Un dì diremo che era meglio B.
Più di vent’anni fa, veniva giù il Muro – ogni vent’anni, più o meno, un muro viene giù. Tra i calcinacci, pure l’antico glorioso nome spariva. Chiese la piccina: “Non siamo più comunisti, babbo?”. E il genitore: “No. Ma ci mancheremo” – così Altan, in una fenomenale vignetta che spiegava tutto. Tutto davvero: ciò che accadeva, ciò che sarebbe accaduto. Vent’anni dopo – e oltre. E vent’anni fa – esattamente: monetine volavano nella notte contro l’ingresso di un albergo: “Bettino, mangiati pure questa!”, lire ora perdute come sesterzi, e un potente sulla via del tramonto, della fuga, dello svanire doloroso e rabbioso su una spiaggia, dall’altra parte del mare.
Più di vent’anni fa, veniva giù il Muro – ogni vent’anni, più o meno, un muro viene giù. Tra i calcinacci, pure l’antico glorioso nome spariva. Chiese la piccina: “Non siamo più comunisti, babbo?”. E il genitore: “No. Ma ci mancheremo” – così Altan, in una fenomenale vignetta che spiegava tutto. Tutto davvero: ciò che accadeva, ciò che sarebbe accaduto. Vent’anni dopo – e oltre. E vent’anni fa – esattamente: monetine volavano nella notte contro l’ingresso di un albergo: “Bettino, mangiati pure questa!”, lire ora perdute come sesterzi, e un potente sulla via del tramonto, della fuga, dello svanire doloroso e rabbioso su una spiaggia, dall’altra parte del mare. E vent’anni fa – appena poco più di vent’anni fa: raccontavano che Totò il mafioso il Divo avesse baciato, sanguinaria rapacità corleonese e lento immutabile passo papalino, campare ancora un po’, tiriamo avanti piuttosto che tirare le cuoia. Vent’anni, più o meno, ogni cosa dura: ogni marcia trionfale, pure quella in orbace e eia-eia-alalà!, grottesca e tragica, appesa finisce, stivaloni verso il cielo, le mani (le mani innocenti, le mani colpevoli) a sfiorare l’asfalto – il limo kafkiano che di ogni rivoluzione solo resta dopo la sua evaporazione. Vent’anni, la durata di (quasi) tutto – della sopportazione, della resistenza, della vendetta. Vent’anni dopo: come in un romanzo di Dumas, stanchezza del corpo e delle cose; come nella telefonata in una canzone di Dalla, “invece pensami tra vent’anni pensami / io con la barba più bianca / e una valigia in mano”.
E vent’anni (e oltre) dopo, con buona eresia, si potrebbe persino temerariamente ripetere la domanda di quell’antica vignetta di Altan – la bimba è cresciuta, adesso donna e mamma, e si è certo mancata come il babbo prevedeva: come tutti noi che fummo con orgoglio dentro quel mondo che mutava nome e il sole vedeva calare e non più sorgere, e poi fummo di sinistra incerta, dai duplici nomi e dalle cento facce e dal passo vociante e svagato: di sinistra e democratici prima, democratici e basta dopo. E magari la bimba che fu guarda la sua bimba adesso. E quella domanda (potrebbe pure: non è provocazione, è paradosso): “Non siamo più berlusconiani, mamma?”. E la mamma – adesso è lei nella poltrona dove il suo babbo sedeva – poggiando sulle gambe la copia di Repubblica o del Fatto o dell’Unità, forse un manufatto di Travaglio, magari un volume dove Ezio Mauro e il professor Zegrebelsky dottamente dialogano sulla felicità della democrazia, un fascinoso scritto di Cordero o addirittura le pagine liricamente non meno che politicamente corrette di Concita De Gregorio sull’evidenza che così è la vita e la necessità allora di imparare a dirsi addio (e così testo e contesto mirabilmente si fondono): “No. Ma ci mancheremo”. La piccola creatura potrebbe, per lo stupore, stramazzare sulla PlayStation piuttosto che sulle favole in versi di Gianni Rodari – ché ancora pochi anni e pensava anche lei di salire sul palco di un Palasharp: a far voce d’innocenza, contro l’orrida sorte che l’avvenire suo insidiava –; la mamma conosce invece, per esperienza e ancor più per abitudine, il fondo di vero che la sua eresia nasconde. Pure questo, soprattutto adesso – come dice chi sa: se non ora, quando?
Vent’anni. Telefonami tra vent’anni. Tra vent’anni pensami. Ripensami. Vent’anni dopo questo calare d’estate che pare calare il sipario sui vent’anni che sono stati: e autunno di furie e tempesta s’annuncia, ribollir di rabbie mica solo di vino nei tini. Come davanti all’hotel Raphael quella sera di aprile, come chissà in quale sprofondo di tugurio mafioso s’immaginarono il capo dei capi che poggiava le labbra tumide sul volto bianchiccio del Capo Divo di labbra sue quasi privo (appena una fessura, per un fiato appena). Come ora nel villone brianzolo fu Casati Stampa – ove il tacco alto risuona, e nell’immaginario di molti di noi di sinistra stivaluto pare come quello del feroce mascellone, e la sala del bunga bunga “e i subjuganti festini” farsi sala del Mappamondo, e moschettieri del duce abbigliati così come amazzoni e avvocati e consolatori e musicanti, di glorie e schitarrate che furono. E’ B. – è il nome che ebbe infine in sorte dai dispregiatori, una lettera e un punto, come M. “mostro di Düsseldorf”, come se quasi fosse Arturo Ui che crolla dopo aver orrendamente asceso, come Josef K. a giusto, giustissimo processo sottoposto: una lettera sola che basta e qualifica, a marchio su carne incisa, di scarlatta vergogna: di puttaniere però, tra l’altro, non di puttana – che come il fantasma di Banquo inquieta e s’aggira tuttora per le più vigili e vigilanti menti, scespiriana inquietudine che non si placa, e che perciò nella notte avvolto in segreti nostri pensieri (non di amorosi sensi, ma di lunghissima smania) inciampa. Che fu Caimano e fu Cainano – il nostro personale casareccio Salazar brianzolo.
Pure noi che fummo comunisti, e di sinistra sempre – “e sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai” – non potremo crocianamente non dirci un poco berlusconiani. E’ stato B. per vent’anni la misura di tutto, e i Custodi del Meglio hanno passato anni ormai mutati in decenni a prender le misure di quanto a lui qualcuno si avvicinò, di quanto con lui inciuciò, di quanto con lui trattò. Erano i metri di distanza dal suo doppiopetto alla Tino Scotti (“a voi che ve ne cale / non datelo a vedere / scrivete al Cavaliere / ghe pensi mi! Grazie mille, anzi duemila!”) e dalla mesta barzellettistica commendatoriale a esatta certificazione di affidabilità, di democratica bontà, di corretta sensibilità. Ché sempre ci fu una bicamerale da scagliare come “vade retro!”, una stretta di mano da rimproverare, un pranzo da rinfacciare. A sinistra ha occupato sogni (in incubi, s’intende, mutandoli), negato bisogni, del retto sentire e radioso avvenire ha fatto strame. Il socialismo è stato dimenticato, l’Ulivo nazionale e mondiale rimosso, la classe operaia buonanotte – B., sempre B., comunque B., e ti saluto il caro Cipputi. Tra vent’anni – ovunque saremo – ci avrà comunque preceduto. Ci tornerà in mente – a dannazione, a esagerazione, a scontata banalità, come a B. agli inizi della sua irresistibile ascesa, i versetti/versettini di Rio Bo, “tre casettine / dai tetti aguzzi” – il maestrino nero dalla penna azzurra. Ci ha cambiato la vita – in meglio, diranno i plaudenti di via del Plebiscito; in peggio, certo si argomenterà: ché la morale andò a puttane, ché la legalità sparì, ché la televisione sua ci rincoglionì. A guardare il “Grande Fratello”, ci ha ridotto, così che non siamo più capaci la sera di leggere Kant o di riguardare giudiziosamente “Il contratto sociale” di Rousseau. Per vent’anni è stato l’oggetto di ogni discussione, di ogni rissa, di ogni rivendicazione. Mai per nient’altro si è girotondato come per B., mai per un’ingiustizia sociale come per B. ci si è adunati, mai per un lotta che non fosse lotta a B. ci si è così appassionati. Di là ha preso i voti, di qua pensieri e milza e bile. Ci ha alimentato – è stato pane & burro & marmellata di ogni nostra sacrosanta indignazione. Più di Marchionne e Bush e Ratzinger messi insieme. E non sbuffare a cena con gli amici, e non lasciarti andare alla noia durante una discussione – e che danni! e che schifo! e che vergogna!, e tu cosa sei, un venduto, eh?, guardi solo i cazzi tuoi, eh?, tu che dici: e che palle! Vaffanculo, sacco di merda berlusconiano, passami il morellino, fammi bere!
Come andrà la sorte di B., ora nemmeno B. lo sa: vociare di giuristi, dicono urla sue, il mostrare i petti da lui medagliati di tanti seguaci, un vagare di stanza in stanza, da alba a tramonto. Tra vent’anni – oltre a mancarci noi, come forzati berlusconiani da riporto (come i cani! come i cani fedeli!, s’ode sullo sfondo) – chissà come saranno tirati i conti. Più di C. – che ad Hammamet colava vernici su certi vasi, vernici rosse che sapevano di ira e sangue (adesso il cerone, al più, cola), e il dito puntava sui traditori, e foto garibaldine autografava, e che ancora da malato, da moribondo, da esule o fuggiasco che fosse, era tutto un rumoreggiare vile e crudele anche sulla sua malattia (il ditone! il foruncolone! furbo il cinghialone!), e fotomontaggi ove appariva dietro le sbarre e slogan da marciapiede a marciapiede, “abbiamo un sogno nel cuore / Craxi a San Vittore!”, lo stesso slogan che ora risuona e si ricicla, raccolta mica differenziata, “abbiamo un sogno nel cuore / Berlusconi a San Vittore!”. Più di A. – che andò a Palermo e da Palermo tornò, e il suo fu sempre un mormorare democristiano, l’urlo del ferito come cantilena di Rosario, l’apparente accettare la sorte e mai alla sorte però chinarsi, il farsi giunco davanti alla piena, non mastodontica diga che pare invicibile a improvvisamente schianta. Ma i conti con B. saranno meno facili – più che con C. e con A. saranno i conti con noi stessi, con quanti hanno davvero in questi decenni raccontato e pensato e proclamato in buona/mala fede che senza B., il suo andamento da Tamburo Maggiore e il suo maneggiare soldi e clienti, avremmo senza dubbio avuto il notro ideale veritiero Rio Bo, “c’è sempre disopra una stella / una grande magnifica stella”, che perciò lui anche poetando insultava. Cosa resterà di questi anni si sa: la rivoluzione televisiva, un principio almeno di alternanza, una destra sempre piuttosto allo stato brado (e non che la sinistra proceda poi a falange macedone) ma un minimo attruppata. Cosa di C. sia rimasto è in fondo nella stessa figura del segretario democratico attuale, che socialista era, quando C. capo dei socialisti era. E di A. sono forse meteoriti del suo pianeta frantumato nella galassia della Prima Repubblica quel Letta che guida il governo (e nipote di quell’altro Letta: e ognuno sa quanto a B. sia legato, e quanto consuetudine con A. ebbe), o quel Franceschini, o quel Fioroni, e persino, in fondo, quel Prodi – dai suoi pugnalato, e però un conto che si riaprirà prima o poi: il vero Banquo di noialtri.
Ma nella quotidianità nostra – nessuno come B. Nella venerabilità dei suoi, che già (e prima, e ancora adesso) le stimmate indicano e rimirano e a Cristo stesso paragonano, lo stesso aspettano miracolose soluzioni, quando né miracoli né soluzioni lui stesso pare intravedere, e fanno volare aerei verso il cielo che indica tempesta, ché poi dentro la sua tempesta perfetta ora B. si muove e cerca strada. Nella patologica ossessione degli altri, nel non riuscire nemmeno per un istante a liberarsi il pensiero da esso, a riprendere fiato, a lasciarsi andare ad altri sentimenti (non verso di lui, che così mai sarà, ma verso altri propri sentimenti, ché persino il nostro personale scopare il suo accanito scopare inibisce). “C’è sempre un Nixon nel nostro futuro…”, recitavano più o meno i versi di un frate ribelle e poeta, padre Turoldo – sul Vietnam degli anni Settanta. C’è sempre un B. nel nostro futuro, potremmo dire – persino quando, tra venti (o cento) anni, magari neanche B. sarà nel suo presente. Tale e tanto, ci ha segnato – pure a noi che mai l’abbiamo votato. Ovunque sarà, sarà difficile immaginarlo lontano dai pensieri di molti. L’ossessione, appunto: tanto ossessiva, da farsi parodia dell’ossessione stessa. L’altro giorno c’era un articolo sul Fatto. Magari l’unico articolo del Fatto dove B. non c’entrava niente. Ma proprio niente di niente di niente. Si parlava dell’apertura di un negozio Eataly a Bari – burocrazia, assunzioni, polemiche, ecc. ecc. B. neanche il chinotto era andato a comprare, a Eataly. Eppure, ecco, a un certo punto, “nella città fatale dove iniziarono tutti i guai di Silvio Berlusconi con la denuncia della escort Patrizia D’Addario” – come se un articolo su un nubifragio a Roma cominciasse così: “Nella città fatale dove iniziarono tutti i guai di Remo dopo la sua lite con Romolo…”.
La verità è che noi di sinistra non possiamo mandarlo via, B. Da noi – dico. Il suo essere in scena è stato l’alimento, il fiato, persino la risorsa – giornalistica, di satira, di libri, di mobilitazione, di discussione, di linea politica, di rancori, di rotture, cinematografica, musicale. Tre quarti delle nostre giornate su di lui concentrate, a raccontarci l’Italia felice e civile che verrà, e in fondo a non saperla neanche discernere, a sentirsi quasi estranei, l’Italia che si vuole ripulita e linda e perfettina. Principio di noia e di vuoto: e adesso? Nell’epica della sinistra (ma lo stesso nell’epica della destra: non che B. non abbia spesso mobilitato contro, piuttosto per), un nemico è necessario. La “trippa alla Bettino” nei festival dell’Unità marcava il momento e l’identità quasi più dell’Internazionale socialista; il mito, persino rivendicato, di A. – un danzare con Belzebù in persona: e ove la trippa servivano, quasi cannibalesca evocazione delle sorti della sinistra, i clienti sfamati il Divo applaudivano – lo stesso. Ma all’identico modo, tre uscite di scena, tre calate di sipario, tre ultime spiagge – e per tre volte noi di sinistra macchinisti e spettatori e bagnini. Inoperosi, però. All’affogamento altrui plaudenti, senza neppure scendere dal pattino, senza neppure sfilare le ciabatte. Spettatori di altrui lavori – giudici, stampa, la canea incivile della società che civile si autonomina, gruisti, asfaltatori di storie d’altri. C. fu vinto, A. fu costretto a svanire nel suo labirinto di minuscolo cinismo da sacrista, e B. – ecco: B. regge, s’impunta, resiste. Ma qualunque cosa farà, e ovunque andrà – tutti lo sanno, lui per primo lo sa – nulla sarà più come prima.
L’abbiamo, alla fine, sempre spuntata noi di sinistra. Ma mai abbiamo vinto. E’ stato sempre un finto Armageddon, il nostro – guardoni soddisfatti, mai nella parte del sesto angelo che il fiume prosciuga e la strada al nuovo (re) prepara. Abbiamo percorso il sentiero, a volte – ma non siamo stati noi a batterlo. Una sinistra non evocativa, che alla sua Nuova Frontiera (la giustizia sociale, i più deboli) ha quasi sempre anteposto il Nuovo Giudizio in appello, una corte o una procura, una santificazione dei codici penali. E’ il nostro perenne aggirarsi intorno all’Uomo Nero di turno – e il nostro dannare quelli che tra di noi spiegavano che la politica è diversa cosa dal correre da criceti sulla ruota che altri hanno montato. Persino Napolitano, quando nell’84, capogruppo comunista, non votò la messa in stato d’accusa di Andreotti alla Camera, fu dannato e fu strattonato, come ad altrui successe poi e ancora succede: ahi, vile D’Alema! ahi, infido Renzi! ahi, sleale Violante! ahi, perciò, ingannevole presidente – a un passo dall’incisione della N. sulla sua pelle, si trova ormai Napolitano. “Questa sì che sarebbe stata la vera sepoltura di Berlinguer”, dicevano allora a Botteghe Oscure, becchino del nostro mito migliore – insultando il migliorista che oggi si esalta, e nel paradosso dei giorni Togliatti, che sapeva quanto di cinismo una buona politica a volte esige, dal fronte opposto viene evocato ed esaltato. E dunque, quando la sorte (la Corte) il nostro incubo finalmente sanziona, abbiamo un immediato senso di sazietà e subito dopo un senso di spaesamento. E adesso? Sorgerà, nell’autunno alle porte, un altro necessario Uomo Nero? Come si occuperanno gli anni che verranno – stanche le icone nostre, abbattute le altrui icone, senza consolante iconoclastia all’orizzonte?
Ebbe certo anche buone ragioni – quarant’anni fa e vent’anni fa e adesso – la sinistra a muover battaglia. Ma di ogni battaglia fece guerra totale, di ogni avversario l’Alien assoluto. Così che della luce riflessa del Nemico Numero Uno di ogni ventennio si finiva col sopravvivere – e la sua dipartita politica la stessa nostra dipartita politica lasciava intravedere, e alla santità della Costituzione ci si attacca(va): a timore, più che a laico richiamo, come fosse, la nostra bella Costituzione, una sorta di pupazzo Quèlo del genio satirico di Corrado Guzzanti – la seconda che hai detto: la risposta che cerchiamo è sempre quella che già ci siamo dati. Congreghe spaventose di tamarri/sciampiste/fascisti/prepotenti/puzzoni/piduisti/ladroni/puttanieri/turpimalcreati alla lotta chiamavano e, figurarsi, la lotta giustamente richiedevano. Ma solo quella fu – tra vent’anni lo sapremo di sicuro, come vent’anni dopo nessuno ha il coraggio di rivendicare una monetina da cento lire lanciata contro la porta di un hotel. Idealmente, su quel balconcino del Plebiscito da dove salutavano l’Illustre Condannato anche una parte di noi sarebbe dovuta salire – a lacrimare del vuoto che lascia, a lacrimare per il vuoto che a noi resta. Tra vent’anni se ne discuterà ancora – e saremo con mille canali televisivi, e miss qualcosa con le chiappette al vento, e plastificate facce a scrutare le nostre. E diremo che non era poi così male, peggio molto peggio quello che dopo è venuto – come peggio era C. rispetto alla sobrietà della diccì, come peggio era A. rispetto a certi suoi amici di più elevate correnti, come peggio era B. rispetto a C. e A. – almeno loro veri politici!, diciamo. E nel mancarci diremo: vuoi mettere, meglio B. di quello di oggi! Che chissà chi sarà. Uomo Nero, faccia zozza, democrazia sempre in pericolo. Tanta l’inquietudine che il sonno non arriverà – ma tanta e tale che nemmeno Kant riusciremo a leggere. Per fortuna resta il telecomando. La televisione. Il nostro inquieto silenzio consolato dal rumore di certe ballerine sul video – dalla lunga coscia, dalla mutanda breve, di froceschi sculettamenti. E calmerà un po’, il ridere loro che così tanto un dì ci affannò. Da spettatori, in spaventata attesa – attesa che su un altro salvifico Uomo Nero il salvifico sipario cali.
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