Cosa possono imparare i giornali italiani dalle mini rivoluzioni americane
Inizio di agosto denso di novità per quel che riguarda l’industria dei giornali: prima la consueta diffusione dei numeri del secondo trimestre da parte del New York Times, particolarmente festeggiata per via di una serie di piccoli ma importanti segnali cui il sistema mediatico si è appigliato con piacere; poi l’annuncio, sempre da parte del Times, della vendita del Boston Globe al magnate John W. Henry, notizia che ha fatto scalpore soprattutto per il crollo del valore di mercato del glorioso giornale dell’est coast, ceduto per 70 milioni di dollari rispetto al miliardo e passa con cui era stato comprato dalla famiglia Sulzberger nel ’93.
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Inizio di agosto denso di novità per quel che riguarda l’industria dei giornali: prima la consueta diffusione dei numeri del secondo trimestre da parte del New York Times, particolarmente festeggiata per via di una serie di piccoli ma importanti segnali cui il sistema mediatico si è appigliato con piacere; poi l’annuncio, sempre da parte del Times, della vendita del Boston Globe al magnate John W. Henry, notizia che ha fatto scalpore soprattutto per il crollo del valore di mercato del glorioso giornale dell’est coast, ceduto per 70 milioni di dollari rispetto al miliardo e passa con cui era stato comprato dalla famiglia Sulzberger nel ’93; infine la vendita di Newsweek, di proprietà di Barry Diller – editore di quel Daily Beast di Tina Brown sotto il cui controllo il settimanale era passato negli ultimi due anni – all’Ibt Media, non certo un player di primo piano, cosa che ha fatto gridare al fallimento definitivo della testata più di un commentatore.
Complicato, in un periodo di profonda difficoltà e trasformazione per il settore, ricavare una lezione univoca e provare a circoscrivere una qualche direttrice che possa tenere insieme queste vicende, molto differenti fra loro e per questo soggette a molteplici interpretazioni. Eppure, se letti in controluce e senza l’occhio fazioso dei tifosi o dei catastrofisti, i numeri e le prospettive emersi nell’ultima settimana, in qualche modo si tengono. Dei risultati resi pubblici dal New York Times, quasi tutti i media del mondo hanno sottolineato, con rinfrancati toni di speranza, quelli che riguardano la sostanziale tenuta dei ricavi generali e un notevole incremento, del 35 per cento, degli abbonati digitali, cosa che a molti ha fatto intravedere, in fondo al tunnel, un futuro prossimo di ecosistema dei media esclusivamente online finalmente sostenibile, al netto della zavorra della carta, in perdita costante di lettori e introiti. Vero in parte, perché se a questo si affianca un altro dato diffuso ma poco sbandierato, e cioè che dei ricavi totali pubblicitari complessivi solo il 25 per cento è dato dal digitale (e che la pubblicità rappresenta ancora più del 40 per cento del fatturato totale), ci si rende conto che la difficile transizione sarà ancora molto lunga e complessa. I numeri dicono quindi che se il futuro è in qualche modo segnato, sarà sempre più digitale ovviamente, il lungo presente – per il New York Times, il giornale per eccellenza, figuriamoci per tutti gli altri – lo è molto meno. E passa, più che da una sterile diatriba sul “dove” – la carta, i tablet, gli smartphone, i siti – da una strategia sul “cosa”; dalla definizione di un brand editoriale che sappia concentrarsi sui lettori forti e più affezionati, offrendo loro una serie di prodotti che soddisfino le aspettative e per i quali siano disposti a pagare. Il che è l’esatto contrario della strategia digitale di molti media contemporanei, i quali hanno puntato tutto sull’allargamento spasmodico della propria platea, forzando contenuti e identità alla ricerca forsennata di quell’aumento di click su cui si basa il sistema di ricavi pubblicitari online. Il gioco del New York Times è quindi a stringere sull’identità e sulla qualità. In quest’ottica vanno lette le tre mosse di questo periodo: la vendita del Boston Globe per non disperdere soldi ed energie su brand secondari; le voci che vogliono la redazione al lavoro su un nuovo magazine digitale, con approfondimenti e immagini, che innalzi la qualità dell’offerta; la trasformazione prevista per l’autunno dell’Herald Tribune in International New York Times, per aumentare la forza del brand nell’unico mercato sostenibile per un’ammiraglia di queste dimensioni, quello globale.
E’ un discorso che, seppur con altre sfumature, vale anche per la vicenda di Newsweek: si pensava che inglobandolo, contenuti compresi, dentro un modello tutto orientato ai click come quello del Daily Beast – e chiudendone l’edizione cartacea – lo si sarebbe proiettato nel futuro; ma nell’eccitazione ci si è forse dimenticati di porsi la questione più importante: cosa vogliono da Newsweek i lettori di Newsweek? Quanti sono e, a fronte di un patto chiaro basato sulla qualità, quanto sono disposti a pagarlo? Fossero anche stati quattro, era da loro, più che dai click saltuari, che probabilmente bisognava ripartire.
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