I modelli Kosovo e Libia
L'attacco alla Siria sarà uno strike di punizione oppure “Kill Assad”?
Gli Stati Uniti non sono mai stati così vicini a lanciare una serie di strike contro bersagli in Siria, in risposta a una strage di civili compiuta con armi chimiche dall’esercito del presidente Bashar el Assad. C’è però una questione di fondo non risolta: l’Amministrazione Obama non dice ancora qual è il suo obiettivo finale. Qual è lo scopo di questa guerra? Si tratta forse di sferrare strike limitati che dovrebbero funzionare da deterrente e convincere il governo siriano a non usare più le armi chimiche contro i civili? Il New York Times ha avallato questa tesi già domenica, scrivendo in un titolo di “una campagna aerea come in Kosovo nel 1999”. Oppure c’è di più?
Gli Stati Uniti non sono mai stati così vicini a lanciare una serie di strike contro bersagli in Siria, in risposta a una strage di civili compiuta con armi chimiche dall’esercito del presidente Bashar el Assad. C’è però una questione di fondo non risolta: l’Amministrazione Obama non dice ancora qual è il suo obiettivo finale. Qual è lo scopo di questa guerra? Si tratta forse di sferrare strike limitati che dovrebbero funzionare da deterrente e convincere il governo siriano a non usare più le armi chimiche contro i civili? Il New York Times ha avallato questa tesi già domenica, scrivendo in un titolo di “una campagna aerea come in Kosovo nel 1999”. Oppure c’è di più? Un’altra ipotesi di lavoro che l’Amministrazione Obama potrebbe scegliere (per essere più precisi: ha già scelto, ma non ancora comunicato per ragioni operative) è l’opzione “Kill Assad”: trovare ed eliminare il presidente siriano, che incarna – anche simbolicamente – tutto il residuo potere del governo sulla Siria. Se questo è il piano, Washington vorrebbe stringere allo stesso tempo un accordo di resa con l’establishment militare siriano per una transizione più o meno ordinata. Si articolerebbe sicuramente in due punti: il primo è la messa in sicurezza dei siti dove sono conservate le armi chimiche, senza trasferimenti o spostamenti (tantomeno nelle mani del gruppo libanese Hezbollah); il secondo è la lotta alle fazioni di estremisti che ormai controllano in nome di al Qaida alcune parti del paese.
Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha detto ieri che le opzioni considerate dal presidente Barack Obama “non comprendono il regime change” a Damasco, ma poi ha aggiunto: “Il futuro della Siria non può includere Assad”. Anche il vice primo ministro inglese, Nick Clegg, ha detto con parole chiare che lo scopo dell’intervento “non è rovesciare” il rais. Ieri però dall’aeroporto internazionale di Latakia – secondo fonti sul posto – sono partiti voli con a bordo le famiglie dell’establishment siriano, e c’è anche movimento attraverso il confine con il Libano, segno che pure loro, gli appartenenti al gruppo di potere di Assad, si aspettano un tentativo americano di decapitare i vertici. Non è implausibile. Anche durante l’operazione Odyssey Dawn in Libia la caccia al colonnello Gheddafi non era per nulla un obiettivo dichiarato, fino a quando nel giugno 2011 l’ammiraglio Samuel Locklear, comandante del centro comando Nato nella base di Napoli, non si lasciò sfuggire con un senatore americano che la Nato stava tentando attivamente di identificare la posizione di Gheddafi e di ucciderlo, “perché la protezione di civili è interpretata come un permesso più ampio a rimuovere la catena di comando libica e Gheddafi è al vertice”.
La scorsa settimana, prima della strage con armi chimiche alla periferia di Damasco, un intervento militare americano in Siria era ancora considerato un’ipotesi remota. Ieri però il Wall Street Journal già spiegava in un editoriale ambizioso che l’obiettivo dell’intervento dovrebbe essere il regime change a Damasco e che: “The problem is Assad”. “Lanciare un po’ di missili cruise da distanza di sicurezza sarebbe la risposta peggiore”, scrive il Wsj, gettando le fondamenta teoriche di ogni possibile piano per uccidere il presidente siriano. Questa opzione “Kill Assad” richiede come detto un accordo politico sottobanco con l’establishment governativo siriano (che in passato qualche frattura l’ha mostrata) e anche un secondo accordo con l’opposizione non jihadista, perché accetti una riconciliazione. Vasto programma, come si vede. Sembra un’acrobazia diplomatica a bassa probabilità di riuscita.
La marina americana ha posizionato le sue navi al largo della costa della Siria, incluse alcune navi specializzate nel Search and Rescue, il recupero dei piloti abbattuti, più avanti delle altre, il che fa pensare che sarà coinvolta anche l’aviazione. Washington ha chiesto al governo greco di potere usare le basi aeree di Souda e Kalamata, la prima è a Creta, che è la posizione più avanzata davanti alla Siria, ed è un secondo indizio che potrebbero essere usati anche gli aerei e non soltanto i Tlam (i missili Tomahawk, la sigla vuol dire Tomahawk land attack missile).
I britannici hanno aerei pronti alla base di Akrotiri, a Cipro. Se davvero così fosse, allora vuol dire che la coalizione anti Assad non intende colpire soltanto bersagli poco fortificati come piste d’aeroporto, hangar, radar o palazzi del governo, ma anche bunker protetti.
Davanti alle coste siriane Washington ha posizionato quattro incrociatori classe Arleigh Burke, ognuno capace di lanciare 45 missili. Se la marina americana ha almeno due sottomarini d’attacco nel Mediterraneo orientale, come è probabile, si possono aggiungere altri 24 missili. In tutto sono più di 200, abbastanza per un bombardamento di media intensità ed è possibile che arrivino altri missili e altre unità.
Questa distinzione – se saranno usati soltanto i Tlam o anche gli aerei – potrebbe per prima rivelare che cosa si aspetta l’Amministrazione Obama da questa guerra. Le principali differenze tra i Tlam e gli aerei sono che i primi partono dalla superficie del mare, attraversano le difese aeree nemiche e distruggono i cosiddetti “soft target”, i bersagli morbidi, senza difese; non possono fare molto di più, anche se hanno il vantaggio che non si rischia l’abbattimento di un pilota americano in territorio siriano. Furono l’arma scelta da Bill Clinton per colpire i campi d’addestramento di al Qaida in Afghanistan dopo gli attentati alle ambasciate americane in Africa nel 1998. Gli aerei, invece, possono trasportare e lanciare bombe più pesanti e potenti e in grado di distruggere obiettivi fortificati, comprese le bunkerbuster, ma prima sarebbe necessario distruggere il sistema di difese contraeree della Siria e resta sempre una percentuale di rischio per i piloti. I Tomahawk sono l’opzione leggera, di pura deterrenza, a breve termine. Gli aerei sono l’impegno più profondo, più a lungo termine, più rischioso e anche più ambizioso.
Chris Harmer è l’autore di uno studio ampiamente circolato (ne ha parlato anche il Foglio, venerdì scorso in prima pagina) sulla fattibilità di uno strike con soli missili contro la Siria. Harmer è un analista navale specializzato nel targeting, nell’acquisizione di bersagli, e sostiene che è possibile paralizzare l’aviazione siriana con un numero limitato di strike, senza rischi e dal costo limitato. Però mette in guardia in un secondo studio pubblicato dal sito Understandingwar: se prima non c’è una definizione strategica di cosa si vuole ottenere da una guerra, allora intervenire è inutile, forse è peggio. “Le azioni tattiche in assenza di obiettivi strategici di solito sono senza senso e spesso controproducenti”, scrive. “Concetti come gli ‘strike punitivi’ per fare deterrenza contro l’uso di armi chimiche non si possono tradurre in una scelta di bersagli. Intraprendere un’azione militare per provare che l’America non starà a guardare non è una strategia. Non è nemmeno un buon criterio per la pianificazione di un’operazione, perché non offre ai militari un traguardo che possono raggiungere”.
La questione legittimità internazionale
Il ministro degli Esteri italiano, Emma Bonino, ha chiesto che qualsiasi intervento armato sia fatto con l’autorizzazione delle Nazioni Unite. Il via libera potrebbe non arrivare mai, considerato il potere di veto di Russia e Cina dentro il Consiglio di sicurezza dell’Onu, formato da 15 paesi. Secondo Richard Haas, presidente dell’U.S. Council on Foreign Relations, il governo americano può procedere senza l’approvazione Onu. “Il Consiglio di sicurezza non è l’unico custode di cosa è lecito e cosa no e come molti hanno notato fu bypassato anche ai tempi del Kosovo – per la stessa ragione, superare il veto di Mosca che proteggeva il presidente yugoslavo Slobodan Milosevic”. Secondo una fonte dell’Amministrazione, il presidente Obama non cercherà legittimità alle Nazioni Unite e nemmeno passerà per la Nato.
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