Concorso in colpa

Antonio Gurrado

Il guaio è che siamo ancora fermi al 1977. Era l’anno di “Un borghese piccolo piccolo”, con Alberto Sordi che accompagna il figlio al concorso per il ministero. Arriva la convocazione alla prova scritta tempo tre settimane, il figlio dichiara di star già iniziando a cacarsi sotto, il padre lo rimprovera di non fare così ché sembra sua madre, la madre protesta ma intanto va in chiesa a fare stregonerie con l’acquasantiera, il figlio teme comunque di non farcela, il padre prende le ferie per aiutarlo a prepararsi e gli ripete che se fanno il loro dovere, tutti e due a tavolino fino a tarda sera, ce la faranno.

    Il guaio è che siamo ancora fermi al 1977. Era l’anno di “Un borghese piccolo piccolo”, con Alberto Sordi che accompagna il figlio al concorso per il ministero. Arriva la convocazione alla prova scritta tempo tre settimane, il figlio dichiara di star già iniziando a cacarsi sotto, il padre lo rimprovera di non fare così ché sembra sua madre, la madre protesta ma intanto va in chiesa a fare stregonerie con l’acquasantiera, il figlio teme comunque di non farcela, il padre prende le ferie per aiutarlo a prepararsi e gli ripete che se fanno il loro dovere, tutti e due a tavolino fino a tarda sera, ce la faranno. E poi, il giorno del concorso, viene scandito il lento rituale: la mamma che assiste il ragazzo mentre s’infila i calzini, il segno della croce prima di uscire di casa, la dormita in tram, il cornetto al bar; questo ragazzo che non è più un ragazzo, imbolsito, vestito come uno studente di scuola media affetto da gigantismo, ha sette biro in tasca per timore che finisca l’inchiostro e lo sguardo spento di un perfetto Vincenzo Crocitti che a ogni passo sembra più vecchio del padre dal quale si fa trascinare verso il posto fisso, verso lo stato che – esclama Alberto Sordi – non fallisce mai.

    Siamo una nazione di genitori e figli e forse questo spiega il peculiare atteggiamento della stampa nei confronti del Concorso personale docente convocato da Francesco Profumo lo scorso autunno e portato a termine in questi giorni: pagine e pagine di giornali a dicembre, in occasione del preliminare test di logica, informatica e inglese, addirittura con resoconti in diretta di giornalisti che si erano iscritti apposta. Poi un progressivo affievolimento dell’interesse man mano che la competizione procedeva e si faceva più serrata, fino alla completa sparizione dai radar ora che vengono rese note le graduatorie. Significa che al grande pubblico non interessa chi vinca o quante cattedre vengano assegnate o in quali sedi; alla nazione un po’ agé che legge i quotidiani interessava solo poter accompagnare fra le fauci del minotauro ministeriale caterve di giovani anche poco giovani (torme di persone ancora non beneficiate da posto fisso e come tali ancora relegate allo status di figli nonostante che potessero avere anche quarant’anni), senza curarsi di chi ne sarebbe stato masticato, risputato o digerito.

    All’inizio si sono iscritti in trecentomila, fra i quali anch’io, e sì che non era mica facile. Ad esempio, per poter sperare di essere selezionato per uno dei dodici posti disponibili per la mia classe di concorso nella mia regione, dovevo anzitutto essere laureato da dieci anni, ma non da nove, a meno che non avessi frequentato la Ssis, ossia la defunta scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario; dovevo recuperare la Gazzetta Ufficiale del 25 settembre 2012 nella quale si trovavano tutte le istruzioni, comprensive di una trentina di pagine di allegati; dovevo accedere al sito del ministero dell’Istruzione e richiedere di iscrivermi al portale che consentiva la presentazione di istanze online; dovevo ricevere una mail con una password prestabilita, un codice temporaneo diverso dalla password ma parimenti anti intuitivo e un modulo da stampare; dovevo compilarlo, accludervi fotocopia di carta d’identità e tessera sanitaria e presentarmi in un liceo a scelta per farmi riconoscere. Una volta assodato che io ero veramente io, dovevo ricevere una nuova mail in cui si trovava scritto che il vecchio codice temporaneo era scaduto e che bisognava sostituirlo con un codice temporaneo nuovo; dovevo altresì tesorizzare il suggerimento di non allontanarmi dal mio computer ad accesso effettuato, di non utilizzare come password la parola “qwerty” e di inserire per maggior sicurezza una chiave per il recupero scegliendo fra il cognome di mia madre, il film che non smetterei mai di guardare e la data di nascita della mia fidanzata.

    Senza voler fare polemiche, è chiaro che si trattava di una procedura deterrente, volta a scoraggiare la partecipazione di chi già avesse un altro mestiere per quanto traballante e provvisorio. Il ministero ha consapevolmente scelto di cercare concorrenti al posto fisso che spiccassero per tempo libero; scelta più che legittima, e sintomo della propensione dello stato (che non fallisce mai) verso un ideale che gli possa consentire di pescare i propri dipendenti fra i meno dinamici, quelli con la storia professionale più piatta, quelli rimasti a casa dei genitori ad aspettare una supplenza, quelli che vorrebbero insegnare perché non saprebbero cos’altro fare. I figli, appunto, che vanno protetti perché più deboli e ricompensati perché rimasti indietro.
    Prova di quest’atteggiamento paternalistico sia la sconcertante raccomandazione di esercitarsi, prima del test, sulle settantacinque simulazioni virtuali disponibili sul sito del Miur e da svolgersi sul computer di casa. Poiché il test ha la durata di un’ora, si trattava di complessive settantacinque ore di esercitazione per presentarsi adeguatamente allenati; non settantacinque ore di studio, che possono solo far bene al cervello, ma settantacinque ore di reiterati tentativi, da criceto sulla ruota, fatti un po’ per intrattenere i candidati mentre le commissioni si organizzavano e un po’ per alimentare in loro la speranza di comprendere il meccanismo sotteso al ragionamento dei misteriosi generatori di domande a risposta multipla. Così, provando e riprovando, si poteva magari superare lo scoglio preselettivo non perché si era capita la domanda ma perché (sottile distinzione) si era capito quale risposta ci volesse. Chi voleva poteva altresì integrare la preparazione studiando su specifici volumi pubblicati da Erickson (15 euro), Hoepli (23), Editest (28), Maggioli (39), Alpha Test (69) e così via.

    Solo che, stando ai numeri, le complicazioni burocratiche non hanno scoraggiato quasi nessuno, nemmeno me, e il test preselettivo è diventato un’ordalia. L’interesse della stampa era dovuto a due fattori: il numero spaventoso di candidati, che se da un lato certificava il successo del concorso dall’altro certificava anche il fallimento del mercato del lavoro italiano, incapace di assimilare trecentomila laureati in buona parte già dottori da dieci anni e più; la difficoltà del test dovuta a domande vertenti su questioni che esulavano dal programma specifico di preparazione al concorso. E’ significativo che una reazione simile si sia verificata anche qualche mese dopo, quando alla maturità è emersa la famigerata traccia su Claudio Magris. Essendo una nazione di figli da coccolare, blandire e giustificare, ci indigniamo alla vista di una traccia che ponga i maturandi di fronte a un fuori programma perché riteniamo che ai nostri ragazzi l’esame di stato debba servire a fare bella figura, ripetendo ciò che è stato ripetuto fino alla nausea per cinque anni; rifiutiamo invece l’idea che la maturità debba essere la certificazione che il liceo sia stato utile ad acquisire un metodo che consenta di cavarsela nella vita a venire. Preferiamo lamentarci perché ai nostri figli viene chiesto di saper leggere un testo e capire cosa c’è scritto senza prima averlo studiato per cinque anni, anziché rallegrarcene perché la cultura consiste nell’andare oltre il proprio dovere, oltre il compitino (se uno studia e basta, è un ignorante).

    I giornali hanno fatto credere che il test fosse composto di cinquanta domande astruse fra le quali sarebbe stato impossibile districarsi riuscendo a fornire le trentacinque risposte esatte necessarie a superare l’ostacolo preliminare. A riprova di questo, i quotidiani hanno pubblicato una selezione di questioni scelte fra la decina di domande più complesse, tralasciando le restanti quaranta che costituivano il corpo portante del test e che erano più che sufficienti a passare il turno. Ve ne rivelo alcune. Si trattava di stabilire se Gennaro fosse simpatico partendo dal presupposto che Gennaro ama la Toscana e che chiunque ami la Toscana è simpatico. Di riscrivere al contrario la sequenza alfabetica KLKKKLLKLLKL, muniti di carta e penna per prendere appunti. Di completare l’argomentazione “Catherine is a journalist. (His? Her? Its?) job is very interesting”.
    Di fronte a domande come queste, su più di trecentomila candidati si sono arenati in duecentomila e rotti. L’aula in cui mi trovavo offriva un campione piuttosto fedele delle statistiche: pochi si sono fermati a uno o due punti dal minimo necessario, e pazienza, mentre una percentuale considerevole ha accumulato più o meno metà punteggio e taluni sono inspiegabilmente riusciti a dare una decina di risposte esatte su quaranta. A voler prendere questi risultati sul serio, bisognerebbe dedurne che una cospicua percentuale di laureati italiani non è in grado di compiere ragionamenti elementari né di capire se Gennaro sia simpatico o toscano. Inoltre, nonostante le riserve avanzate dai soloni della mediocrità, il solo dato di fatto che questa preselezione avesse drasticamente ridotto l’eccessivo numero dei candidati significava che il ministero aveva intuito a priori che sarebbe bastato un test un po’ sciapo a potare i rami secchi, visto che una preselezione serve, per definizione, a eliminare chi non ha i requisiti minimi per concorrere. Le lamentele su difficoltà e astrusità sono della stessa risma dell’indignazione popolare per la traccia su Claudio Magris, con l’aggravante che i figli da difendere di fronte allo spauracchio della selezione su dati oggettivi erano nati negli anni 80 o 70, o negli anni 60 in casi estremi.

    La prova scritta non ha entusiasmato gran che la stampa, sia perché era spalmata su troppi giorni per costituire un evento sia perché le tracce da svolgere obbligatoriamente, quattro per materia, erano troppo differenziate per consentire un’indignazione organica. Ho notato invece che man mano che il concorso andava avanti fra molti candidati si diffondeva una brama, tutta una voluttà di tornare alunni da sorvegliare e punire anziché diventare professori. Forse per effetto del ritorno sui piccoli banchi delle aule del liceo, chini sul foglio protocollo di cui riempire non più di una facciata per traccia pena la squalifica, i concorrenti regredivano alla psicologia che doveva averli caratterizzati alle superiori: il secchione che non dà confidenza, il compagnone che nelle spiritosaggini cerca consolazione per le lacune, il terrorizzato che ripassa sul calepino fino all’ultimo secondo, la sbattitrice di palpebre, il torvo miniatore che non consegna il tema fino a che non gli viene strappato di mano, quello che annuisce deferente a ogni mossa dei commissari in cattedra, i quali erano veri professori di liceo messi di fronte a liceali malcresciuti (e non mi escludo dal novero: io ero quello strafottente che non vede l’ora che il compito finisca, che sfida sardonico la sospettosa vigilanza dei professori, e soprattutto che non ha aperto libro, tant’è vero che solo al momento della distribuzione delle tracce avevo appreso che era in programma anche la storia antica; così alla traccia sugli ateniesi ho risposto, grossomodo, che costoro facevano vasi e andavano a teatro).

    Ciò mi ha sorpreso, perché pensavo che il concorso fosse un regolamento di conti fra adulti, da affrontarsi per quel che si riesce con spirito olimpico e un po’ di fatalismo; avrei invece dovuto aspettarmelo perché storicamente, in Italia, il candidato all’insegnamento viene mantenuto in una condizione di minorità. Pensate alla Ssis, il biennio a numero chiuso che per dieci anni ha costretto fior di laureati a tornare fra i banchi, ovviamente a pagamento, e ha creato non pochi infelici specie fra i genitori più ingenui che credevano che pagando anche questa cresta, dopo tutte le spese per la laurea, avrebbero comprato ai figli il posto a scuola, e invece in non pochi casi se li sono ritrovati o precari o in fiduciosa attesa o ancora fra i piedi nel tinello. Su queste pagine nel 2008 Camillo Langone aveva definito la Ssis “un supplemento di umiliazione e frustrazione per chi studia da due o più decenni” e Mariastella Gelmini ha fatto solo bene ad abolirla; io mi sono guardato bene dal cascarci, ma gli altri chi li ripaga?
    Intanto, contemporaneamente al dipanarsi il concorso, venivano svolti i corsi del Tirocinio formativo attivo, vulgo Tfa, che l’estate prima era apparso come l’ultimo miraggio dai contorni confusi per chi si fosse laureato da meno di dieci anni; un mostro apocalittico che si rivolgeva ai giovani dottori come nella prosopopea di Emmanuela Carbé in “Mio salmone domestico” (Laterza): “Sono il Tirocinio formativo attivo per insegnanti licei e scuole secondarie. Sono venuto a intimarvi di preparare il test a crocette di giugno, ugno, ugno. In caso contrario vivrete i rimanenti anni della vostra vita compilando curriculum vitae inutili e cercando di sposare un imprenditore. Convertitevi, siete in tempo. La mattina andrete a fare supplenze nelle scuole con lo scopo di preparare gli alunni a fare gli stessi vostri sbagli, agli, agli. Pensateci. Arrivederci”. Tutto questo con l’incongruenza che iscriversi al concorso docenti era gratis mentre per affrontare il test a crocette del Tfa bisognava pagare, e i fortunati vincitori in grado di superarlo dovevano pagare ancora di più per poter andare ad affiancare professori nelle superiori, di mattina, e, di pomeriggio, a seguire lezioni su materie che avevano già studiato per anni e che avrebbero insegnato per il resto della vita, e infine consegnare una relazione sull’attività svolta in classe che nulla avrebbe potuto invidiare a un film di Luchetti o a un romanzo di Starnone. Con l’aggravante che, prima della gragnola di ricorsi, chi era stato abbastanza bravo da superare il proibitivo test a crocette del Tfa non aveva diritto a iscriversi all’elementare preselezione di logica del concorso. Senza aver capito bene se per l’assegnazione dei posti la precedenza sarebbe spettata a chi aveva seguito un anno di corso di Tfa, a chi aspettava fiducioso dai tempi della Ssis o a chi in quattro giorni aveva avuto talento e fortuna sufficienti a superare in scioltezza le prove del concorsone.

    Agli orali, per i dodici posti disponibili nella mia classe di concorso, eravamo rimasti in centodue e il compiacimento regressivo dei concorrenti ha raggiunto vette inattingibili. C’era chi aveva studiato a memoria il regolamento del concorso e chi era venuto ad ascoltare gli esami altrui onde calcolare quali domande fossero più probabili. C’era chi sperava di venire convocato da una commissione anziché dall’altra in cui il professore di informatica era più cattivo. C’era chi aveva gli occhi lucidi favoleggiando del futuro ritorno alla calma vita ciclica delle scuole superiori. C’era chi sosteneva che bisognasse simulare una lezione fingendo che i professori fossero alunni, recitando, e chi diceva che bisognava simularla specificando all’inizio che non si sarebbe finto di star facendo lezione. E, come Crocitti con Alberto Sordi, c’era chi è venuto accompagnato dal genitore, che poi ha aspettato in buon ordine fuori dall’aula leggendo un rotocalco mentre il figlio veniva interrogato e dimostrava allo stato quant’era bravo, quanto tempo aveva trascorso a ripassare il programma sui manuali appositi, con quanta cura aveva preparato la presentazione power point con scritte le parole che diceva, quant’era comodamente leggibile la sua minuscola calligrafia sul foglio protocollo, quante ore aveva trascorso a simulare il test di logica sul computer di casa. E quando è arrivato il mio turno e come ultima domanda mi hanno chiesto cosa ci facessi lì nonostante il mio disinteresse palese e quasi ostile ho risposto che sono figlio anch’io e, se non ci fossi andato, chi l’avrebbe sentita mia madre?
    La prossima volta però facciamo che se voglio insegnare passo dalle scuole che preferisco, lascio il mio curriculum a un bidello, poi se il preside è interessato mi convoca per un colloquio e se non è interessato faccio altro. Così perdo meno tempo io e perde meno tempo lo stato, anche se non fallisce mai.