Appunti per una rivoluzione
Che succede se Bpm importa il modello Marchionne in banca
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. E’ nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie”. Questa frase del premio Nobel Albert Einstein è stata usata di recente dall’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, per dare il senso della rivoluzione da lui innescata quando, nel 2011, ha lasciato la Confindustria per ottenere la libertà di fare contratti su misura per ogni singolo stabilimento automobilistico italiano, attirandosi così reiterate condanne dal sindacato più intransigente, la Fiom, e da alcuni esponenti politici della sinistra radicale.
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. E’ nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie”. Questa frase del premio Nobel Albert Einstein è stata usata di recente dall’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, per dare il senso della rivoluzione da lui innescata quando, nel 2011, ha lasciato la Confindustria per ottenere la libertà di fare contratti su misura per ogni singolo stabilimento automobilistico italiano, attirandosi così reiterate condanne dal sindacato più intransigente, la Fiom, e da alcuni esponenti politici della sinistra radicale. La citazione risale alla Grande depressione degli anni Trenta ma è un consiglio che in questo momento potrebbero tenere a mente non solo gli industriali ma soprattutto i banchieri italiani se vogliono risolvere le inefficienze di un sistema economico appiattito per anni su interessi bottegai e ingabbiato da un sindacalismo spesso conservatore.
La chance d’impostare un sistema bancario adeguato agli sviluppi del mercato, concorrenziale, aperto all’ingresso di nuovi capitali e perciò più competitivo riguarda gli istituti di credito cooperativo: sono troppo grandi per sopportare le ingerenze dei dipendenti-soci nelle decisioni strategiche (è il difetto del modello cooperativo). Dovrebbero trasformarsi in società per azioni al fine di lasciare al management la gestione della banca: un processo evolutivo invocato del Fondo monetario internazionale già nel 2008, senza il quale diventa “necessario il ricorso al sostegno pubblico” (in effetti arrivato con i Tremonti bond). Finora le popolari si sono dimostrate refrattarie al cambiamento. L’apripista di questa – ipotetica – rivoluzione marchionnesca del credito potrebbe essere la Banca popolare di Milano che, mai come ora, è appoggiata con decisione dalla Banca d’Italia: il governatore Ignazio Visco ha più volte manifestato l’esigenza di un cambio d’assetto e una lunga ispezione dei funzionari dell’Istituto centrale all’interno della banca milanese ha evidenziato l’urgenza di trasformarsi in spa. Il presidente del consiglio di gestione, Andrea Bonomi, arrivato al vertice col beneplacito di Banca d’Italia nel 2011, ora ha spazio per impostare il nuovo modello, cosa che non gli era riuscita nel giugno scorso per via dell’alt dei sindacati. “La governance per noi è strategica ed è parte integrante del lavoro che bisogna fare in questa banca”, ha detto mercoledì comunicando agli analisti i risultati semestrali di Bpm, tornata in utile per 105 milioni a fronte di perdite per 131 milioni nello stesso periodo dell’anno precedente. Avere i conti in utile può consentire al management di affrontare con serenità il riassetto, scriveva MF/Milano Finanza, ma forse non è abbastanza per abbattere il muro eretto dai dipendenti in difesa dello status quo. Bonomi intende procedere celermente alla riorganizzazione, indiscrezioni dicono nei prossimi due mesi. O almeno vorrebbe farlo prima di lanciare l’aumento di capitale da 500 milioni di euro necessario a rimborsare i prestiti statali ricevuti con i cosiddetti Tremonti bond, entro la fine di quest’anno o all’inizio del prossimo.
L’arma possibile? Aumentare i salari
Il cantiere della spa insomma riparte (senza tappe precise). Bonomi però non ha aggiunto granché alla sua strategia, oltre all’intenzione già manifestata di conservare i tratti del modello cooperativo rafforzando il sistema di welfare aziendale. Il proiettile d’argento potrebbe consistere nel lasciare il contratto nazionale per farne uno ad hoc per Bpm. Dalla banca smentiscono ufficialmente, ma l’ipotesi è nell’aria da almeno una settimana. Eppure sarebbe un’arma diplomatica più morbida rispetto al muro contro muro visto nei mesi scorsi: derogare al contratto nazionale dell’Associazione bancaria italiana (Abi), la Confindustria delle banche, darebbe più flessibilità ai dirigenti con, ad esempio, la possibilità di aumentare i salari in autonomia nell’ambito di un processo di contrattazione decentrata; cosa a cui i lavoratori difficilmente potrebbero opporsi (pecunia non olet). I sindacalisti rabbrividiscono all’idea di abbandonare il contratto concertato con l’Abi in scadenza a giugno 2014 (“è sicuro, non c’è nessuna esigenza di modificarlo, è un’opportunità per garantire i lavoratori”) sebbene non sia considerato il migliore risultato possibile (i salari sono rimasti adeguati all’inflazione ma sono state temporaneamente ridotte le voci utili a calcolare il tfr, al fine di contenere il costo del lavoro). Quella di Bpm sarebbe una scelta dirompente in un sistema bancario statico, se mai dovesse accadere.
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