Autonomia a Berlino
Quella consapevolezza tutta tedesca di fare meglio senza Bruxelles
Non c’è una lettura univoca dell’espressione “ci vuole più Europa” spesso usata dai capi di stato nel Vecchio continente. Il presidente del Consiglio italiano, Enrico Letta, ad esempio, la collega al concetto di “coesione” come idea utile per costruire un’Europa “più vicina ai cittadini, più efficiente, più coraggiosa”, come ha detto anticipando il suo intervento al Meeting ciellino di Rimini di domenica scorsa. Non sembra, però, questa l’idea di “più Europa” che hanno in mente i funzionari governativi della prima potenza economica dell’Eurozona, la Germania.
Leggi l'editoriale Quando Letta affronterà la Merkel?
Non c’è una lettura univoca dell’espressione “ci vuole più Europa” spesso usata dai capi di stato nel Vecchio continente. Il presidente del Consiglio italiano, Enrico Letta, ad esempio, la collega al concetto di “coesione” come idea utile per costruire un’Europa “più vicina ai cittadini, più efficiente, più coraggiosa”, come ha detto anticipando il suo intervento al Meeting ciellino di Rimini di domenica scorsa. Non sembra, però, questa l’idea di “più Europa” che hanno in mente i funzionari governativi della prima potenza economica dell’Eurozona, la Germania. La cancelliera tedesca Angela Merkel pensa che “più Europa” significhi certo una maggiore collaborazione tra stati, ma nel senso di “più strette relazioni bilaterali” tra paesi membri, senza passare necessariamente dalle burocratiche istituzioni comunitarie site a Bruxelles. Merkel l’ha sostenuto settimana scorsa in un’intervista televisiva alla rete Phoenix anticipando che, dopo le elezioni federali del 22 settembre che molto probabilmente la consegneranno alla storia come il cancelliere più longevo dalla riunificazione (in caso di vittoria, sarebbe al terzo mandato consecutivo), nel governo tedesco si comincerà a discutere dell’efficacia e dell’efficienza delle istituzioni brussellesi. Se non uno smantellamento (impossibile) della pervicace burocrazia europea, è quanto meno l’anticipazione del disimpegno tedesco nei confronti dell’apparato della Commissione, in primis. Non sono nuovi i malumori di Berlino (e non solo) nei confronti dell’organo esecutivo dell’Unione europea gestito negli ultimi otto anni dal commissario di origine portoghese, José Manuel Barroso. A maggio, le critiche del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, su una “inefficace” approccio della Commissione nel combattere la disoccupazione giovanile avevano irritato Barroso. La replica fu piccata (“i tedeschi hanno dovuto affrontare molte critiche per la loro politica di pura austerità in Europa”), forse perché Schäuble aveva colpito nel vivo, in un momento in cui la Commissione stava per finire (in giugno) sotto il fuoco del Fondo monetario internazionale per la malagestione del salvataggio greco.
Ora che l’Eurozona è ufficialmente uscita dalla recessione perché le statistiche di Eurostat stimano un aumento del pil frazionale (0,3 per cento), è chiaro agli occhi degli osservatori che tale rimbalzo statistico sia stato determinato dalla crescita tedesca (e in parte da quella francese, sebbene a confronto più ridotta). La Germania ha registrato un aumento del pil nell’ultimo trimestre dello 0,7 per cento, l’industria tedesca sta migliorando e così la fiducia degli investitori nei confronti dell’economia di Berlino; avvantaggiata per certo dalla ripresa dei paesi dell’est, cui è strettamente legata, e anche dai paesi dell’euro-core, come la Francia.
L’approccio proposto da Merkel in quell’intervista televisiva per avere “più Europa” è quello che la Germania cerca di perseguire da tempo. E lo fa non solo attraverso relazioni economiche più strette (e privilegiate rispetto agli altri paesi membri) con la Cina – cosa che aiuterà Berlino a tornare il secondo esportatore al mondo entro fine anno, superando gli Stati Uniti, almeno stando a un rapporto dalla Dihk, la camera di commercio di Berlino – ma anche attraverso il sostegno ai paesi periferici in difficoltà. Difficoltà in parte derivanti dalle politiche rigoriste richieste dalla Germania stessa. In particolare è attraverso la Kreditanstalt für Wiederaufbau (Kfw), una banca di stato simile alla nostra Cassa depositi e prestiti, che la diplomazia economica della cancelliera intende andare in soccorso delle fragili economie di Portogallo, Spagna e Grecia. A fine maggio, un “preoccupato” ministro delle Finanze portoghese, Vitor Gaspar, preoccupato per via degli alti costi di finanziamento statali, aveva afferrato la mano tesa della Kfw per ricapitalizzare le imprese e attivare nuove linee di credito verso Lisbona (aggiungendo l’intenzione di aiutare il governo a costituire un’istituzione finanziaria dedicata allo sviluppo economico su stampo della Kfw). In quell’occasione Schäuble ha ricordato che un simile programma bilaterale di sostegno economico era in via di studio anche nei confronti della Spagna, dove gli investimenti azionari verso le pmi sono carenti. E che, quindi, la Germania era pronta ad aiutare gli spagnoli nel costituire un fondo ad hoc per le imprese iberiche. In precedenza era stato il ministro dell’Economia tedesco, Philipp Rösler, ad annunciare un’iniziativa sulla stessa linea volta a fornire liquidità alle pmi della bistrattata Grecia. Potrebbe essere la direttrice delle relazioni bilaterali prospettate da Merkel: dare aiuto immediato all’economia reale dei paesi periferici oggi, per diventare indispensabili un domani. Magari meglio e più in fretta di Bruxelles.
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