L'Amministrazione Obama e l'aviazione siriana
Lo studio che smentisce il Pentagono: fermare Assad si può (ma non si vuole)
Un think tank di Washington smentisce il capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey, che il 19 luglio in una lettera al Congresso ha spiegato che un intervento militare in Siria è rischioso, costosissimo, richiede l’impiego di centinaia di aerei, navi e sommergibili e si trasformerà in un impegno a lungo termine. I numeri allarmanti del generale sono: un’operazione di almeno un anno e dodici miliardi di dollari, con la possibilità concreta di essere costretti infine a mandare anche le truppe di terra (l’incubo “boots on the ground”, l’esatto contrario della politica del presidente Barack Obama). Il paper che sbugiarda la cautela del Pentagono è del 31 luglio ed è firmato da Christopher Harmer.
Un think tank di Washington smentisce il capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey, che il 19 luglio in una lettera al Congresso ha spiegato che un intervento militare in Siria è rischioso, costosissimo, richiede l’impiego di centinaia di aerei, navi e sommergibili e si trasformerà in un impegno a lungo termine. I numeri allarmanti del generale sono: un’operazione di almeno un anno e dodici miliardi di dollari, con la possibilità concreta di essere costretti infine a mandare anche le truppe di terra (l’incubo “boots on the ground”, l’esatto contrario della politica del presidente Barack Obama). Il paper che sbugiarda la cautela del Pentagono è del 31 luglio ed è firmato da Christopher Harmer, un ex analista della marina che ora lavora per l’Institute for the Study of War (è un think tank specializzato in analisi e dettagli politici e militari sulle guerre americane in Iraq e in Afghanistan, da tempo segue anche la crisi in Siria). Harmer sostiene che imporre una no-fly zone temporanea sulla Siria sarebbe un’operazione a basso costo, che impegnerebbe una forza modesta e non comporterebbe la perdita di alcun soldato americano. Nota che delle 27 basi aeree potenzialmente utilizzabili dall’aviazione del presidente Bashar el Assad ne restano in funzione soltanto sei: le altre o sono in territorio ribelle o sono assediate oppure non possono essere usate perché Damasco non ha abbastanza mezzi – rimangono soltanto 100 aerei – e abbastanza personale. Le basi sono: l’aeroporto internazionale di Damasco, Dumayr e Mezze, tutte e tre vicino alla capitale; Qusayr, vicino Homs; Tiyas, in mezzo al deserto; e l’aeroporto internazionale Bassel el Assad, a Latakia, sulla costa.
L’analista americano sottolinea una fondamentale differenza tra “destruction” e “degradation”: può darsi che per distruggere la forza aerea siriana siano necessarie centinaia di missioni, ma per degradarla, quindi per paralizzarla e impedire che gli aerei si sollevino dal suolo, basta infinitamente meno: aprire buchi nelle piste con le bombe, fare saltare la torre di controllo e le cisterne con il carburante.
Terzo punto, dirimente: gli Stati Uniti hanno la capacità di colpire la Siria restando fuori portata del sistema di difesa aereo integrato delle forze armate di Damasco. Possono lanciare missili Tomahawk con i sommergibili e missili aria-terra con velivoli che resteranno fuori dallo spazio aereo siriano, evitando ogni rischio di abbattimento. Gli israeliani hanno dimostrato che si tratta di una possibilità concreta e hanno bombardato la Siria quattro volte da febbraio (almeno). Lo strike contro le basi siriane potrebbe anche distruggere gli aerei, creando una no-fly zone di fatto.
Harmer ha calcolato cosa sarebbe necessario, analizzando le foto satellitari e contando bunker per bunker, pista per pista e installazione per installazione. Compila una lista breve: tre navi da guerra – per i Tomahawk – e 24 aerei per lanciare un totale di 72 missili. L’interruzione dei voli durerebbe tra i 7 e i 10 giorni, il tempo materiale di aggiustare le piste, e in quel tempo l’aviazione di Assad non potrebbe assolvere le sue tre mansioni: bombardare i ribelli, rifornire la linea del fronte e importare rifornimenti da Russia e Iran. Ondate di strike molto ridotte rispetto alla prima: basterebbe la metà dei missili, ogni 10 giorni, per allungare la durata della no-fly zone (senza contare l’effetto sui militari di Assad, abituati ad avere la supremazia aerea). L’analisi è accompagnata da questa avvertenza neutra: “Questo è uno studio tecnico, non è una raccomandazione a favore o contro lo strike, non comprende valutazioni sull’effetto che avrebbe sul regime, sui ribelli e sui vari stati che appoggiano le due parti”.
Il WaPo chiede una “rappresaglia diretta”
Ieri il generale Dempsey ha spiegato per davvero in una seconda lettera perché il Pentagono non interviene, senza più ripararsi dietro i costi e i rischi: “Perché i ribelli siriani non sosterrebbero l’interesse degli Stati Uniti”. Ha annullato all’ultimo momento un incontro con la stampa straniera – segno che ha da fare. Da Israele il ministro dell’Intelligence, Yuval Steinitz, dice che secondo l’intelligence israeliana la strage di mercoledì vicino Damasco è il risultato di un attacco con armi chimiche. “Il mondo osserva, il mondo condanna, il mondo si limita a parlare”, ha poi detto, condannando l’inerzia internazionale. Mentre il governo siriano bombarda i siti della strage per seppellire eventuali prove, sembra ormai remoto il momento in cui Obama minacciava di intervenire anche soltanto in caso di “spostamento” delle armi chimiche. Il Washington Post ieri ha chiesto con un editoriale di procedere a una “rappresaglia diretta contro la Siria” se sarà accertato l’uso di armi chimiche.
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