Ribelli addestrati da Washington in Siria?
Un primo gruppo di 300 ribelli siriani addestrati dagli americani in Giordania sta combattendo vicino Damasco e questo avrebbe provocato la reazione rabbiosa del regime di mercoledì con armi chimiche, scrivono il Figaro e il sito israeliano Debka. Lo scoop ancora non ha sostanza, anche se da tempo si parla dell’apertura di un fronte sud. Intanto, la reazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu alle notizie sugli attacchi chimici è formulata in un linguaggio anche più sciatto e prudente di quello che normalmente circola al Palazzo di Vetro.
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Un primo gruppo di 300 ribelli siriani addestrati dagli americani in Giordania sta combattendo vicino Damasco e questo avrebbe provocato la reazione rabbiosa del regime di mercoledì con armi chimiche, scrivono il Figaro e il sito israeliano Debka. Lo scoop ancora non ha sostanza, anche se da tempo si parla dell’apertura di un fronte sud. Intanto, la reazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu alle notizie sugli attacchi chimici è formulata in un linguaggio anche più sciatto e prudente di quello che normalmente circola al Palazzo di Vetro. La bozza presentata dal viceambasciatore americano presso le Nazioni Unite, Rosemary DiCarlo, chiedeva al segretario generale Ban Ki Moon di “prendere urgentemente le misure necessarie per indagare sul campo gli attacchi” e di fare pressione perché gli ispettori onusiani guidati dallo scienziato svedese Ake Sellström possano agire liberamente. Passata al filtro dei protettori di Bashar el Assad al Consiglio di sicurezza, Russia e Cina, la dichiarazione americana si è trasformata in un generico segnale di “preoccupazione” accompagnato dalla speranza che “si faccia chiarezza su quello che è accaduto”. Persino Pechino si augura che gli ispettori indaghino, ma a patto che si consultino con il governo per condurre le operazioni in modo “obiettivo”, un giro di dichiarazioni che ha ispirato le reazioni di Israele – dove ieri sono caduti quattro razzi lanciati dal Libano, possibile risposta all’attentato di Ferragosto nel cuore del quartiere di Beirut controllato da Hezbollah – che per bocca del ministro dell’Intelligence ha rigirato il dito nell’ipocrisia di una comunità internazionale che condanna, auspica, investiga, promette e poi non fa nulla.
L’attacco chimico potrebbe rappresentare, insomma, “una grave escalation nel conflitto”, come ha detto il vicesegretario generale dell’Onu, Jan Eliasson, con un linguaggio talmente levigato da far sembrare decisionista quel Barack Obama che un anno fa ha istituito la “linea rossa” per l’intervento in Siria e poi si è girato dall’altra parte ogni volta che è stata varcata. Al centro dell’insostenibile posizione americana ora c’è Samantha Power, vociante attivista per i diritti civili che all’inizio di agosto è stata confermata ambasciatrice americana presso l’Onu. L’ex giornalista ha svergognato l’inazione americana in Ruanda e ha costruito assieme a Susan Rice – ora consigliere per la Sicurezza nazionale – l’impianto politico per l’intervento americano in Libia a fianco di Francia e Inghilterra. Durante i colloqui con i senatori che l’hanno confermata ha ammesso l’evidente “fallimento del Consiglio di sicurezza dell’Onu nel rispondere al massacro in Siria” e con il consueto stile magniloquente ha parlato di “una disgrazia che la storia giudicherà severamente”.
Mercoledì, mentre dalla Siria arrivavano le immagini atroci delle vittime degli agenti chimici, Power ha scritto su Twitter: “Notizie devastanti: centinaia di morti nelle strade, inclusi bambini uccisi dalle armi chimiche. L’Onu deve andare lì rapidamente e, se vero, i responsabili devono affrontare la giustizia”. La domanda, come ha notato il direttore del Weekly Standard, Bill Kristol, è: a chi era diretto il messaggio? “Il suo tweet – scrive Kristol – non era un richiamo all’azione delle Nazioni Unite. Samantha Power sa che le Nazioni Unite non faranno nulla. Il suo tweet è un’accusa, per la cronaca e per i libri di storia, al presidente Obama”. Power e gli interventisti liberal sono stati a lungo in silenzio di fronte alla guerra civile in Siria. Scontavano gli eccessi di zelo della guerra in Libia, pagati a carissimo prezzo con l’attacco al consolato di Bengasi, e si muovevano circospetti per non compromettere il loro ingresso nel rimpasto del team della sicurezza nazionale di Obama. Ora hanno l’occasione per dimostrare che il loro potere persuasivo presso il palazzo è più forte della calcolata inazione di Obama e delle farraginose burocrazie sopranazionali.
Un piano B se gli ispettori falliscono
Susan Rice, dal canto suo, promette che i responsabili dei massacri “pagheranno”, ma ancora una volta i primi a evocare una reazione più consistente di una edulcorata petizione della comunità internazionale non sono gli americani, ma i francesi. Il ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, ha promesso una “reazione con la forza” se gli ispettori troveranno le prove degli attacchi chimici, ma contestualmente (e prudentemente) ha escluso la possibilità di un intervento militare sul campo, almeno per il momento. Questo apre un altro scenario, che riguarda il lavoro degli ispettori che domenica sono arrivati in Siria. Non si sa ancora che margine di manovra lascerà loro il regime per condurre ispezioni effettive nei luoghi in cui l’opposizione ha segnalato l’uso di armi chimiche. L’America ha già alcune conferme indipendenti, ma se vuole che le pressioni sulla comunità internazionale – la linea Power – siano efficaci ha bisogno del conforto degli scienziati dell’Onu. Oppure di un piano B se questi torneranno a mani vuote.
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