Se pure l'America cambia le prigioni

Il procuratore generale degli Stati Uniti, Eric Holder, ha arricchito con motti ad alto coefficiente politico la proposta di ammorbidire la policy carceraria americana: “Non dobbiamo smettere di essere duri sul crimine. Ma dobbiamo anche essere più intelligenti sul crimine”. Nell’incontro annuale dell’American Bar Association a San Francisco, Holder ha indicato ai procuratori la via per aggirare le pene minime obbligatorie che la legge prevede nei reati di droga, anche in quelli minori.

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    Il procuratore generale degli Stati Uniti, Eric Holder, ha arricchito con motti ad alto coefficiente politico la proposta di ammorbidire la policy carceraria americana: “Non dobbiamo smettere di essere duri sul crimine. Ma dobbiamo anche essere più intelligenti sul crimine”. Nell’incontro annuale dell’American Bar Association a San Francisco, Holder ha indicato ai procuratori la via per aggirare le pene minime obbligatorie che la legge prevede nei reati di droga, anche in quelli minori. Basterà che l’accusa ometta le quantità di stupefacenti in possesso degli indagati per evitare che entri in azione il dispositivo che porta automaticamente al carcere, secondo un protocollo che rappresenta il precipitato legale della  “War on Drugs” cominciata negli anni Sessanta e riformata da Ronal Reagan a metà degli Ottanta. Le pene minime obbligatorie sono fissate da uno schema rigido che non tiene conto di attenuanti, minimizza l’impatto del contesto, sbiadisce l’aspetto della riabilitazione e valorizza quello della punizione, alla ricerca di un effetto deterrente che, dice il procuratore, ha portato come unico risultato significativo la sovrappopolazione delle carceri.

    Il tema carcerario non ha mai solleticato le fantasie politiche di Barack Obama. Il presidente non ha aizzato campagne militanti per diminuire la popolazione delle prigioni americane né ha cercato di smarcarsi dall’immagine dello zelante tutore della legge che per una lunga stagione è stato un connotato ineludibile del presidente americano. Il commander in chief è anche un inflessibile “law enforcer” che sbatte in prigione i cattivi. Obama però ha dato mandato al suo procuratore generale di esplorare il terreno poco battuto della lotta alla sovrappopolazione carceraria, e la riforma sostanziale annunciata ieri è la conclusione di un percorso che Holder ha iniziato alcuni mesi fa. In aprile ha detto che “troppi americani finiscono in troppe prigioni americane per troppo a lungo e senza una buona ragione legale” e qualche settimana più tardi, davanti a una commissione della Camera, ha spiegato: “Come società dobbiamo domandarci: stiamo mandando le persone giuste in carcere? Le pene sono appropriate? Alcune persone devono stare in prigione a lungo, e io ho emesso parecchie condanne quand’ero giudice qui a Washington, ma penso che ci siano alcune domande legittime sulle politiche che abbiamo promosso per parecchi anni, e dovremmo chiederci se la popolazione carceraria che abbiamo s’accorda con le risorse limitate che abbiamo a disposizione”.

    Le disposizioni diramate davanti agli avvocati riuniti in California si presentano come realizzazione, in ambito penale, di quella scaltra armonia fra senso morale ed esigenze della realtà che Obama ha eretto a principio cardine del suo governo. Holder dice che l’abolizione delle pene minime obbligatorie contribuirà a svuotare le carceri stracolme di detenuti, restituirà il potere discrezionale ai magistrati, ingabbiati da griglie inflessibili, e contemporaneamente libererà il sistema giudiziario americano da leggi che “se applicate in modo indiscriminato non servono la pubblica sicurezza, hanno un effetto negativo sulle comunità e sono, in ultima analisi, controproducenti”.

    La svolta garantista di Holder tradisce un calcolo d’immagine. Il procuratore è l’unico tassello del governo di Obama sopravvissuto ai rimpasti naturali di ogni amministrazione, e la continuità non è certo dovuta all’assenza di punti critici nel suo operato. Holder è rimasto invischiato nel traffico di armi finite nelle mani di narcos messicani, il cosiddetto “fast and furious”, si è attirato le antipatie dei liberal per le acrobazie legali con cui ha giustificato gli attacchi con i droni e le detenzioni a tempo indeterminato, si è gettato con furore giustizialista sui banchieri responsabili di ogni male, salvo poi scoprire che nelle liste del procuratore alcuni istituti erano “too big to prosecute”.

    Da ultimo, il dipartimento di Giustizia ha dovuto ammettere che i numeri della task force per le indagini sulle frodi sui mutui erano gonfiati: l’Amministrazione non ha messo sotto inchiesta 530 persone, come aveva dichiarato, ma soltanto 107, e l’ammontare delle perdite dei proprietari di immobili sono passate dalla cifra roboante di un miliardo di dollari a quella più modesta di 95 milioni. Un attacco frontale al sovraffollamento carcerario ammorbidisce l’immagine diffusa del procuratore che amministra selettivamente le iniziative per favorire la Casa Bianca, cambio di prospettiva che ben s’accorda con le preferenze dell’opinione pubblica.

    Allo stesso tempo Holder introduce nell’arena politica un problema di proporzioni enormi. Con 716 detenuti ogni centomila abitanti, gli Stati Uniti sono nettamente in testa alla classifica mondiale della detenzione (l’Italia ha 108 detenuti ogni centomila abitanti); secondo il Bureau of Justice Statistics – controllato dal dipartimento di Giustizia – nelle prigioni federali ci sono un milione e mezzo di detenuti, cifra che riflette una tendenza calante negli ultimi tre anni. Gli americani costituiscono il 5 per cento della popolazione mondiale, ma la popolazione carceraria ammonta al 25 per cento di quella globale, situazione che difficilmente si può slegare dal fatto che l’accusa vince il 95 per cento dei casi giudiziari; il 90 per cento di questi non arrivano nemmeno  alla fase del dibattimento. Intervenire sulle pene obbligatorie minime per i reati di droga non svuoterà istantaneamente le sovraffollate prigioni americane, ma rompe quella cieca cinghia di trasmissione che conduce senza distinzioni né possibilità di pene alternative i criminali dietro le sbarre. E mette al centro del dibattito quella che per decenni è stata la battaglia di una nicchia vociante e sostanzialmente inascoltata, dinamica analoga a quella che si dipana dentro ai nostri confini.

    Uno dei più agguerriti critici del sistema carcerario è l’ex magnate dei media Conrad Black, che nelle prigioni americane ha passato alcuni anni durante un processo denso di sottintesi politici che ha visto il progressivo sgretolamento dell’impianto accusatorio. Da quando è stato dichiarato innocente (e tuttavia bandito dagli Stati Uniti), il businessman canadese si è dedicato a tempo pieno all’esposizione dei peccati del sistema giudiziario americano, un organismo che prospera grazie alla complicità fra la corporazione degli avvocati, lo zelo manettaro dei procuratori e l’esternalizzazione ai privati del business delle carceri. Il conservatore Black coltiva una passione profonda per il libero mercato, ma non quando i detenuti diventano la “commodity” che accresce gli affari dei gestori delle prigioni, in accordo con il sindacato delle guardie carcerarie, una ricca corporazione che generosamente distribuisce finanziamenti a politici che ricambieranno il favore costruendo nuove strutture detentive. Le quali poi dovranno essere opportunamente riempite per dare frutto. Le disposizioni di Holder segnano il circospetto ingresso dell’Amministrazione nel ginepriao della politica detentiva.

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