La prima Merkel
Il nostro obiettivo deve essere quello di diventare del tutto inutili. Il giorno che il nostro movimento di emancipazione non servirà più, vorrà infatti dire che non ci sarà più la divisione tra sesso debole e sesso forte, ma vi saranno solo personalità con grandi doti di guida”. Queste parole le pronunciava Helene Lange, nel 1904 durante il congresso internazionale delle donne a Berlino. E a Lange, una delle figure simbolo dell’emancipazione femminile, il trimestrale di storia dello Spiegel ha voluto dedicare recentemente un lungo articolo.
Il nostro obiettivo deve essere quello di diventare del tutto inutili. Il giorno che il nostro movimento di emancipazione non servirà più, vorrà infatti dire che non ci sarà più la divisione tra sesso debole e sesso forte, ma vi saranno solo personalità con grandi doti di guida”. Queste parole le pronunciava Helene Lange, nel 1904 durante il congresso internazionale delle donne a Berlino. E a Lange, una delle figure simbolo dell’emancipazione femminile, il trimestrale di storia dello Spiegel ha voluto dedicare recentemente un lungo articolo. Il perché di questo (con)tributo, pur non essendovi alcun anniversario da festeggiare, lo si può facilmente intuire dal richiamo di copertina “Il movimento femminile - La lotta per l’istruzione e il diritto al voto”. La Germania tra meno di due mesi va al voto, e in ballo c’è la rielezione o meno di Angela Merkel. Questo dunque il primo motivo per ricordare Lange. Ma ce n’è anche un altro. Lange è indubbiamente una delle figure più importanti nella storia dell’emancipazione femminile in Germania, ma ce ne sono state anche altre, non meno decisive: per esempio Louise Otto-Peters, fondatrice del primo movimento femminile tedesco. Il fatto che lo Spiegel abbia scelto di puntare i riflettori proprio su di lei suggerisce anche un altro motivo. Lange credeva nelle sue idee, ma non era una pasionaria, era piuttosto una combattente munita di grande pazienza. La sua strategia era quella dei piccoli passi. Credeva molto più nell’evoluzione che nella rivoluzione. La sua fede politica poi non era socialista, ma liberale, lei stessa proveniva peraltro dal ceto medio. Sono tratti, quelli appena descritti, che in buona parte si adattano pure a Merkel. A iniziare dalla politica dei piccoli passi e dal preferire la mediazione allo scontro frontale. Entrambe poi si sono trovate a operare in fasi cruciali della storia: Lange durante gli anni del consolidamento dell’impero e dell’espansionismo tedesco; Merkel subito dopo la caduta del Muro di Berlino.
Lange nasce il 9 aprile del 1848, nel bel mezzo dei moti rivoluzionari borghesi, a Oldenburg, nella Bassa Sassonia. La famiglia appartiene al ceto medio, il padre è commerciante. All’inizio il destino non sembra avere intenzioni particolarmente benigne con lei. A soli sette anni resta orfana di madre, e quando ne ha sedici muore anche il padre. Allevata in un ambiente dalle vedute piuttosto aperte, Helene pensa di intraprendere il mestiere di insegnante. Ma essendo orfana di entrambi i genitori, non le viene consentito di accedere all’esame prima del compimento della maggiore età. Lei però non si scoraggia, aspetta e compiuti 23 anni si presenta all’esame, alla Königlichen Augusta Schule di Berlino, dove nel frattempo si era trasferita, grazie a un piccola eredità. L’esame lo supera ovviamente a pieni voti, non ultimo perché al corpo insegnante femminile (che poteva insegnare esclusivamente nelle scuole per ragazze), non era richiesta una grande preparazione (cosa che lei stessa avrebbe denunciato anni dopo nel suo famoso pamphlet “Gelbe Broschüre”). L’anno in cui sostiene l’esame, il 1872, è anche l’anno in cui a Weimar si viene a costituire la prima associazione di insegnanti delle scuole femminili di tutto il Reich tedesco. L’iniziativa sembra di buon auspicio: tra i 164 iscritti, 110 sono maschi e 54 femmine. Il fine ufficiale dell’associazione è quello di garantire una buona istruzione anche alle ragazze. Ma leggendo attentamente lo statuto si capisce che gli obiettivi veri di questa associazione erano assai meno nobili e molto maschilisti. Dallo statuto si apprende per esempio che: la “femmina” deve essere istruita affinché “il maschio tedesco non si annoi per la pochezza intellettuale della moglie, o addirittura ne finisca intrappolato e dunque impossibilitato a coltivare i suoi interessi più elevati”. Leggendo qualche anno dopo queste righe, Lange avrebbe commentato sarcasticamente: “Viene da chiedersi, perché mai l’uomo si prenda la briga di istruire il sesso femminile, visto che, intellettualmente parlando, è tanto inferiore a lui”. Una limitatezza, proseguiva Lange, che solleva anche un altro quesito: “Sarà poi possibile elevare la donna almeno quel tanto da evitare al maschio l’insopportabile noia dell’ignoranza?”.
Ovvio che un’associazione fondata su tali premesse non potesse cambiare proprio nulla, né nella preparazione scolastica e tanto meno nella percezione della donna da parte del maschio. Ben inteso, la donna di cui si parla qui è quella di estrazione borghese. Se in pieno Illuminismo alcune pubblicazioni tedesche propagavano l’immagine di una donna intellettualmente sempre più vivace e colta, nell’Ottocento anche la donna tedesca si ritrova a un certo punto relegata ai suoi “tratti caratteriali naturali”, cioè virtù dedizione e zelo. Una percezione che porta con sé anche una netta separazione degli spazi in cui donna e uomo agiscono: la casa diventa il regno della donna; mentre lo spazio pubblico è quello dell’uomo. Una condizione che pure in Germania trova non poche opposizioni. Anche per questo la scrittrice francese Olympe de Gouges, con il suo “Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne”, aveva conquistato molte sostenitrici tedesche. Nella sua dichiarazione, De Gouges affermava che se “la donna ha il diritto di salire sul patibolo”, ne consegue che “ha anche il diritto di poter calcare la scena politica”. La deduzione era giusta, ma per i tempi ancora troppo ardita, e così De Gouges stessa nel 1793 sarebbe finita sulla ghigliottina. Aveva però gettato il seme dell’emancipazione, un seme che, nonostante le molte battute d’arresto, avrebbe dato i suoi frutti. Nel 1850 sarebbe stata la tedesca Louise Otto-Peters ad affermare che “la partecipazione della donna alle questioni dello stato non è solo un diritto, ma un dovere”.
Fondatrice del primo movimento femminile tedesco, Otto-Peters si firmava “ein sächsisches Mädchen”, “una ragazza della Sassonia”. Curioso pseudonimo per una donna che non solo era consapevole dei propri natali – veniva da una famiglia di stimati e noti giuristi – ma, nonostante lo Zeitgeist allora imperante, era anche orgogliosamente donna. Una “condizione” che ai suoi occhi diventava finanche una missione. Otto-Peters aveva scelto il mestiere di giornalista, per documentare e denunciare la condizione delle donne delle classi meno abbienti in quell’epoca di rivoluzioni, non solo politiche: da un’economia prevalentemente agricola la Germania si stava velocissimamente trasformando in un paese industriale, dove nel 1898 metà delle donne andava già a lavorare, non ultimo per sfamare la numerosa prole.
Ma tornando alla parola “Mädchen”, un secolo e mezzo dopo questo appellativo sarebbe tornato in auge con un’altra donna. Anche questa, indubbiamente, di grande carattere e di polso. “Kohls Mädchen”, fu il soprannome degli esordi di Merkel. Kohl il politico potente. Kohl il tipico maschio della Germania anni Cinquanta e Sessanta: patriarca insensibile sia come marito che come padre (stando ai racconti e alle biografie, tutt’altro che positive, dei figli dell’ex cancelliere), che però aveva scommesso su questa “Mädchen” arrivata dall’est. Una scommessa vinta da Kohl, per quanto a costo del proprio ruolo. Merkel ha saputo farsi strada tra un esercito di politici maschi, tutti principi reggenti, tutti che studiavano da anni nella speranza di essere un giorno alla guida della Cdu, o addirittura cancelliere. Alcuni avevano stretto a tal fine anche un patto, l’Andenpakt (chiamato così perché i vari Wulff, Koch, Oettinger e Pöttering, Müller, Merz che ne facevano parte, l’avevano suggellato durante un viaggio in Cile, sulle Ande). Era un accordo di non belligeranza: se uno di loro avesse fatto carriera più velocemente, gli altri non gli avrebbero mai dovuto mettere i bastoni tra le ruote. Il patto si è però rivelato inutile. Con la caduta del Muro e l’arrivo di Kohls Mädchen, tutto era andato storto (per i maschi ovviamente). E oggi, la maggior parte dei membri dell’Andenpakt non è nemmeno più in politica (perché ha preferito costruirsi una nuova carriera nell’industria, come l’ex governatore Roland Koch per esempio, o perché se n’è dovuto andare, come l’ex capo di stato Christian Wulff). Merkel era arrivata e non solo aveva gettato all’aria i patti dei principi reggenti, ma aveva fatto anche piazza pulita del dominio maschile nei posti di comando. Con lei il cancelliere per la prima volta era donna, ed esattamente come in Inghilterra con Margaret Thatcher, anche in Germania era proprio un partito conservatore a ritrovarsi una donna alla guida. Oggi il commento acido dei suoi detrattori (fuori, ma qualcuno anche dentro al partito) è che questi due primati costituiscono anche l’unico contributo di Merkel all’emancipazione femminile. Al di là delle polemiche, vero è che, nei tredici e passa anni alla guida della Cdu e negli otto in cui è stata a capo del governo, Merkel non ha mai fatto suoi temi e battaglie di stampo squisitamente femminile. A iniziare dalle quote rosa. Lei non è favorevole a questa “presenza forzata”, anche se poi si rammarica che un numero troppo esiguo di donne si trovi in posizioni chiave. Lo stesso vale per il “Betreuungsgeld”, il contributo di accudimento pari a 150 euro al mese per figlio, se la donna resta a casa. Una novità che è diventata effettiva dal 1° agosto di quest’anno. Anche questo contributo non è mai stato un cavallo di battaglia della Kanzlerin, ma ha lasciato mano libera al ministro della Famiglia, la cristianodemocratica Christine Schröder. E in generale, sono proprio questi i temi sui quali lascia decidere volentieri il partito.
Merkel non solo non ha mai sostenuto battaglie squisitamente femminili, ma come ricordava tempo addietro un articolo sul sito del quotidiano Rheinische Post, con lei è stata operata una scissione definitiva tra potere e femminilità. Mentre la borsetta di Margaret Thatcher (che le serviva, è vero, anche per segnalare nervosismi e insofferenze, soprattutto durante i vertici internazionali) faceva da trait d’union tra potere e femminilità (facendo di Thatcher non solo una donna ma una Lady di ferro), Merkel non ha borsetta, e nemmeno un equivalente che potrebbe all’occorrenza ingentilire, rendere più femminile, il suo piglio. E visto anche il suo modo di gestire la crisi nell’Eurozona verrebbe più facile definirla un eiserner Kanzler. Difficile dire cosa abbia portato Merkel a essere così indifferente alla distinzione dei generi. Forse è un pragmatismo tipico delle donne dell’est, o più in generale è frutto di una mentalità tedesca più allergica a certe distinzioni (discriminazioni).
Questa separazione tra potere e gender, è ovviamente il risultato di un lungo percorso, anche se forse non segna ancora il punto d’arrivo auspicato da Lange. Un percorso di emancipazione avviato da donne come Louise Otto-Peters e Helene Lange. Donne determinate e cocciute. Otto-Peters nel 1849 aveva fondato la Frauenzeitung, il giornale delle donne. Purtroppo, la pubblicazione avrebbe avuto vita brevissima. Già nel 1850 il Parlamento prussiano licenziava una legge ad hoc, la “Lex Otto”, che vietava alle donne di pubblicare giornali. Utile alla causa femminile era poi che queste donne avessero interessi e scopi diversi. Se Otto-Peters voleva soprattutto che alle donne fosse consentito di partecipare alla vita politica, Lange era più attenta alla possibilità di impiego, in particolare delle donne del ceto medio, altrimenti relegate tra le mura domestiche, come voleva l’etichetta del tempo. Lange pensava per loro a professioni che tenessero conto della loro appartenenza sociale: dunque di tipo assistenziale, oppure in ambito scientifico e tecnologico, o con funzione impiegatizia alle poste, nelle ferrovie e nel commercio. E per inserirle in questi contesti era importante il livello di istruzione. Lange sognava in grande (sperava di poter un giorno vedere anche le donne sui banchi delle aule universitarie), ma si muoveva a piccoli passi, ben conscia delle resistenze che avrebbe incontrato. E vedeva giusto. Nel 1889, per esempio, il ministero dell’Istruzione aveva rifiutato la sua richiesta di portare le sue studentesse fino all’esame di maturità. Lange delusa, non si era però arresa. Aveva dato vita ai “Realkurse”, percorsi di studio più brevi dei classici cinque anni di liceo. I risultati conseguiti dalle sue allieve erano talmente eccellenti che, nel 1896, le prime sei ragazze tedesche venivano autorizzate a presentarsi all’esame di maturità. La sua politica dei piccoli passi avrebbe poi spianato la strada anche ad altre conquiste. Nel 1899 Minna Cauer e Anita Augspurg avevano fondato l’“Unione delle associazioni delle donne progressiste”. Il loro principale obiettivo era rivendicare e ottenere il diritto di voto anche per le donne. Ora, non è che Lange fosse contraria al fine, contestava però la radicalità della battaglia. Per lei lo scontro diretto era sempre dannoso. L’esperienza le aveva poi insegnato che il tempo comunque premiava le idee giuste. Certo, a volte, di tempo ne passava anche molto, come nel caso del suo pamphlet “Gelbe Broschüre”, (brochure gialla). L’aveva fatto avere sotto forma di petizione, nel gennaio del 1888, sia al Parlamento prussiano che al ministero dell’Istruzione. Lange proponeva una radicale riforma dell’istruzione delle ragazze, a cominciare dalla preparazione degli insegnanti donne. I deputati e il ministero nemmeno si erano presi la briga di prenderlo in considerazione. In compenso gli avevano dato ampio risalto i giornali, facendo così conoscere anche Lange in tutto il Reich germanico. Come detto, lì per lì, la petizione non sortì alcun effetto, nel 1904 invece, venne usata come base per la riforma della scuola femminile. Nel 1908 vi fu poi un altro cambiamento importante: le donne vennero ammesse nei partiti politici. Lange era subito entrata nella “Freisinnige Vereinigung” (Unione liberale). Infine, dieci anni dopo, nel 1918, arrivò per le donne tedesche il diritto di voto.
A ripercorrere attentamente il modo di procedere di Lange, è difficile non cogliere parallelismi con lo stile Merkel: quel procedere a piccoli passi, quell’evitare di prendere le questioni di petto, le rende molto simili. E sbaglia chi sostiene che Merkel non abbia contribuito in alcun modo a modernizzare la Cdu, a modificare l’immagine storica che il partito aveva della donna: moglie, madre e basta. L’ha fatto senza brandire la spada. Si è mossa con cautela. Scegliendo le persone giuste, e lasciando fare a loro. Come Ursula von der Leyen, che Merkel ha messo prima a capo del ministero della Famiglia e poi del Lavoro. D’altro canto, chi meglio della Von der Leyen, otto volte madre e da sempre donna lavoratrice, poteva avviare per conto della Cdu questo processo di ammodernamento? In Lange, insomma, si può scorgere molto bene un possibile modello per Merkel. Facendo e sottolineando un importante distinguo: anche se Merkel, come la sua illustre concittadina Lange, è convinta che l’evoluzione operi cambiamenti molto più significativi e salutari della rivoluzione, alla Kanzlerin manca una dote fondamentale: quella di avere grandi visioni.
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