Ecco cosa potrebbero imparare da Leonard gli scrittori da premio Strega

Mariarosa Mancuso

L’idea di pensionarsi non gli era mai passata per la testa. Son cose che fanno gli scrittori come Philip Roth o Alice Munro: dopo aver tanto faticato a girare le frasi di un romanzo o a costruire racconti perfetti, decidono che l’arte è troppo lunga e la vita troppo breve per morire con la penna in mano. Elmore Leonard a scrivere si divertiva, stava lavorando al suo romanzo numero quarantasei. Pubblicò i suoi primi racconti su riviste pulp – quelle vere, non quelle che oggi si fingono tali per farsi meglio notare dai critici.  Nel 1967 abbandonò il lavoro da pubblicitario – lo stesso che faceva Salman Rushdie ai tempi di “Mad Men” – per darsi prima ai western e poi alle storie criminali, quando i cavalli e cowboy cominciavano a perdere lettori.

    L’idea di pensionarsi non gli era mai passata per la testa. Son cose che fanno gli scrittori come Philip Roth o Alice Munro: dopo aver tanto faticato a girare le frasi di un romanzo o a costruire racconti perfetti, decidono che l’arte è troppo lunga e la vita troppo breve per morire con la penna in mano. Elmore Leonard a scrivere si divertiva, stava lavorando al suo romanzo numero quarantasei. Pubblicò i suoi primi racconti su riviste pulp – quelle vere, non quelle che oggi si fingono tali per farsi meglio notare dai critici.  Nel 1967 abbandonò il lavoro da pubblicitario – lo stesso che faceva Salman Rushdie ai tempi di “Mad Men” – per darsi prima ai western e poi alle storie criminali, quando i cavalli e cowboy cominciavano a perdere lettori.

    Il cinema lo adorava, ricambiato: se un adattamento veniva male, pensava che il prossimo sarebbe riuscito meglio, senza giurare odio eterno al regista. Quando riuscivano bene, erano meraviglie come “Jackie Brown” di Quentin Tarantino, impreziosito dalla presenza di Pam Grier, star della blaxploitation anni Settanta. O come “Out of Sight” di Steven Soderbergh, con George Clooney rapinatore di banche innamorato della sceriffa Jennifer Lopez un po’ in disgrazia. In “Get Shorty” di Barry Sonnenfeld, John Travolta passa dai bassifondi criminali a Hollywood, e quasi non nota la differenza, anche le vie del cinema sono lastricate di cadaveri. Fu allora che il nome di Elmore Leonard divenne un marchio di fabbrica, e lo scrittore fu il primo a restarne sorpreso. Bravo lo era da sempre: Martin Amis ne ammira “l’occhio, l’orecchio, il ritmo, il fraseggio”, a un romanziere altro non si può chiedere. I suoi personaggi sono tipi interessanti, fan cose diverse da quelle che fa nostro cugino con cui non vorremmo passare un pomeriggio, e ogni volta che aprono bocca li stiamo a sentire.

    Le sue dieci regole di scrittura (“10 Rules of Writing”, uscite sul New York Times quando i giornalisti lo assillavano cercando di carpirgli i segreti del mestiere) sono tra i volumetti che abbiamo più cari, da regalare a tutti i noiristi italiani. Oltre che agli scrittori da premio Strega: 3 sbagli e sei fuori, il premio viene revocato anche se già vinto. Esiste un solo verbo, quando un personaggio parla. Ed è “disse”. Non “soggiunse”. Non “affermò”. Non “ribadì”. Vietati gli avverbi a contorno del “disse”. Se uno le sue cose le dice “pacatamente” o “ironicamente” o “istericamente” il tono si deve capire dalle parole tra virgolette, ogni altro mezzo è da dilettanti. Siccome da lettori certe descrizioni tendiamo a saltarle, non c’è nessun bisogno che lo scrittore le metta sulla pagina. Guai a cominciare un romanzo con il tempo che fa, come “L’uomo senza qualità”. Per questo Musil se ne sta sul suo scaffale, mai più toccato da quel dì, e i romanzi di Elmore Leonard li abbiamo consumati a furia di riprenderli in mano.