L'ipocrisia della sinistra manettara che fischietta di fronte alla lezione pacificatrice di Napolitano

Sergio Soave

Nella faziosità della campagna di Repubblica per la decadenza di Silvio Berlusconi, nonostante o forse proprio perché metterebbe probabilmente fine all’esperienza del governo di pacificazione presieduto da Enrico Letta non c’è solo la reiterazione pavloviana di uno spirito manettaro. L’ostilità nei confronti di Berlusconi è scontata, l’incomprensione per il valore politico dell’operazione politica messa in atto tre mesi fa da Giorgio Napolitano, invece, contraddice una lunga consuetudine di apprezzamento per l’equilibrio e l’autorevolezza del capo dello stato.

    Nella faziosità della campagna di Repubblica per la decadenza di Silvio Berlusconi, nonostante o forse proprio perché metterebbe probabilmente fine all’esperienza del governo di pacificazione presieduto da Enrico Letta non c’è solo la reiterazione pavloviana di uno spirito manettaro. L’ostilità nei confronti di Berlusconi è scontata, l’incomprensione per il valore politico dell’operazione politica messa in atto tre mesi fa da Giorgio Napolitano, invece, contraddice una lunga consuetudine di apprezzamento per l’equilibrio e l’autorevolezza del capo dello stato.
    Può essere utile quindi riassumere le ragioni che Napolitano ha tratto dalla sua lunga e sofferta esperienza politica per promuovere la pacificazione, mettendola come condizione per accettare un nuovo mandato nonostante l’età e la personale contrarietà più volte espressa. In varie occasioni la riflessione di Napolitano sui limiti del processo unitario, dal Risorgimento in poi, ha indicato proprio nell’irriducibilità dello scontro politico uno dei caratteri critici della costruzione nazionale. Basta leggere i suoi discorsi torinesi in ricordo di Camillo Benso conte di Cavour, che fu glorificato solo dopo la morte prematura, ma combattuto con vigore durante la sua attività sia dalla sinistra risorgimentale sia dal partito di corte, oltre ovviamente agli ambienti clericali. In Cavour Napolitano riconosce tuttavia lo spirito di pacificazione interna, non solo per le sue combinazioni parlamentari di “connubio”, ma per l’apertura alle ragioni dei suoi contestatori. Naturalmente Cavour combatté i suoi avversari, per esempio non cancellò la condanna di Giuseppe Mazzini, ma tollerò la sua presenza clandestina in Italia.

    Nell’idea di pacificazione non è cancellata la dialettica, anche quella più aspra, ma conta che vi sia una base minima condivisa sulla quale ciascuno costruisce la sua interpretazione alternativa dell’interesse nazionale. La rilettura della fase costituente della Repubblica, in cui la convergenza per la verità assai breve delle formazioni antifasciste è stata mitizzata da molti, Napolitano coglie il risultato, cioè il testo costituzionale, che fu approvato alla vigilia dello scontro elettorale più aspro della storia nazionale, quello del 18 aprile 1948. Dall’interpretazione storica (di tipo piuttosto crociano più che marxista, come storia del presente) si passa alla pratica politica, quella che vide Napolitano protagonista della fase di compromesso storico insieme a Enrico Berlinguer e poi in tensione con lui per il modo moralistico e antipolitico con cui quella politica di pacificazione fu abbandonata. Non per caso Napolitano per criticare la svolta di Salerno di Berlinguer, quella della superiorità antropologica dei comunisti, usò un’ampia raccolta di citazioni di Palmiro Togliatti, che riconosceva, di fronte alla sfida lanciata dal primo centrosinistra, di accettare il terreno del riformismo.

    La pacificazione, naturalmente, non implica necessariamente la convergenza delle forze politiche alternative a sostegno dello stesso governo, ma questa risulta la soluzione necessaria quando il paese vive una crisi di dimensioni tali che nessuna delle grandi forze è in grado di dominare da sola. La disfatta militare, le distruzioni belliche e le ferite di una guerra civile richiesero governi unitari, compreso quello presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, certamente poco gradito all’opinione democratica, per condurre la lotta di liberazione e firmare un umiliante trattato di pace. La crisi finanziaria mondiale dei primi anni settanta e l’inflazione galoppante dovuta a una ricorsa salariale puramente nominale causata dei meccanismi automatici di indicizzazione, insieme all’emergere del terrorismo, richiesero i governi monocolori di Giulio Andreotti, che certo non rappresentava una figura attraente per l’opinione di sinistra, appoggiati dal Pci prima con l’astensione e poi col voto favorevole dopo la strage di via Fani.
    Per Napolitano la ricaduta sociale in Italia delle successive crisi finanziarie mondiali, accompagnate alla progressiva dissoluzione della maggioranza di centrodestra uscita dalle urne, richiedeva e richiede soluzioni straordinarie di convergenza per assicurare una pacificazione indispensabile per affrontare le misure di austerità e di risanamento necessarie. Il ministero tecnico di Mario Monti prima del voto, svoltosi praticamente alla scadenza naturale della legislatura, e quello di Letta-Alfano attualmente in carica, sono state risposte politiche, costruite dal Quirinale non come male minore ma come operazioni che, nelle specifiche situazioni parlamentari e della dinamica interna ai partiti, esprimevano al meglio il disegno di pacificazione, connesso intimamente ai tre punti di principio cui Napolitano ha più volte dichiarato di ispirarsi: l’unità nazionale, la convergenza europea, la praticabilità di un ampio processo riformatore, dell’economia e delle istituzioni, giustizia compresa.

    Mentre i primi due elementi non richiedono spiegazioni, vale la pena di esaminare come si pone nel pensiero di Napolitano il rapporto tra pacificazione e riforme. Il processo riformatore (e di rinnovamento in senso moderno ed “europeo” del sistema nazionale) viene naturalmente interpretato in forme diverse dalle diverse coalizioni che assumono volta a volta la responsabilità di governo in un sistema di alternanza. Però il processo nel suo complesso dovrebbe svolgersi per passaggi successivi in cui ciascuno, col suo stile e la sua visione, aggiunge un tratto particolare a un percorso dalla direzione generale unica. E’ accaduto così in tutte le grandi democrazie, mentre in Italia il governo o la maggioranza successivi distruggono le riforme di quella precedente, dichiarandola una “controriforma”. Probabilmente è proprio su questo versante che la incomprensione del partito di Repubblica per il Quirinale raggiunge le dimensioni più consistenti. La piegatura giacobina non si esprime solo nello spirito della ghigliottina, che è quello cui si ispira l’atteggiamento nei confronti di Berlusconi, ma anche nel rifiuto del “compromesso” nella costruzione delle riforme, viste invece come affermazione illuministica di “verità” cioè di impostazioni ideologiche irriducibili e inconciliabili, esattamente il contrario di uno spirito basato sul principio di realtà come quello espresso con maestria politica dal presidente Napolitano, erede di una tradizione alla quale appartengono i maggiori statisti della storia patria, da Cavour a Giovanni Giolitti ad Alcide De Gasperi, tutti e tre ferocemente combattuti dal giacobinismo moralistico dell’epoca loro e poi glorificati dalle generazioni successive, giacobini compresi.