La banda del dieci per cento
Ci sono ancora i Brics? Quella che sembra un’oziosa domandina per l’estate è in realtà il piccolo dubbio, anzi nemmeno piccolo, viste le dimensioni degli oggetti, che economisti, analisti e persino i governanti meno sprovveduti di tutto il mondo si stanno facendo. Le proteste di inizio estate della classe media brasiliana “tradita” dalla frenata del vertiginoso, ma forse un po’ argilloso, sviluppo del paese sono state il segnale simbolico di ciò che nelle ultime settimane è stato segnalato da varie agenzie di contabilità globale: i Brics, i brillanti paesi emergenti la cui cavalcata sembrava inarrestabile, stanno rallentando, e di brutto.
Ci sono ancora i Brics? Quella che sembra un’oziosa domandina per l’estate è in realtà il piccolo dubbio, anzi nemmeno piccolo, viste le dimensioni degli oggetti, che economisti, analisti e persino i governanti meno sprovveduti di tutto il mondo si stanno facendo. Le proteste di inizio estate della classe media brasiliana “tradita” dalla frenata del vertiginoso, ma forse un po’ argilloso, sviluppo del paese sono state il segnale simbolico di ciò che nelle ultime settimane è stato segnalato da varie agenzie di contabilità globale: i Brics, i brillanti paesi emergenti la cui cavalcata sembrava inarrestabile, stanno rallentando, e di brutto. Chi li sorpasserà? I candidati non mancano. E se è troppo presto per ipotizzare un sorpasso stabile (facile a quelle velocità di crescita finire fuori giri o fuori pista), c’è però una novità sorprendete. Esiste un bel pacchetto di paesi che, per una serie variabile di motivi, per contingenze o per strane combinazioni astrali dell’economia, per bravura o di riffa e di raffa stanno crescendo a tassi inimmaginabili: parliamo del 10 per cento all’anno. Vale la pena sapere chi sono, e perché galoppano così tanto.
Ma bisogna ripartire dai Brics. La Cina cresce sempre a livelli impressionanti, ma che sono ormai i più bassi degli ultimi vent’anni: dal 7,7 per cento di marzo, dati dell’Ufficio statistico nazionale da confrontare con l’8 per cento misurato a maggio dal Fmi, Pechino era scesa a giugno al 7,5. Ma l’India, sempre secondo il Fmi, a maggio si arenava al 5,6 per cento, la Russia al 3,3 e il Brasile al 3. Per il Sudafrica, crescita inchiodata addirittura al 2,8 per cento. Tassi di sviluppo, beninteso, per i quali l’Europa schiatterebbe d’invidia: ma siamo ben lontani da quei livelli minimi del 7-8 per cento che una volta erano considerati indispensabili per far parte del club. Insomma, anche le grandi economie emergenti risentono ormai degli affanni che rimbalzano dai paesi industrializzati tradizionali. D’altra parte se guardiamo quei “Civets” che erano indicati come i loro prossimi rincalzi scopriamo che l’Indonesia si assesta al 6,4 per cento, il Vietnam al 5,2 e la Colombia al 4. In ambito mediterraneo, la Turchia sbuffa al 3,4 per cento, mentre l’Egitto era inchiodato al 2, già prima di esplodere nel clima odierno di guerra civile.
Di fronte a questi dati, ci sono però anche paesi che stanno crescendo a ritmi vertiginosi. La top ten del 2012 vede in testa la Sierra Leone col 18,2 per cento, seguita dalla Mongolia col 12,3, dal Niger con l’11,2, da Panama col 10 per cento. Poi ecco la Costa d’Avorio col 9,8, il Burkina Faso e Papua Nuova Guinea con il 9, l’Etiopia con l’8,5, il Laos con l’8,3 e dall’Uzbekistan con l’8,2. Inoltre, la classifica del Fmi per il 2013, aggiornata a maggio, vedeva undici paesi piazzarsi al di sopra dell’8 per cento della Cina: ai nomi già citati bisogna allora aggiungere il Sud Sudan col 32 per cento, la Libia con il 20,1, il Paraguay con l’11, Timor Est con il 10, l’Iraq con il 9, il Mozambico con l’8,4, il Congo con l’8,2, il Ciad con l’8. Si tratta, come si vede, di due liste apparentemente eterogenee, anche se in entrambe l’Africa rappresenta la metà degli addendi: 5 su 10 nel 2012; 6 su 12 nel 2013.
Ma che cos’è che permette a un paese di crescere a questi livelli? Un banale ingrediente, anche se non esclusivo, è innanzitutto il provenire da situazioni di grande miseria, o peggio ancora da guerre distruttive. In Sierra Leone la feroce guerra civile dei “bambini soldato” e dei “diamanti di sangue” ha imperversato dal 1991 e 2002. In Costa d’Avorio si combatté dal 2002 al 2007 e poi di nuovo dal 2010 al 2011. Il Sud Sudan, dove pure la situazione resta traballante, è diventato indipendente nel 2011 dopo due interminabili guerre. Anche Timor Est è emerso come stato indipendente dopo 24 anni di durissima occupazione indonesiana. La vicenda irachena è troppo nota per soffermarcisi. E’ quasi lapalissiano: più dal basso si parte, più è facile salire rapidi.
Ovviamente, avere almeno una risorsa importante su cui basare la ricostruzione, o la partenza, aiuta, e il petrolio è la più ovvia di queste risorse: anche se nel caso della Libia, precipitata dai 32 dollari di reddito pro capite al giorno del 2010 ai 15,1 del 2011 e risalita nel 2013 a 40,4, e dell’Iraq, da 11,7 dollari al giorno del 2010 a 18,3 del 2013, l’instabilità continua a impedire un ritorno pieno alla capacità di produzione dei tempi di Gheddafi e Saddam Hussein. Timor Est, balzata da 8,1 dollari al giorno pro capite del 2010 a 10,1 del 2013, è stata in effetti definita dal Fondo monetario internazionale come “l’economia più dipendente dal petrolio del mondo”, con un 100 per cento di bilancio statale rappresentato da entrate petrolifere. Anche il Sud Sudan vanta il 98 per cento di dipendenza da idrocarburi. E il Ciad è stato miracolato dai giacimenti di petrolio di Doba, sviluppati a partire dal 2003 dalla ExxonMobil. E tuttavia, il petrolio non è affatto l’unica occasione di crescita rapida, e neanche la principale. Tra questi paesi, in particolare, l’Iraq è al quinto posto mondiale come riserve provate di greggio e la Libia al nono, ma l’Uzbekistan è solo quarantasettesimo, Timor Est quarantottesimo, l’Etiopia novantottesima. Per la primatista Sierra Leone il petrolio è al momento una speranza del futuro, mentre i diamanti sono un incubo di un passato in cui alimentarono la ferocia delle milizie contrapposte. Ma il presente è costruito su una diversificazione di altre risorse minerarie, cui corrisponde anche una diversificazione degli investimenti. Qui, in particolare, sono i più grandi depositi mondiali di rutilo: un biossido di titanio usato per vernici e pellicole speciali, e sfruttato da un consorzio di investitori statunitensi ed europei. Poi c’è la bauxite, l’oro, e nella regione del Tonkolili il più grande giacimento di ferro dell’Africa, e il terzo del mondo. E lì i grandi acquirenti sono invece i cinesi: ma tenuti relativamente a bada dalla legge mineraria del 2009 e dal sistema di trasparenza online istituito dal governo nel 2012. In questo caso, il ritorno alla democrazia dopo la guerra civile è stato essenziale per la gestione della crescita, che ha consentito al governo di ridurre la quota della cooperazione internazionale nel finanziamento della spesa pubblica dal 70 al 40 per cento. E il reddito pro capite in tre anni è aumentato di un terzo: anche se i termini assoluti possono lasciare sconcertati noi occidentali: da 1,2 a 1,8 dollari al giorno pro capite.
Materie prime anche diverse dal petrolio, ma contese tra paesi ricchi e paesi emergenti, in particolare Usa e Cina; punti di partenza bassi; tentativo di costruire una normalità istituzionale: sono punti in comune anche con altre nazioni in rapida crescita dell’Africa occidentale. La Costa d’Avorio è il primo produttore mondiale di cacao, oltre a esportare caffè, legname tropicale e ananas, e in più ha iniziato ad avere una produzione significativa di gas, petrolio ed energia idroelettrica. Il Niger, passato in tre anni da 1 a 1,2 dollari pro capite, ha le ottave riserve mondiali di uranio, che rappresentano il 72 per cento dell’export: ma dispone anche di oro, un investimento di 5 miliardi di dollari della China National Petroleum Corporation ha permesso di far partire una produzione che è già di 20 mila barili al giorno, e l’agricoltura di sussistenza in cui è impiegato l’82 per cento della popolazione riesce anche a esportare qualcosa. Il Burkina Faso, passato in tre anni da 1,5 a 1,8 dollari pro capite al giorno, ha oro e cotone, e a sua volta riesce a esportare prodotti dell’allevamento. Ma non esiste un modello africano unico. L’Etiopia, passata in tre anni da 0,95 centesimi a 1,4 dollari, ha ancora il 60 per cento dell’export basato sull’agricoltura: in particolare prodotti di alta richiesta come caffè, qat o pellami. Ma una società britannica ha appena trovato l’oro, e su un settore manifatturiero che rappresenta ancora il 4 per cento del pil hanno messo gli occhi i cinesi con intenti di delocalizzazione. I salari sono un quarto di quelli della Repubblica popolare cinese con produttività pari, imposte inferiori e materie prime a portata di mano, anche se qualificazione e infrastrutture sono un handicap. Un primo esempio è stata la fabbrica di scarpe che la società cinese Huajian ha installato ad Addis Abeba, e i cui 600 dipendenti hanno iniziato a produrre scarpe per il mercato statunitense: produttività di due scarpe da donna al giorno per dipendente, contro le due scarpe e mezza della media cinese. Questo sviluppo potrebbe contare anche su immense risorse idroelettriche, e uno degli ultimi grattacapi del governo Morsi prima di essere rovesciato è stata proprio quello della Grand Ethiopian Renaissance Dam annunciata sul Nilo azzurro nella regione dei Benishangul-Gumuz: un progetto che produrrebbe altrettanta energia di sei centrali nucleari, che sarebbe realizzato dalla italiana Salini, e che secondo l’accusa del Cairo potrebbe intaccare in modo insostenibile gli approvvigionamenti idrici dell’Egitto.
Ancora il Mozambico, passato in tre anni da 1,2 a 1,9 dollari pro capite al giorno, dipende fortemente dalla sua ricchezza idroelettrica: non solo per l’export in Sudafrica, ma perché l’abbondanza di elettricità rende conveniente la produzione di alluminio. La Mozal, joint venture tra l’australiana BHP Billiton (47,1 per cento), la giapponese Mitsubishi Corporation (25 per cento), la Industrial Development Corporation of South Africa (24 per cento) e il governo del Mozambico (3,9 per cento) è il secondo produttore di alluminio dell’Africa, rappresenta il 30 per cento dell’export e consuma il 45 per cento di tutta l’elettricità prodotta in Mozambico. E’ un primo nucleo di industrializzazione, cui potrebbero presto aggiungersi fabbriche tessili ed estrazione di titanio.
In un altro continente, l’abbondanza di energia idroelettrica è alla base dei sogni di decollo del Paraguay: un paese in cui sempre nei tre anni considerati il reddito pro capite è passato da 8,8 a 12,4 dollari al giorno. La diga di Itaipú, seconda centrale idroelettrica più grande del mondo dopo quella cinese delle Tre Gole e prima centrale dell’emisfero australe, ha 20 turbine, ognuna della capacità da 700 megawatt ciascuna. Una turbina basta a fornire il 95 per cento di tutta l’elettricità che si consuma in Paraguay, le altre 19 danno il 19 per cento dell’elettricità consumata in Brasile. L’altra diga di Yacyretá, 16esima nella classifica mondiale, ha pure 20 turbine da 160 megawatt. Al Paraguay non serve, per cui è l’Argentina a ricavarne il 22 per cento della propria energia. Tutti e due i progetti furono decisi quando in Paraguay c’era la dittatura di Stroessner e pure in Brasile e Argentina regnavano i militari. Si sprecarono dunque le accuse: corruzione, creste sui lavori, indios e contadini sloggiati con la forza, distruzione di habitat naturali, e soprattutto l’imposizione al Paraguay di tariffe ridicole. Solo che poi Argentina e Brasile trovarono comodo anche in democrazia continuare a pagare la bolletta della luce a prezzi ridicoli, governi di sinistra di Lula e Dilma Rousseff o dei Kirchner compresi.
Con un reddito pro capite lievemente migliore, passato dai 4,2 dollari al giorno del 2010 ai 6,3 del 2013, Papua Nuova Guinea ha invece un export più diversificato dell’Africa occidentale: petrolio, oro, rame, legnami pregiati, olio di palma, caffè, cacao, crostacei. La Repubblica democratica del Congo, passata da 46 centesimi di dollaro di reddito pro capite al giorno del 2010 a 68 centesimi del 2013, sta invece sotto la stessa media africana. In questo caso la straordinaria ricchezza in diamanti, oro, rame cobalto, zinco e anche quel coltan che è essenziale per i condensatori di pc e cellulari continua a essere una maledizione, visto che alimenta tuttora i rigurgiti delle varie milizie che ogni tanto riprendono le armi come scusa per nuovi saccheggi.
In Asia centrale, l’Uzbekistan è passato dai 3,7 dollari al giorno di reddito pro capite del 2010 ai 5,2 del 2013. Anch’esso condivide con i vicini Kazakistan e Turkmenistan sia l’abbondanza di gas, sia il regime di tipo personalista creato a partire dalla trasformazione della vecchia nomenclatura sovietica, e che a proposito del Kazakistan ha portato alla recente polemica sull’espulsione della moglie e della figlia dell’oppositore Ablyazov. Ma in più l’Uzbekistan ha anche le settime riserve di oro del mondo, che assicurano un quinto dell’export; e le decime di rame; e le dodicesime di uranio. Seppure il cotone non è più importante come in epoca sovietica, ne è ancora il quinto esportatore mondiale. Inoltre ha un enorme patrimonio zootecnico, e un’industria di assemblaggio di veicoli gestita dalla concessionaria sudcoreana della General Motors. Un limite di questo modello è che è in gran parte diviso tra stato e multinazionali straniere: la formazione di un’imprenditoria nazionale con velleità di indipendenza politica non è gradita.
La politica distingue dunque l’Uzbekistan dalla Mongolia: pur così vicina come geografia e matrice economica, ma che come reddito pro capite si trova ormai su un gradino superiore, dai 6,2 dollari al giorno del 2010 agli 11,54 attuali. Protagonista nel 1990 di una rivoluzione contro un regime comunista molto simile a quello dell’est europeo, il paese di Gengis Khan ospita una democrazia vivacissima, che alle elezioni dello scorso 23 giugno ha visto la riconferma a presidente di Tsakhia Elbegdorj: un laureato a Harvard di fede libertarian, che si fa chiamare “il Jefferson mongolo”. Elbegdorj ha sfruttato le immense risorse di carbone, rame, oro, uranio, petrolio, molibdeno, stagno, tungsteno e petrolio grazie a una politica di massima apertura ai capitali stranieri. Da qui la crescita vertiginosa a cui i mongoli, fedeli al loro passato, hanno rifiutato di dare l’etichetta “cinese” di “tigre”. Preferiscono quella di “Lupo dell’Asia”.
Per un “lupo” liberista, nella lista di chi cresce di più non manca uno degli ultimi paesi ufficialmente comunisti del mondo: anche se quello del Laos è ormai un comunismo di mercato alla cinese. Passato da 3 dollari di reddito pro capite del 2010 a 4,3 del 2013, il Laos è a sua volta un esportatore di idroelettrico a vicini affamati di energia come Cina e Vietnam. Ma ha anche cercato di attirare capitali tedeschi e giapponesi per sviluppare piccole imprese: artigiani, birrifici, caffè, turismo. Anzi, su quest’ultimo fronte sono stati creati grandi complessi esentasse che cercano di attrarre i cinesi danarosi a colpi di casinò, che nella Repubblica popolare sono ufficialmente vietati, salvo a Hong Kong e Macao.
Infine Panama, che tra questi paesi ad alta crescita rappresenta anche quello col reddito pro capite più alto: dai 21 dollari al giorno del 2010 ai 30,5 del 2013. E qui parliamo di una storia molto diversa anche perché questo paese, completamente dollarizzato, ha un pil che è composto per i quattro quinti da servizi: banche, sanità, ma soprattutto il business che gira attorno al Canale di Panama, dal transito alla Zona Franca di Colón, al registro navale che è uno dei preferiti dalle bandiere ombra. Da tempo a rischio di declassamento per via di una nuova generazione di navi troppo grandi per entrarvi, nel 2006 Panama ha deciso di rilanciare con un progetto da 5,25 miliardi di dollari per raddoppiare la portata dell’opera. Sono questi lavori che hanno fatto schizzare in alto il pil.
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