Chi vuole fare Chesterton santo si ricordi cosa diceva della sua sedia

Edoardo Rialti

I santi devono mostrare di possedere delle “virtù eroiche”, ma G. K. Chesterton si sarebbe fatto da parte, scostando la sua stazza imponente, e avrebbe piuttosto indicato la propria sedia: sosteneva infatti che era lei a essere “non romantica, bensì eroica, perché costantemente in pericolo”; sarebbe quindi davvero divertente immaginarsi la sua reazione alla notizia che in Inghilterra, a seguito di una vera campagna condotta dalla Società chestertoniana americana, si stanno sondando le possibilità preliminari di un processo di beatificazione. Ne potrebbe derivare un nuovo ordine religioso, i monaci del Beato Gilbert della santa abbondanza, impegnati nei voti di robusto appetito, spirito e humour.

    I santi devono mostrare di possedere delle “virtù eroiche”, ma G. K. Chesterton si sarebbe fatto da parte, scostando la sua stazza imponente, e avrebbe piuttosto indicato la propria sedia: sosteneva infatti che era lei a essere “non romantica, bensì eroica, perché costantemente in pericolo”; sarebbe quindi davvero divertente immaginarsi la sua reazione alla notizia che in Inghilterra, a seguito di una vera campagna condotta dalla Società chestertoniana americana, si stanno sondando le possibilità preliminari di un processo di beatificazione. Ne potrebbe derivare un nuovo ordine religioso, i monaci del Beato Gilbert della santa abbondanza, impegnati nei voti di robusto appetito, spirito – nel senso di alcol, visto che il patrono sosteneva che “le strade o portano a Roma o devono portare al rhum” – e humour. I vegetariani sarebbero processati e additati come subdoli eretici e chi sollevasse obiezioni al santo detto “se vale la pena fare una cosa, vale la pena farla male”, verrebbe costretto a essere rigorosamente in ritardo a tutti gli appuntamenti dell’anno successivo, tanto per imparare la perfetta letizia dell’approssimazione. I nuovi monaci dovrebbero entrare sempre ed esclusivamente dalle finestre e mai dalle porte – come il protagonista di “Uomovivo” – ed essere parimenti divisi tra atei e credenti, impegnati una volta all’anno in duelli all’ultimo sangue sull’esistenza o meno di Dio, come i due spadaccini di “La sfera e la croce”, per cui Chesterton provava pari stima e simpatia. E qualora si indentificasse come il miracolo necessario alla proclamazione la guarigione di un goloso o di un fumatore incallito, allora è più che certo che Chesterton in persona irromperebbe dalle nubi tuonando: “Io quello non l’ho mai guarito! Mai e poi mai!”.

    Certo è che la civiltà contemporanea ha spesso chiesto alla letteratura di essere tutto meno che letteratura: si nota frequentemente e da più parti una specie di “corsa alle armi”, volta a ingaggiare gli scrittori in questo o quel partito, facendone dei santoni, dei guru, dei maestri di vita spesso troppo seriosi per essere profondi, come invece sono i loro godibilissimi libri. Succede – in grado minore – nell’affannosa e costante ricerca del “messaggio” del romanzo. Il Tolkien del “Signore degli anelli” lo ripeté spesso: “Io non predico e non insegno nulla”. Il “re del brivido” Stephen King, quando provò a sintetizzare la sua epica apocalittica nell’“Ombra dello scorpione”, mille pagine su una catastrofe che si mangia quasi tutta la popolazione mondiale, disse che in fondo era come se Dio volesse semplicemente gridarci un consiglio vecchio come la Torre di Babele: “Non vi ho portati fin qui solo perché ricominciate con le vecchie stronzate di prima”. Punto.
    Più di un bravo narratore è finito nel vortice diabolico dei commenti sulle grandi testate, discettando praticamente su tutto e quindi, alla fine, su niente. Il mondo cattolico non è esente da questo rischio ideologico, ed è passato dall’indice dei libri proibiti per Graham Greene (ma si dice che il pontefice stesso gli disse di continuare) al tentativo, tavolta più fondato, talvolta meno, del “gioco della scacchiera”, bianchi contro neri, “i bravi, i nostri”, contro gli altri (“Dante va sempre bene, Petrarca insomma, Ariosto no perché prende tutti per i fondelli, Tasso benissimo anche se poverino stava tanto male, Shakespeare ok ma solo se scopriamo che sotto sotto sfotteva Elisabetta I, Dostoevskij più che bene, anche se beveva, soprattutto se contrapposto a quel Tolstoj da Woodstock, però occhio è un po’ troppo di manica larga con quelli incasinati forte, i convertiti van tutti bene, anche quelli in punto di morte…”). La consolazione è che, parafrasando lo stesso Chesterton sulle fate analizzate in laboratorio, gli scrittori stessi “non collaboreranno”. Qualsiasi riduzione, fatta anche con le migliori intenzioni, li vedrà scalciare riottosi. E se non loro, saranno i loro libri a farlo. In effetti a ben guardare un miracolo c’è già, testimoniato da milioni di “guariti” ed è l’incanto stesso dell’arte dei grandi poeti e narratori, che non dimostra ma piuttosto mostra e che è in grado di parlare alle persone più diverse, proprio perché in fondo gli scrittori, ben lungi dal non avere credenze e convinzioni personali profonde, hanno il vantaggio dei personaggi del romanzo “L’uomo che fu giovedì”: sono degli agenti segreti, capaci di arrivare laddove la polizia ufficiale non arriva, e la cui identità resta talvolta un mistero anzitutto per loro stessi.

    Occorre immaginare un processo di beatificazione felicemente strano e “largo” per Chesterton. L’eventuale commissione dovrà godere di un gran senso dell’umorismo, ed essere pronta a vedersi giocare degli scherzi a ogni pagina delle sue suoi decine di libri, e migliaia di articoli. Chi ha fatto fatica a entrare in una bara, entrerà ancor più difficilmente in un santino. E avrà bisogno di altari e pale eroiche come la sua sedia.