Nella Germania al voto il lavoro è il grande (e strano) tabù

Andrea Affaticati

Se nemmeno il capo dei socialdemocratici tedeschi ci crede, nella vittoria, chi dovrebbe farlo? Il candidato alle elezioni di settembre, Peer Steinbrück, non riesce a trascinare l’elettorato, ma le indiscrezioni sulla strategia di Sigmar Gabriel fanno ancora più danno. Quando si è saputo che il leader dell’Spd ha convocato un minicongresso del partito già per il 24 settembre, cioè a meno di 48 ore dalla chiusura delle urne, ci sono state inevitabili speculazioni: Gabriel l’ha convocato perché così non sarà solo lui a dover rendere conto del risultato, ma anche Steinbrück e Steinmeier (il quale invece sperava di farsi confermare prima come capogruppo al Bundestag).

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    Se nemmeno il capo dei socialdemocratici tedeschi ci crede, nella vittoria, chi dovrebbe farlo? Il candidato alle elezioni di settembre, Peer Steinbrück, non riesce a trascinare l’elettorato, ma le indiscrezioni sulla strategia di Sigmar Gabriel fanno ancora più danno. Quando si è saputo che il leader dell’Spd ha convocato un minicongresso del partito già per il 24 settembre, cioè a meno di 48 ore dalla chiusura delle urne, ci sono state inevitabili speculazioni: Gabriel l’ha convocato perché così non sarà solo lui a dover rendere conto del risultato, ma anche Steinbrück e Steinmeier (il quale invece sperava di farsi confermare prima come capogruppo al Bundestag).
    E’ dall’uscita di scena di Gerhard Schröder nel 2005 che l’Spd si concentra più che sui programmi sulle persone che devono guidare il partito. Tale affannarsi ha portato a una girandola di leader (tre dal 2005) e ha distorto l’approccio politico. Schröder è stato contestato dall’ala sinistra del partito per le sue riforme nel mercato del lavoro, e non per gli intrighi di potere. Ed è proprio da queste riforme che l’Spd potrebbe ripartire, dal momento che hanno permesso alla Germania di abbattere, nel giro di un decennio, la disoccupazione, passata da 4,1 milioni nel 2002 a 2,9 milioni di oggi; hanno portato il paese a essere di nuovo la locomotiva economica dell’Europa; ma hanno al tempo stesso messo in luce difetti di “impianto” (un po’ come il trattato di Maastricht) che andrebbero corretti. Eccone alcuni: lo stato tedesco spende undici miliardi di euro tutti gli anni per sostenere finanziariamente lavoratori che guadagnano troppo poco. La quota di chi rientra in questa fascia di compensi molto bassi (cioè meno di due terzi dello stipendio medio) è salita al 22 per cento. I lavori interinali sono più che raddoppiati, passando da 310 mila nel 2002 a 820 mila nel 2012; mentre gli imprenditori di loro stessi (società composte da un’unica persona) sono aumentati da 1,7 milioni a 2,2 milioni. Infine, se il numero di ore di lavoro pro capite è sceso per chi ha una sola occupazione, è invece aumentato notevolmente il totale di ore di lavoro per chi deve farne più di uno per riuscire a mantenersi.

    La cancelliera Angela Merkel però, prima di andare in vacanza, affermava orgogliosa: “Questo è il miglior governo che la Germania abbia avuto dalla caduta del Muro”, e portava a esempio il mercato del lavoro. Philipp Rösler, il capo dei liberali dell’Fdp, nonché ministro dell’Economia, già prima aveva fatto affiggere giganteschi manifesti (costati 330 mila euro al contribuente tedesco) con la scritta: “Mai prima così tante persone con un lavoro. Grazie Germania”.
    Verrebbe da dire: beati tedeschi, non fosse che il retro della medaglia racconta anche un’altra realtà. E cioè quella di una Germania che con il suo 22 per cento di persone che guadagnano meno di 9,54 euro lordi all’ora, si posiziona al quarto posto (subito dopo Lettonia, Lituania, Romania e Polonia) in Europa. Questo racconta il settimanale Zeit, anticipando i nuovi dati sul mercato del lavoro, che verranno comunicati durante la consueta conferenza stampa di fine mese dall’agenzia federale del lavoro. Se da una parte questi dati raccontano la storia di una guarigione quasi miracolosa, dall’altra mettono in luce un prodigio riuscito solo a metà. E’ vero, c’è un dato fondamentale che differenzia la Germania da gran parte del resto d’Europa: è quello della disoccupazione. Ma ce ne sono altri che evidenziano invece problemi strutturali simili a quelli che affliggono anche Italia, Spagna e Francia: una crescente precarietà a fronte di salari sempre più bassi. Un problema del sistema capitalistico che dovrebbe invogliare soprattutto l’Spd a cercare nuove soluzioni.

    E invece anche il mercato del lavoro sembra essere uno di quei temi che gli schieramenti politici preferiscono schivare in questa campagna elettorale. Cdu e Spd si limitano a indicare nei loro programmi l’intenzione di introdurre un salario minimo (che la Cdu chiama soglia minima di retribuzione, e intende applicare solo ai settori che non sono regolati da contratti collettivi, ma a ben vedere poco cambia rispetto alle intenzioni dell’Spd).

    L’occasione persa dei socialdemocratici
    Se i motivi che spingono il centrodestra a trascurare l’argomento appaiono comprensibili (se il mercato del lavoro va a gonfie vele, perché parlarne?), non si capisce il silenzio dei socialdemocratici. O meglio, si può anche capire. La riforma del mercato del lavoro è stata opera del governo rosso-verde. Molti socialdemocratici hanno sicuramente la coda di paglia, altri restano rigidi sulle proprie posizioni: chi difende a spada tratta Hartz IV (la riforma di Schröder) e chi invece vorrebbe farne carta straccia. Un punto di incontro tra queste due posizioni non è ancora stato trovato.

    Eppure quale miglior tema di quello del lavoro, non solo per disputare la campagna elettorale, ma anche (e/o soprattutto) per gettare le basi di una nuova socialdemocrazia al passo con i tempi? L’Spd quest’anno compie 150 anni. Il partito è stato a lungo faro e modello per le socialdemocrazie europee. La globalizzazione l’ha paralizzato, esattamente come ha paralizzato gli altri partiti europei di stampo progressista. Le riforme volute da Schröder hanno centrato il primo obiettivo: rendere più elastico il mercato del lavoro, e così facendo permettere il rientro di milioni di disoccupati. Ha mancato però il secondo: quello di far crescere il numero dei contratti a tempo indeterminato. L’Spd, nell’anno del suo storico anniversario, avrebbe potuto, dovuto, elaborare una nuova piattaforma programmatica sul lavoro ai tempi della globalizzazione. Schröder le sue riforme le aveva discusse con l’allora premier britannico Tony Blair, che pensava a una terza via, una socialdemocrazia di stampo più marcatamente liberista. Oggi l’alleanza dell’Spd dovrebbe essere più ampia, visto il drammatico problema della disoccupazione che affligge una buona parte dell’Europa. Una cooperazione fattiva che si dimostrerebbe certamente più proficua (anche in termini di ritorno elettorale) delle reciproche visite di sostegno/cortesia (come quella in febbraio di Steinbrück a Pierluigi Bersani) che ci si usa fare prima dell’appuntamento elettorale.

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