Rinviare e sopire

Salvatore Merlo

Quel che importa è il rinvio, protagonista torpido ma assoluto della campagna di bisbigli, di diplomazie sotterranee, di carteggi privati e di confronti all'americana che in queste ore s'irraggia dal Quirinale, lambisce Palazzo Chigi, Enrico Letta e Angelino Alfano, e infine scivola giù fino al Senato, quel Palazzo Madama in cui tra una decina di giorni, il 9 settembre, Silvio Berlusconi dovrebbe essere giudicato dai suoi colleghi senatori della commissione per le elezioni, “il sinedrio”, lo chiama Fabrizio Cicchitto. Degno o indegno di sedere in Parlamento? “Sarebbe un errore affrettare i tempi di questa decisione”, dice Pier Ferdinando Casini.

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    Quel che importa è il rinvio, protagonista torpido ma assoluto della campagna di bisbigli, di diplomazie sotterranee, di carteggi privati e di confronti all’americana che in queste ore s’irraggia dal Quirinale, lambisce Palazzo Chigi, Enrico Letta e Angelino Alfano, e infine scivola giù fino al Senato, quel Palazzo Madama in cui tra una decina di giorni, il 9 settembre, Silvio Berlusconi dovrebbe essere giudicato dai suoi colleghi senatori della commissione per le elezioni, “il sinedrio”, lo chiama Fabrizio Cicchitto. Degno o indegno di sedere in Parlamento? “Sarebbe un errore affrettare i tempi di questa decisione”, dice Pier Ferdinando Casini. “E’ giusto pretendere che la giunta del Senato non sia un plotone d’esecuzione, bisogna valutare e riflettere”, dice l’allievo di Arnaldo Forlani, lui che, come Gianni ed Enrico Letta, come Giorgio Napolitano e Angelino Alfano, Luciano Violante e Gaetano Quagliariello, non considera il rinvio un’invenzione democristiana né il capriccio perverso dell’andreottismo, ma semplicemente una necessità politica, la via obbligata dei governi di turbolenta coalizione.

    E insomma, all’ombra d’una tela che viene intessuta nei saloni della presidenza della Repubblica – “la grazia o la commutazione della pena” ha opinato allusivamente Mario Monti al Foglio – il Palazzo è agitato dalla diplomazia del rinvio. E la parola “tempo”, sussurrata nei corridoi più riparati, diventa così una litania bipartisan, o quasi, l’estremo tentativo di dare aria, ossigeno al presidente della Repubblica e al suo governo, a una soluzione politica dell’anomalia giudiziaria chiamata Berlusconi. Dunque il Senato non dovrà decidere subito, ma valutare, approfondire, ascoltare, discutere, perdere tempo per guadagnare tempo; rinviare appunto. Perché il rinvio è la sola forma di governo stabile che l’Italia conosca, è la via italiana alla governabilità. Come dice il ministro Quagliariello: “Se la priorità è evitare la crisi, prendere tempo è essenziale”. E così il Cavaliere osserva interessato, sempre scettico sulle capacità della diplomazia ha siglato una tregua. Attende e (si) trattiene.

    E dunque Enrico Letta, lo zio Gianni Letta e Angelino Alfano sono gli ambasciatori titolati, mentre Renato Schifani e Andrea Augello, il capogruppo del Pdl e il relatore del procedimento contro Berlusconi in Senato, sono i cesellatori dei dettagli di una trama complicatissima. I ministri delle Riforme e della Difesa, Gaetano Quagliariello e Mario Mauro, fanno da staffette, volano da una telefonata all’altra, da un incontro a un altro, cene e pranzi, tutti impegnati a costruire un solido contrafforte intorno al Quirinale, una campagna di mobilitazione che coinvolge Monti, Casini, Violante, il mondo dei costituzionalisti come Valerio Onida, i giornali borghesi, il Corriere della Sera, il Sole 24 Ore. L’oggetto di tutte le preoccupazioni è il Pd, “bisognerebbe abbassare un po’ lo spread tra Violante ed Epifani”, dice Quagliariello. E significa che nel Partito democratico il campo è confuso, che Letta non sembra avere troppi amici, che il segretario Epifani è volenteroso ma terrorizzato dal vedere il suo partito deflagrare rovinosamente, che Renzi è sospettato di volere elezioni subito, così come lo sono i giovani turchi di Matteo Orfini. E persino Massimo D’Alema, che incarnò la Bicamerale e il patto col diavolo, vacilla, incline alla capitolazione. E insomma, dicono nel Pdl, “è vero che Napolitano, nel caos, di solito diventa il capo del Pd. Ma è anche vero che stavolta potrebbe scontrarsi con una resistenza armata”. E difatti Luigi Zanda, il capogruppo del Pd in Senato, persino lui, l’uomo che fino a ieri a Palazzo Madama, come sanno bene i diplomatici del Cavaliere, trattava con una certa moderazione e non era affatto contrario alla logica del rinvio, ieri, dopo aver incontrato Epifani, ha invece rinnegato Luciano Violante e le sue parole concilianti, dal sapore così limpidamente quirinalizio: “Violante ha fatto una riflessione personale, di aperture non ne vedo traccia”. Anche Repubblica si è schierata contro.

    “Il tempo è un’illusione”, ha detto Denis Verdini, silenzioso architetto di retrovia, al Cavaliere. E s’intuisce che la trattativa, questa acrobazia così temeraria, può infrangersi anche contro le mura del Castello di Arcore. Perché è vero che perdere tempo, allontanare la decisione del Senato sulla decadenza di Berlusconi, significa guadagnare tempo. Ma come sussurrano alcuni consiglieri di guerra del Cavaliere, “la parola tempo è un’esigenza di metodo che bisogna precisare nei contenuti. Tempo per chi? Per fare cosa? Per tagliarci la strada verso le elezioni o per trovare una soluzione, per dare agio a Napolitano di commutare la pena di Berlusconi? Il tempo che serve a te o quello che serve a me?”. Daniela Santanchè, la pasionaria, tace, eppure nei suoi colloqui privati storce sempre il naso, “quello che ci interessa non è il dio Kronos, ma la dea Giustizia”. E insomma il tempo, pensano, “lavora anche per il giudizio sommario, per l’esecuzione capitale”. Il rompicapo è evidentemente insolubile, la questione imprendibile, scarse le garanzie, ancora fragile la mediazione diplomatica. E Berlusconi è un’impaziente che in queste ore vive il tormento d’una partita giocata sulla sua stessa pelle, nessuna astrazione politica, solo corpo e sangue. Il Cavaliere ha imposto il silenzio al suo strano partito, da capo assoluto qual è. E si è anche imposto il silenzio, almeno fino al fatidico 9 settembre, quando la commissione del Senato si riunirà. Adesso hanno dieci giorni per convincerlo, la diplomazia segreta è già al lavoro, Gianni Letta gli spiegherà personalmente che il rinvio è una necessità politica, una condizione necessaria alla soluzione giudiziaria, la via obbligata in caso di turbolenza. E che in politica, per vincere, bisogna prendere decisioni apparentemente contorte, evasive, a doppio fondo.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.