Doppio strike: prima Assad, poi il jihad
La paura degli strike americani mette pressione all’establishment di Damasco e apre le prime crepe tra i lealisti del presidente Bashar el Assad. Da due giorni c’è traffico in uscita sulla corsia preferenziale dell’autostrada che corre tra la capitale e Beirut – è la corsia militare usata dai vip siriani, che saltano i posti di blocco e i controlli (è la stessa usata anche dal gruppo libanese Hezbollah). La bolla di sicurezza che protegge il centro di Damasco, dove la vita continua a svolgersi nella normalità anche adesso, al terzo anno di guerra, ora non è più considerata invulnerabile in vista dei possibili bombardamenti, scrive Martin Chulov, inviato del Guardian a Beirut.
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La paura degli strike americani mette pressione all’establishment di Damasco e apre le prime crepe tra i lealisti del presidente Bashar el Assad. Da due giorni c’è traffico in uscita sulla corsia preferenziale dell’autostrada che corre tra la capitale e Beirut – è la corsia militare usata dai vip siriani, che saltano i posti di blocco e i controlli (è la stessa usata anche dal gruppo libanese Hezbollah). La bolla di sicurezza che protegge il centro di Damasco, dove la vita continua a svolgersi nella normalità anche adesso, al terzo anno di guerra, ora non è più considerata invulnerabile in vista dei possibili bombardamenti, scrive Martin Chulov, inviato del Guardian a Beirut. Anzi, l’area contiene alcuni probabili bersagli. Generali e ufficiali stanno evacuando i siti che potrebbero essere visitati dalla risposta internazionale alla strage chimica di mercoledì scorso: il quartier generale delle Forze armate in piazza degli Omayyadi, la base della Quarta divisione corazzata del fratello del presidente, Maher Assad, nell’aeroporto militare di Mezzeh, i comandi dell’intelligence e dell’intelligence militare. Sono stati segnalati spostamenti verso la zona militare ricca di bunker tra le montagne a nord-est della capitale e secondo fonti del Foglio due ufficiali dell’esercito informati sui fatti hanno disertato dopo l’attacco chimico e ora sono in Giordania – il ritmo delle defezioni negli ultimi mesi era rallentato fin quasi ad azzerarsi. Washington sta facendo pressioni sulle Nazioni Unite perché ritiri in anticipo la squadra di ispettori delle Nazioni Unite, il cui mandato scade sabato, ma non ha ricevuto risposta positiva. La loro evacuazione è tenuta d’occhio come un possibile segnale del via libera per l’inizio dei bombardamenti. Il dipartimento di stato americano dice che il leader dei ribelli dell’Esercito libero ha garantito protezione per gli ispettori, in caso di inizio dei bombardamenti. Ma il governo britannico oggi presenterà ai Comuni una mozione in cui non viene chiesta l’autorizzazione all’attacco e anzi si chiede che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite esamini il rapporto dal campo, che non sarà pronto prima di lunedì.
Anche i jihadisti in guerra con l’esercito siriano temono di essere il bersaglio delle operazioni militari internazionali in Siria. Sui forum online e sui siti dei gruppi di estremisti circola un messaggio che accusa l’Amministrazione Obama di voler “colpire i mujaheddin in Siria per impedire la creazione del Califfato”, durante la stessa campagna aerea che potrebbe investire le installazioni militari del governo Assad.
L’esortazione tra jihadisti è di evitare quanto è già successo in Iraq e Afghanistan, dove “sottovalutare la minaccia dei droni e degli aerei americani ha avuto conseguenze disastrose”. Seguono consigli pratici per minimizzare i danni degli strike: spostare i leader via dai campi conosciuti, nascondere scorte di medicinali e cibo, ritirarsi dal fronte se è necessario, mescolarsi assieme alla popolazione “come hanno fatto i fratelli in Mali” e ricordare che in ogni caso l’America non interverrà con truppe di terra, ma soltanto con l’aviazione.
L’Amministrazione Obama è costretta a confrontarsi in Siria non soltanto con l’esercito di Assad, ma anche con i gruppi di combattenti che controllano alcune zone del paese in nome di al Qaida – soprattutto nel nord, vicino al confine con la Turchia. Il 13 agosto il Foglio ha scritto che – secondo fonti dei ribelli – Washington ha aperto una base di droni in Giordania, notizia poi confermata da un accordo sulla “sorveglianza aerea” stretto quella settimana tra il capo di stato maggiore americano, Martin Dempsey, e il governo di Amman e non meglio specificato sui media. Ora si sono aggiunte altre fonti, che confermano l’esistenza della base di droni americana in Giordania e segnalano la presenza di droni anche in Turchia, nelle basi aeree di Izmir e di Incirlik. Le operazioni militari americane in Siria per ora esistono soltanto nel regno delle probabilità – anche se non tarderanno – ma quando diverranno reali avranno anche una fase B, contro i gruppi di al Qaida, che mai come nel paese spaccato dalla guerra civile sono stati così forti e impuniti. Già a marzo il Los Angeles Times aveva rivelato che la Cia ha creato una nuova unità per compilare la lista di nuovi bersagli dei droni in Siria: nomi, curriculum, posizione. Ora, come temono i jihadisti, Washington potrebbe colpire due bersagli con una sola passata.
Vale il precedente del marzo 2003, durante l’invasione dell’Iraq da parte dell’Amministrazione Bush, quando nel nord del paese furono distrutti i campi del gruppo estremista Ansar al Sunna, mentre nel resto del paese era in corso il grosso delle operazioni contro il governo di Saddam Hussein.
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