbuto tra le chiappe e ci colano dentro piombo fuso incandescente – non avrebbero mica bisogno di mettere a scaldare un altro pentolino, pel sottoscritto. Io gli rivelerei ogni segreto, io mi lustrerei le scarpe con la bandiera americana, io sputerei sulla Costituzione, io gli darei il permesso di ammazzare tutti i miei compatrioti. Tutto, pur di non farmi fare quel clistere. Lo vedete, dunque, quanto sono vigliacco” (Lenny Bruce, “Come parlare sporco e influenzare la gente”, presentazione di Daniele Luttazzi, Bompiani). Per scendere dalla nave e tornare a casa, ebbe una pensata: travestirsi da “tenentessa”, del resto senza “cedere all’ovvia tentazione del négligé, delle piume di struzzo, dei boa, delle guine di lamé e degli abiti a strascico”, e andare a passeggiare sul castello di prua sotto la luna, a mezzanotte. “Finalmente una sera, mentre facevo la Lady Macbeth della flotta, mi saltarono addosso in quattro, incluso il commissario di bordo. Io gridai: ‘Prepotentacci!’ Quattro psichiatri lavorarono su di me all’ospedale militare di Newport”. Interrogatorio: “Ti piace indossare abiti da donna?”. “Qualche volta”. “E cioè quando?”. “Quando sono della mia taglia”. Fu dapprima congedo con disonore. Seguì rettifica. “Interrogarono l’intera squadra navale e quando risultò che avevo un buon punteggio in virilità (conseguito a pagamento in numerosi bordelli napoletani) mi congedarono onorevolmente”. Lo scaltro vinse sulla checca. Così fu che Lenny sbarcò.
Da nessuna parte stava (starebbe) bene, Lenny Bruce. In nave o sulla terraferma, in chiesa o all’osteria, a Chicago o a Palm Island. Con le puttane stava bene. Con Honey, che sposò, “io non voglio una ragazza istruita che ti cita Kerouac; desidero una donna che mi dica: ‘Va’ un po’ ad aggiustare il rubinetto, dai, che gocciola di nuovo’”, ma che poi andò a fare spogliarelli a Las Vegas – “le spogliarelliste erano considerate appena un gradino più su delle mignotte”, peraltro. “Sì, fui uomo e, a un certo punto, mi sbarazzai definitivamente di lei. Quando lei mi piantò”. I giornalisti accorsero curiosi, e “mi rivolsero la solita domanda cretina” – cos’è successo? “Cos’è successo al nostro matrimonio? Si è sfasciato per colpa di mia suocera”. “Ah ah, la suocera. E com’è andata?”. “Mia moglie è tornata a casa dal lavoro prima del solito, una sera, e ci ha trovati a letto insieme”. “A letto… che perversione”. “Perché? Era sua madre, mica la mia”. Il sesso e le donne molto impegnarono, in parole e opere, Lenny Bruce. Fin da piccolo. A otto anni, nascosto sotto il lavandino della cucina – ha raccontato in “Come parlare sporco e influenzare la gente”, pubblicato a puntate nei primi anni Sessanta su Playboy – ascoltava le chiacchiere di sua madre con la vedova Janesky, dirimpettaia di mezza età, gran lettrice di libri quali “Come rendere il tuo partner più affiatato” e “Ovidio dio dell’amore”. La vedova spiegava e instradava la mamma di Lenny sul fatto che “i filippini se ne vengono subito”, la dotazione dei negri (“il loro uccello sembra il braccio d’un bambino che stringe in pugno una mela”, l’esatta specifica), la pettinatura delle lesbiche, sorprendenti segreti d’alcova: “Se non vuoi che il tuo uomo ti pianti, strofinati un po’ d’allume sulla passera”. La moglie del barbiere Carmine che accendeva il desiderio, “oltre che la manicure, era la puttana della città. Oggi sono scomparsi (che peccato!) quei simboli della mia fanciullezza e, al posto del medico di campagna, della puttana del paese, dello scemo del villaggio e della famiglia alcolizzata di là dalla ferrovia, abbiamo il junkie, il comunista, il finocchio, il beatnik”, i manifesti sulla vetrina del barbiere stesso: “Le prime cose che un datore di lavoro guarda sono i capelli, le unghie e le scarpe” – e un pensiero agitava la giovanile mente di Lenny: “Il capo d’un dipartimento per l’energia atomica che badasse a siffatti requisiti sarebbe probabilmente un finocchio”. Ovunque donne guardava e rimorchiava e studiava. Club e teatri, “ballerine e spogliarelliste che non avevan nient’altro da fare aspettando che gli si asciugasse lo smalto”, città e studi televisivi e paesi di provincia – qui con qualche difficoltà in più: “Quanto a ragazze, queste piccole città sono una morte. Il tassinaro lo domanda a te dove può rimediare una scopata. E’ un disastro”. Giorni di minori cautele, di usuali inconvenienti: “Ma è più forte di me. Odio i preservativi. Sono stupidi. Servono alla prevenzione dell’amore”. Con una teoria che si potrebbe definire della media ponderata: “Tutti noi vorremmo per moglie un incrocio fra una maestrina di scuola parrocchiale e una puttana da 500 dollari a notte”. L’esattezza delle parole, soprattutto quando le parole sembrano esagerate. Come quando lo accusano di dire “mignotta” – “avrebbe dovuto usare il termine più preciso di ‘prostituta’”. Replica: “Ma la parola ‘prostituta’ è diventata troppo generica: si dice di uno che prostituisce il suo talento, la sua penna, che non sa più scrivere perché troppo si è prostituito in pubblico. Sicché oggi ‘prostituta’ non ha più il valore che invece ha ‘mignotta’. Se uno manda a chiamare ‘a prostitute’ può vedersi come niente arrivare uno scrittore, con tanto di barba”.
Fu arrestato un’infinità di volte, Lenny Bruce. Per droga, per oscenità, per Dio solo sa cosa. “Voi potete adoperarlo come vi pare il corpo che Dio v’ha fatto, ma non venite a raccontarmi storie, che una parte di ’sto corpo sia più opera di Dio che non un’altra, non sta scritto da nessuna parte, nella Bibbia. Eh già. L’ha fatto tutto lui: o è tutto pulito o è tutto sporco”. Arrivava lo sbirro e faceva la faccia feroce e afferrava i polsi. Le sue memorie sono disseminate di “a San Francisco fui arrestato per oscenità”, “a Chicago tra l’altro fui arrestato…”, “nel 1964 fui denunciato per oscenità…”, “fui arrestato per detenzione di stupefacenti…”, e così pure a Filadelfia, a Los Angeles… Fu bandito da molte città americane, nel 1966 era fuori dalla maggior parte dei locali del paese, persino in Australia, a Sydney, cercò rogne. Salì sul palco e salutò i presenti: “Che cazzo di bel pubblico!”. Scrissero che “spesso porta le sue teorie alle estreme personali conclusioni, e ciò gli è valso l’appellativo di ‘morboso’. Egli è un uomo feroce che non crede nella santità della maternità o dell’Ordine dei Medici. Ha persino parole scortesi per l’orso Smokey dei cartoni animati”. E una rivista cattolica: “Più di qualsiasi altro esponente della nouvelle vague Bruce ha vivo il senso dello spettacolo, e le continue sfide che lancia al pubblico (e a se stesso) sono commiste e intrecciate a irresistibili battute, gag, pantomime eccetera, e colorite da espressioni gergali, dal gergo dei negri, degli ebrei, degli artisti, nonché dal proprio lessico privato. Ma, al fondo, egli persegue una ricerca di valori che siano ben più che amuleti e coperte-di-Linus”. Gli scrisse il Rev. Sidney Lanier, vicario della chiesa di San Clemente, NY: “E’ chiaro per me che il suo intento non è quello di eccitare la sensualità né di vilipendere, bensì di scuoterci e svegliarci alla realtà dell’odio sociale, delle varie assurdità circolanti sul sesso, la vita e la morte… e muoverci a compassione e sanità. E’ chiaro che lei è fieramente sdegnato contro le nostre ipocrisie (le sue come le mie) e contro quel mellifluo buonsenso che passa per saggezza… Che Dio la benedica”. Ogni tanto, quando lo arrestavano, attori famosi e famosi intellettuali firmavano appelli, da Liz Taylor a Paul Newman, Saul Bellow ed Henry Miller, Allen Ginsberg e Gregory Corso – per dire e garantire che “attore popolare ancorché controverso, opera nel settore della satira sociale e si inserisce nella tradizione di Swift, Rabelais e Mark Twain”. Ma lui concedeva poco a tutti: “Il fascismo in America prospera sulla mania di persecuzione della sinistra. ‘I liberali bevono qualsiasi cosa scrivano i fanatici e i bigotti’. Se Norman Thomas, il decano dei socialisti americani, venisse eletto presidente, dovrebbe trovarsi una minoranza da odiare”.
A un certo punto, prima del successo, per sbarcare il lunario, ebbe una pensata: “Mi sarei fatto prete, o frate, o rabbino, o quel che diavolo fosse necessario all’uopo di compiere il miracolo di trasferire del denaro dalle altrui alle mie tasche, pur restando dentro i confini della legge”. Si procurò un abito talare, che nell’armadio pendeva da una stampella, “alquanto incongruamente, accanto a una guêpière” di Honey, a adesso “la mia divisa da prete incuteva rispetto più di quella del generale Eisenhower”. Cercò una buona causa per spillar soldi a certe danarose vecchie carampane. “Lo scolo! Nessuno aveva mai sfruttato lo scolo, finora. Non è mai successo che sia venuto a battere alla tua porta uno per la Campagna Nazionale Antiscolo… Eppure lo scolo si porta bene in classifica, fra le malattie. O la pensate come quei subintellettuali che direbbero: ‘Be’, no, io per lo scolo non caccio un soldo perché solo i barboni se lo beccano. E i comunisti’. Sicuro: sette milioni di eroici reduci, tutti quanti barboni e comunisti”. Optò alla fine per la più pratica lebbra nella Guyana britannica. Bussò in case che sapevano di “olio di lino” e fu comprensivo verso sperimentate tardone: “Entrò. Era sui sessanta, aveva una pelle leggermente oleosa, lustra come i suoi mobili. Probabilmente usava, per la propria preservazione, qualche costosissima pomata a base di pancreas di scimmie, e con indubbio successo: le sue rughe erano ottimamente preservate”. Col sistema prete bellimbusto casa per casa, porta a porta, mise insieme ottomila dollari: tenne le spese, più o meno, diciamo così, ma duemila e cinquecento presero davvero la strada dei lebbrosi bisognosi. Una volta Bob Dylan salì sul taxi con lui – e scrisse una canzone in memoria, molti anni dopo: “Sono stato in taxi una volta con lui, / avremo fatto un paio di chilometri, a me sono sembrati due mesi. / Lenny Bruce è andato altrove e, come quelli che lo uccisero, adesso non c’è più”. Sapeva, il compagno di corsa di Dylan, come funzionano certe cose: “La pubblicità è più forte del buonsenso: con un lancio adeguato, i peli sotto le ascelle delle cantanti potrebbero divenire un feticcio nazionale”. Ci siamo quasi – peccato per la pratica della depilazione che molto prodotto disperde.
Sempre il 3 agosto (1966). Ora hanno sottratto quel corpo nudo, abbracciato al cesso di casa sua, allo sguardo di fotografi e cronisti e altri sbirri gongolanti. Adesso c’è una cerimonia in memoria. Gli amici di Lenny Bruce, radunati presso la Judson Memorial Church di New York. “Molti i diseredati e gli emarginati, i negri, i kikes (ebrei) e gli invertiti… Il poeta Allen Ginsberg e il suo compagno Peter Orlovsky intonarono un canto funebre indù, molto adatto invero per un ebreo in una chiesa protestante”. Il reverendo Mooddy, pastore della stessa chiesa: “La sua distruttività, il suo insopportabile moralismo, la sua generosa testardaggine”. Dick Schaap, su Playboy, chiuse la cronaca con una famosa frase: “Un’ultima parolaccia per Lenny. Morto. A 40 anni. Che oscenità”. Lenny che prima di morire diceva che da ogni secondo vissuto da sveglio era stato influenzato: nel suo scintillante inciampare e volare e schiantarsi tra la tazza e il bidet all’8825 di Hollywood Boulevard. “Non sono un comico. Sono Lenny Bruce”. Che davvero mica è poco – per un fottutissimo e afoso 3 di agosto, laggiù a Hollywood.
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