Il romanzo di padri e figlie

Umberto Silva

Che Marina Berlusconi saggiamente dica no alla discesa in campo in nome del padre, indica che davvero potrebbe scendervi senza rompersi le gambe. Accortamente suo padre si astiene dal fare pressioni. Non vuole essere il mandante e fare della figlia il sicario dei suoi desideri, sa che lei è altro da lui, e come tale va rispettata. Intanto che Marina Berlusconi medita a bordo campo i radical chic arricciano naso e coda: la figlia del Cavaliere non assomiglia per niente a una Kennedy e questo è un peccato originale. Come osa pensare di rappresentare l’Italia?

    Che Marina Berlusconi saggiamente dica no alla discesa in campo in nome del padre, indica che davvero potrebbe scendervi senza rompersi le gambe. Accortamente suo padre si astiene dal fare pressioni. Non vuole essere il mandante e fare della figlia il sicario dei suoi desideri, sa che lei è altro da lui, e come tale va rispettata. Intanto che Marina Berlusconi medita a bordo campo i radical chic arricciano naso e coda: la figlia del Cavaliere non assomiglia per niente a una Kennedy e questo è un peccato originale. Come osa pensare di rappresentare l’Italia? Pacchianamente affascinati dalla maschera, gli chic dimenticano il vero volto delle Kennedy, povere donne costrette a tristi parate famigliari, benefattrici di enti assistenziali ma soprattutto brillanti coperture della smania ultraputtaniera dei mariti, che il presidente della Baia dei Porci le signorine se le faceva passare direttamente da un capo mafioso che forse uccise Marilyn Monroe. E’ che la mitologia tarda a morire e il nome Kennedy suona maledettamente bene, secco, efficiente e veloce come una sveltina nello Studio ovale.

    Ci sono padri e padri, figlie e figlie, c’è un po’ di tutto. C’è Papà Goriot, personaggio con il quale a lungo mi sono identificato per via della mia insana smania di auscultare ogni battito del cuore di mia figlia, in tal modo assordandomi alla sua parola. Se Cronos divorava i figli nel timore d’esserne divorato, Goriot amava sopra ogni cosa essere divorato dalle sue due ambiziose figliole, che rincorreva con gli ultimi ori del suo patrimonio accumulato con duro lavoro. Quello era il suo godimento; le balzachiane Anastasie e Delphine, stavano bene in quanto a denaro, sposate con sordidi banchieri e ricchi nobilastri, ma avevano necessità di extra per i loro amanti e Goriot era sempre pronto a svenarsi; le figlie erano una droga per lui, pronto a spogliarsi di tutto per rivestirle di ogni lusso. Incarnavano il desiderio del padre di mostrarsi l’uomo più buono del mondo? Celebravano coram populo il suo masochismo? Voleva Papà Goriot convincersi di amare più dello stesso Dio? Quale oscuro incestuoso senso di colpa lo spingeva a tanto? O era il modo di liberarsi di un sé insopportabile, di quel lurido avaro che al fondo era il suo cuore?

    Capita che il presunto amore per una figlia mascheri ben più torbidi sentimenti, e che l’ostentato altruismo nasconda egolatrie dissennate e pulsioni omicide. A riempire le figlie come otri le si fa scoppiare; idolatrarle è annichilirle, aprire loro troppo la strada può rinchiuderle in un giardino di piante velenose.

    Eredi borghesi delle regali figlie di Lear, quelle di Goriot assecondano il gioco, non rifiutano nulla, chiedono, chiedono sempre, una gara tra sorelle per conquistare l’amore di un generoso padre. Ma è proprio così? O i doni dei padri masochisti sono avvelenati, come mostrano d’intendere quelle figlie che rifiutano le paterne lusinghe e preferiscono una vita più difficile ma libera, che non sia emanazione delle genitoriali voglie? Riesce difficile pensare nelle vesti di Papà Goriot quel Cavaliere che non si priva di niente. Non gli piace essere divorato, piuttosto sembrerebbe indulgere in una certa ingordigia. Ma lascia libere le sue figliole nelle loro scelte di vita, di lavoro e di eros, amino chi desiderano, facciano i figli che vogliono, c’è posto per tutti. Dreams that money can buy? Sì, ma anche una certa gaia leggerezza che dice di un tempo nuovo, in occidente. Nei secoli le figlie tradizionalmente erano più asservite dei maschi al dettato paterno, e quando si ribellavano correvano seri rischi; “diseredate” era una parola dal suono sinistro come una condanna a morte. Ne sa qualcosa Olivia de Havilland, l’“Ereditiera” di Henry James e William Wyler, che per una maledetta eredità si troverà a vivere in un duplice odio, per il padre e per l’amato Montgomery Clift. Bisognava essere molto coraggiose per contrastare il verbo paterno, quel coraggio che ora hanno le eroine orientali quando rischiano la vita pur di non sposare uomini loro imposti da padri che le considerano merci di scambio o fastidiosi esserini da togliersi quanto prima dai piedi. Terrore di un possibile incesto annidato in torbidi sguardi cui la figlia poteva risultare sensibile? La figura paterna può trarre la ragazza in una sorta d’innamoramento edipico, e se il padre asseconda questo gioco, costei rimane avviluppata nella tela del ragno. Un esempio di divoramento lo diede Ugo Foscolo. La figlia Floriana gli era estremamente dedita e non battè ciglio quando il poeta le sottrasse la dote materna per spendersela allegramente; e quando lui rimase povero e infermo lei gli dedicò quel che restava della propria giovinezza senza storia. Lui morto, anche Floriana rapidamente si spense. Amore filiale, amour fou o che altro? C’è amore nella rinuncia di sé? Fatto sta che in quegli anni il grande poeta non produsse più niente. Senso di colpa? E’ triste vedere consumarsi gli anni migliori di una figlia che per amarci si priva dell’amore. “Vattene!” a un certo punto le dici, e lei se ne sta accucciata ai tuoi piedi, e chiede solo di amarti.

    Foscolo scrisse “Le Grazie”, roba da abbagliare una figlia per tutta la vita, il Cavaliere inventò “Drive in”, in compenso i patrimoni che ha donato ai figli sono assai sostanziosi, da bravo brianzolo a certe cose ci tiene, alla tradizione. O alla successione? Già, lì si gioca tutto quanto, la tradizione o la successione? Se un padre impone una legge alla figlia e costei impaurita o fin troppo riconoscente obbedisce rinunciando al proprio desiderio, sono guai per entrambi, l’odio regna in una simile coppia, pur tra mille “vogliamoci bene”. “Tu mi succederai, sei la mia erede”, tuona il padre, o neppure ha bisogno di tuonare, gli basta uno sguardo e la figlia, che magari desiderava tutt’altro, si adegua. Entrambi peccano, padre e figlia; uno la considera come sua appendice, l’altra considera lui poca cosa, uno che senza di lei non sa esistere. L’appendice si ammala, diventa appendicite ma non si trova un chirurgo che la sappia tagliare, che spezzi questa sterile simbiosi: la madre, che potrebbe agire, non interviene, dal momento che proprio lei è stata la prima figlia del marito, quella che l’ha sposato perché gli ricordava tanto suo padre. O forse no, forse le ricordava il padre della compagna di banco, quel bell’uomo tutto d’un pezzo che veniva a prenderle a scuola con il Mercedes e le faceva sentire tutta la potenza dei suoi cavalli; le metteva la mano sulla spalla e lei si faceva piccina piccina, come ora. Capita che se il proprio padre non è un gigante lo si disprezzi, e si vada in caccia di uno che lo sembra un gigante ma che poi si rivela un nano; si passerà la vita a dirsi che no, non c’è stata svista, lui è davvero un gigante, e per vederlo tale la figlia si appiattisce. Sorge così una grottesca gara: il padre diverrà alcolista e la figlia sempre più rasoterra, e per lui farà le cose più ignobili, fino a denudarsi nel Grand Hotel di San Martino di Castrozza per esaudire il desiderio di un pervertito, il cui denaro permetta al gigante di risollevarsi; salvo non reggere alla vergogna di quell’atto e uccidersi col Veronal, come la Signorina Else di Schnitzler. La Sonia di “Delitto e castigo” invece cammina nella feccia senza tuttavia inabissarsi, come se un’invisibile aureola la preservasse dal male; si prostituisce per pochi copechi per pagare la vodka al padre, quel vecchio birbante di Marmeladov, che osa perfino commuoversi per questi gesti della figlia. Dalle parti di Dostoevskij ogni miracolo è possibile, siamo nell’inferno ma con Chagall, un inferno dove gli asini volano. E così Sonia ama un assassino, Raskolnikov, colui che voleva fare il macellaio in grande stile, Napoleone, ed è costretto invece ad accontentarsi di ammazzare due vecchiette una nemmeno tanto etta a dire il vero, un’orrida usuraia che forse per calcolo ha servito un padre, per quei quattro ori che le sono costati la vita, se vita la si vuole chiamare. Questa è la catena ereditaria che lega gli uni agli altri; chi la spezzerà, chi ci riuscirà? Sonia segue il suo amato assassino in Siberia, come Anna ha seguito Dostoevskij in una Siberia fastosa e illuminata ma ancora più insidiosa, Baden-Baden; che se da lì quella notte, dopo avere tutto perduto alla roulette, Dostoevskij non fosse fuggito salvando l’anima, quell’anima che aveva consegnato al proprio padre mai abbastanza ucciso… scrive Freud, uno la cui figlia, Anna anch’essa, per restargli fedele sposerà una donna.

    Torniamo a Marina e al Cavaliere, qui i fatti e le parole dicono che più che successione e legge, c’è tradizione e invenzione, c’è una figlia che stimando l’opera del padre non cede a sfibranti sensi di colpa ma s’innamora proprio dell’azienda di cui il padre, nella sua lotta di tycoon contro altri pescecani, lotte che fanno la leggenda e la forza del capitalismo, lotta senza esclusione di colpi bassi che sono i più alti, ché parlare di regole nel capitalismo equivale a mettere le braghe agli orgiastici dannati di Michelangelo… La figlia Marina, dicevo, dirige con decisione quell’impero editoriale che in uno scontro violento fu dal padre carpito al suo rivale. Una tradizione quindi che sfocia in traduzione, non un adeguamento all’opera paterna in una meccanica, genetica successione ereditaria che salta il passaggio del simbolico, ma una sua reinvenzione in un nuovo contesto e progetto. Non si eredita nulla, se ci si pensa eletti per via del sangue e del nome ci si ritrova con un pugno di mosche, d’oro massiccio ma sempre mosche. Lungi dall’immedesimazione col padre, che comporta il sacrificio, ecco allora il colloquio col padre, scambio di parola e ascolto del paterno insegnamento con indipendenza e distanza, al fine di una riuscita. Ché a questo ambisce un vero padre: a una figlia che sia altro da lui, che magari appena nata un po’ gli somiglia ma rapidamente diventa qualcosa di differente, e il giorno che gli disubbidisce perché lui la vuole mandare a Parigi ma lei dice no, preferisco un gelato al limone, ecco, quello è un gran giorno. Una figlia che si scoccia se per la centesima volta gli amici e i parenti le dicono che è “tutta suo padre”; no, lei non ha la sua parlantina ma ha qualcos’altro che lui non ha: smentendo quel che diceva Enzo Biagi il Cav. non ha le tette, e credo che gli ultimi eventi l’abbiano ampiamente dimostrato, che se le avesse avute le signore giudici avrebbero mostrato maggior comprensione.

    La differenza, quindi; essa garantisce l’amicizia tra un padre e una figlia, mentre nella similitudine siamo alla Creatura del barone Frankenstein che quando il padre, nobiluomo di bell’aspetto, dopo averla con gran perizia costruita – e già questa parola suona tremenda – se la trova davanti così diversa da sé, brutta e giallognola e storta, non può trattenere un moto di orrore. E la Creatura se ne accorge, eccome. Se non sorridi alla figlia, se non la ami anche se ha i foruncoli o due gambe in meno, perché innanzitutto è tua figlia ma soprattutto un’anima anche se è nata in modo piuttosto strano come sempre più sovente accade oggidì, beh, meriti la sorte del barone Frankenstein, che per quella smorfia fu perseguitato fino alla fine dei suoi giorni. Invano cercò di sfuggire, di sposarsi incontrando altro affetto; l’amore che non dai alla figlia non lo troverai mai, invano lo cercherai in ogni parte del mondo, tutto sarà malinconia. Se poi, per un qualsivoglia malinteso di quelli con cui il destino ci mette alla prova, tu l’amassi e lei ti odiasse, non sacrificarti a lei, sarebbe condannarti ma anche, contrariamente a quel che puoi pensare, condannarla. Un padre che non osa vedere, intendere e contrastare l’odio della figlia, padre non è ma figlio, figlio di sua figlia.

    Quando si capisce che c’è tradizione e traduzione, e non mera osservanza della legge paterna? Quando c’è riuscita. Sofia Coppola è stata fin da piccola nutrita a pellicola e inquadrature, impavida si aggirava sul set nei luoghi più impervi dell’oriente sconvolto dagli tsunami. E che Francis Ford Coppola fosse un grande regista e produttore, non le è stato d’impedimento, come dimostrano gli esiti della sua carriera. Non l’ha ostacolata quella figura paterna in tutti i sensi assai ingombrante, perché Sofia non l’ha visto tale. Hanno fin da subito – come lo so? il risultato dice – instaurato uno splendido colloquio e in tal modo lei ha potuto vederlo e amarlo e ammirarlo, senza invidiarlo. Il passo dall’invidia all’ammirazione è decisivo, non si stancava di ripetere Albert Camus e sulla sua ammirata scia anch’io lo ripeto. Viceversa ci sono figli che non tollerano la grandezza dei padri, anche perché spesso costoro la fanno pesare, eccome. Questi figli allora imboccano strade non differenti ma opposte: “Tutto voglio diventare, tranne mio padre”, proclamano a motto di una intera vita, salvo anni dopo accorgersi che a furia di tenere presente, per negarlo, questo modello, sono diventate esattamente come lui, il padre disdegnato. Magari un po’ peggio, com’è destino della copia. Certo, il padre deve fare la sua parte. Se non tocca al figlio riempire quel che il padre non ha potuto o saputo fare, comunque gli tocca diventare qualcuno, questo sì, e a questo un genitore occorre collabori con generosità, se è padre. La grande riuscita di un padre è ritrovarsi figli più svegli di lui. La gioia è una ragazza che ci confuta e deride come Gesù fece con i dottori del tempio, che beffeggia con il suo superiore brio la nostra pretesa di fare i padri nobili o saccenti. A me è capitata questa fortuna, auguro al Cavaliere che sia così anche per lui. Marina e le altre figlie amorosamente e argutamente lo sfottano e spariglino le carte della sua politica e le strutture delle sue aziende. Lo provochino al punto che prima s’arrabbi e poi rida di sé; solo allora, quando non un torvo magistrato ma una simpatica figliola lo condannerà agli arresti domiciliari con l’obbligo di tenerle il pupo, egli sarà felice, per quanto un uomo può esserlo.