Da Bezos a Buffett, i grandi capitalisti americani non replicano l'arrendevolezza di quelli italiani sul Corriere

Michele Masneri

Non c’è solo il Washington Post, glorioso quotidiano americano che due giorni fa è passato al proprietario di Amazon, Jeff Bezos, per 250 milioni di dollari. Nei giorni scorsi sono arrivati altri acquisti singolari nell’editoria americana: il Boston Globe, passato al proprietario della squadra di baseball dei Red Sox. E ancora, il settimanale Newsweek, di proprietà del tycoon californiano Barry Diller, andato alla Ibt Media che pubblica l’International Business Times. Ma negli ultimi tempi si è assistito anche alle trattative del colosso Tribune per la vendita del Chicago Tribune e del Los Angeles Times, così come allo scorporo della divisione intrattenimento da quella editoriale di News Corp., il gruppo di Rupert Murdoch.

    Non c’è solo il Washington Post, glorioso quotidiano americano che due giorni fa è passato al proprietario di Amazon, Jeff Bezos, per 250 milioni di dollari. Nei giorni scorsi sono arrivati altri acquisti singolari nell’editoria americana: il Boston Globe, passato al proprietario della squadra di baseball dei Red Sox. E ancora, il settimanale Newsweek, di proprietà del tycoon californiano Barry Diller, andato alla Ibt Media che pubblica l’International Business Times. Ma negli ultimi tempi si è assistito anche alle trattative del colosso Tribune per la vendita del Chicago Tribune e del Los Angeles Times, così come allo scorporo della divisione intrattenimento da quella editoriale di News Corp., il gruppo di Rupert Murdoch. E soprattutto al crescente interesse di grandi uomini d’affari, spesso di prima generazione, intenzionati a salvare o mettere le mani su giornali storici: Warren Buffett, il finanziere di Omaha, aveva una quota del 28 per cento nello stesso Washington Post, e ha rilevato negli ultimi due anni una sessantina di quotidiani locali americani. Carlos Slim, il re messicano delle tlc, ha alzato la sua quota nel New York Times all’8 per cento l’anno scorso e in qualità di secondo azionista del gruppo ha commentato recentemente i buoni dati di bilancio del quotidiano.

    Sembra dunque il momento in cui i “giornali dalle public company finiscono nelle mani di miliardari che hanno un appetito per ruoli sociali, civici, finanziari”, come ha scritto il New York Times. Un ritorno in grande stile della borghesia, insomma, che se in Italia scalpita salvo poi tirarsi indietro, come si è visto nella ingarbugliata e deprimente vicenda dell’aumento di capitale del Corriere della Sera, in America non esita a mettere sul piatto multipli anche molto consistenti (come nel caso del Post) in nome di una legittimazione anche culturale, che di certo però fa bene ai giornali. “Per la prima volta ci siamo chiesti: l’attuale struttura proprietaria è la migliore possibile per il giornale?”, ha detto al Post Donald Graham, ultimo membro della famiglia che ha posseduto il quotidiano per ottanta anni prima di vendere a Bezos. “Ok, possiamo tenerlo in vita, questo non è il problema. Il problema è: possiamo renderlo più forte?”. E la nipote Katharine Weymouth, editore del quotidiano, ha ribadito: “Se il giornalismo è la nostra mission, data la pressione a tagliare i costi e a fare profitti, forse una società quotata in Borsa non è il miglior posto per il nostro quotidiano”. Borsa no grazie, dunque: servono piuttosto animal spirits molto liquidi, e un po’ romantici.

    Del resto la stessa storia del Post è una saga di capitali coraggiosi: con la vendita di due giorni fa si chiude infatti l’epoca Meyer-Graham, la più gloriosa del quotidiano. Esattamente ottant’anni fa, nel 1933, il Post venne infatti acquistato a un’asta fallimentare da un uomo con solide idee e ancor più solida liquidità, Eugene Meyer. Ricco finanziere ebreo, ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione del primo Dopoguerra. Dopo il college andò a lavorare a New York alla Lazard Frères, e poco dopo cominciò a darsi da fare in Borsa per conto suo come broker. Negli anni Venti fece fortuna anche con la chimica, la Allied Chemical Corp., ma parallelamente cominciarono gli incarichi pubblici: durante la Prima guerra mondiale fu a capo della commissione degli investimenti di guerra. Negli anni successivi guidò la Fed (1930-1933) e poi la Banca mondiale; dove rimase solo sei mesi, perché nel frattempo aveva scoperto un’altra passione, quella per i giornali: acquistò infatti il Post dalla famiglia McLean, miliardari discendenti da quel John Roll McLean che nel 1885 ebbe la nomination democratica per le presidenziali, e che possedette il Post dal 1916. La famiglia McLean andò poi in rovina con una storia alla Truman Capote, tra eredi malati di mente, scuderie di cavalli purosangue e la maledizione del diamante Hope, 45 carati, già appartenuto a Maria Antonietta, che Edward McLean comprò da Pierre Cartier nel 1911, con la sua fama iettatoria certificata nell’atto di vendita (se fosse successo qualcosa di tragico alla famiglia nell’arco di sei mesi dall’acquisto, Cartier avrebbe ripreso il gioiello e ridato indietro i soldi. Alla famiglia successe di tutto).

    Meyer acquistò il decotto quotidiano dai McLean deciso a riportarlo a nuovo splendore, e così fece: vi spese molti milioni di dollari e nel giro di un ventennio il Post divenne “il” quotidiano di riferimento (la passione per il giornalismo di Meyer andava anche al di là della dirigenza: grazie alla sua amicizia con l’ambasciatore britannico Lord Lothian, fu lui a dare lo scoop della relazione tra Edoardo VIII e Wallis Simpson). La passione venne trasmessa poi alla figlia, Katharine, che prese in mano le redini del Post traghettandolo nell’èra dorata del Watergate, diventando la donna più importante dell’editoria americana – in suo onore Capote dette il famoso Ballo in bianco e nero del 1966 al Plaza di New York. Ma erano altri tempi.