Il nuovo Gromyko
Sergei Lavrov è più elegante degli altri colleghi che stanno al Cremlino. D’accordo, i capelli sono grigi, ma l’andatura è composta, il corpo è asciutto e poche rughe gli attraversano la fronte. Raramente sorride in pubblico, ed è ancora più raro che lo faccia senza sarcasmo. Chi lo conosce dice che non è cambiato molto dal 2004, l’anno in cui Vladimir Putin lo ha scelto come ministro degli Esteri, con la sola differenza che oggi Lavrov è una specie di star della politica internazionale: il suo nome si trova ogni giorno sui quotidiani di mezzo mondo – qualcuno dovrebbe chiedersi se la Russia ha ancora un premier – dopotutto è lui che tiene sulla scrivania i dossier decisivi, come quello sulla Siria.
“Le nostre decisioni dovrebbero seguire due obiettivi. Il primo è mantenere la Russia al di fuori da ogni tipo di complicazione esterna che possa distrarre i nostri sforzi dallo sviluppo interno. Il secondo è fare in modo che non avvenga alcun cambiamento in Europa – né di tipo territoriale, né per quel che riguarda la bilancia dei poteri – che danneggi i nostri interessi e la nostra situazione politica. Se ci atterremo a questi due obiettivi, potremo sperare che la Russia recuperi dalle sconfitte, che diventi forte e abbia nuovamente la sua posizione, l’autorità e l’influenza che le spettano sulle altre potenze straniere. La Russia riuscirà a conquistare questo spazio soltanto sviluppando la sua forza interna, che in questo tempo è l’unica vera fonte di potere per uno stato” (Alexandr Gorchakov, cancelliere russo, 1798-1883)
Sergei Lavrov è più elegante degli altri colleghi che stanno al Cremlino. D’accordo, i capelli sono grigi, ma l’andatura è composta, il corpo è asciutto e poche rughe gli attraversano la fronte. Raramente sorride in pubblico, ed è ancora più raro che lo faccia senza sarcasmo. Chi lo conosce dice che non è cambiato molto dal 2004, l’anno in cui Vladimir Putin lo ha scelto come ministro degli Esteri, con la sola differenza che oggi Lavrov è una specie di star della politica internazionale: il suo nome si trova ogni giorno sui quotidiani di mezzo mondo – qualcuno dovrebbe chiedersi se la Russia ha ancora un premier – dopotutto è lui che tiene sulla scrivania i dossier decisivi, come quello sulla Siria. La sua missione è un intreccio bizantino, un giorno chiama Londra per chiedere ai colleghi inglesi di avere pazienza, e il giorno dopo dice ai giornalisti che le notizie sulle armi chimiche sono una farsa bella e buona, lancia accuse all’occidente, si ferma un momento prima di chiamare “isterici” Barack Obama, David Cameron e François Hollande, quelli che organizzano l’intervento militare contro Damasco. Un suo collega, qualche giorno fa, ha paragonato le mosse degli Stati Uniti in medio oriente a quelle di “una scimmia che tiene in mano una granata”. Lavrov è più sottile, non si lascia andare alle offese gratuite, in primavera gli hanno domandato che cosa avesse da dire a chi gli rinfaccia di tirare il freno ogni volta che si parla di un’azione in Siria e lui ha risposto con una battuta sibillina: “Credo che molti mi stiano ringraziando a Washington e Bruxelles”, come dire che nessuno ha troppa voglia di morire per Damasco, e in fin dei conti gli stop che arrivano da Mosca non sono una tortura. Il voto contrario del Parlamento britannico alla missione militare mostra che non aveva tutti i torti.
In ogni caso, sarebbe un errore pensare che Lavrov abbia davvero in mente di difendere Bashar el Assad, perché l’unica cosa che gli importa davvero è la Russia. Voce piatta e sguardo duro, quest’uomo rappresenta con ogni espressione, con ogni sguardo, con ogni flessione delle labbra la faccia della Russia sulla scena internazionale. Dalla guerra del gas con l’Ucraina a quella più concreta con la Georgia, dall’invasione della Libia alle rivolte più recenti in Egitto, non c’è leader europeo uscito sano e salvo da uno scontro con Lavrov. Lui dice che l’ideologia non c’entra niente: per uno nato negli anni Cinquanta e cresciuto nei ranghi della diplomazia al tempo di Breznhev, il realismo è l’unica strada possibile. “Non credo nella dottrina quando si parla di politica estera – ha detto di recente in una intervista – Come sapete ho cominciato questa carriera ai tempi dell’Unione sovietica, ma posso assicurare che, nonostante l’ideologia fosse al centro dell’agenda, il nostro approccio è sempre stato pragmatico. E lo stesso vale oggi”. Le sue promesse si fermano dove cominciano gli interessi del Cremlino, il sostegno al satrapo di turno si offusca improvvisamente di fronte a nuove opportunità, nei suoi discorsi non affiora mai la differenza fra la storia della Russia e la storia dei russi, un tema piuttosto popolare in patria (una volta è arrivato a definire il paese una “potenza musulmana”, dato che l’islam è la seconda religione in Russia con un numero di fedeli che oscilla fra i nove milioni delle stime nazionali e i venti messi in conto dai centri di ricerca stranieri). E Lavrov non è uscito dal nulla. La sua carriera è cominciata negli anni Settanta con un incarico nello Sri Lanka (allora l’isola aveva sciolto i legami con l’Impero britannico e s’avvicinava all’orbita del socialismo) ed approdata a New York, nella sede dell’Onu, un posto centrale per le strategie della diplomazia sovietica (il paese ha sempre avuto un seggio nel Consiglio di sicurezza, con relativo diritto di veto sulle decisioni finali). Il suo nome circola da quegli anni nei club più quotati della diplomazia. Alle Nazioni Unite lo ricordano per le battute audaci, per la capacità di dominare le riunioni, di fissare le sue priorità al centro del dibattito. E per le gite nel Vermont, per le sigarette e le bevute con i colleghi (“era ubrico ben prima di mezzogiorno”, ha detto di lui un vecchio diplomatico; “beve come un pesce”, ha commentato un altro). Pare che l’Onu non abbia mai rischiato di perdere i contatti con la delegazione russa come nel 2003, quando Kofi Annan vietò di fumare negli uffici di Turtle Bay (qualcuno ha sentito Lavrov urlare “questo palazzo non è il suo” all’ex segretario generale).
Susan Glasser di Foreign Policy ha chiesto ad alcuni diplomatici americani che cosa pensassero di Lavrov, e la risposta più frequente (“he’s a complete asshole”) lascia pochi dubbi sull’opinione generale. Un ex ambasciatore alle Nazioni Unite, John Negroponte, dice che Lavrov ha soltanto due obiettivi: uno è usare il veto per l’onore della Russia, l’altro è danneggiare gli Stati Uniti ogni volta che si presenta l’occasione. Secondo David Kramer, che è stato sottosegretario con George W. Bush e oggi lavora alla Freedom House, Lavrov è una specie di Gromyko dei tempi moderni, con i suoi abiti italiani e il “nyet” compulsivo. In un certo senso Lavrov somiglia a Gromyko, l’uomo che ha avuto in pugno la politica estera dell’Unione sovietica per trent’anni, dall’epoca di Nikita Krushev sino all’ascesa di Mikhail Gorbacev. Anche Gromyko era stato ambasciatore alle Nazioni Unite e negli anni a New York si era guadagnato il soprannome di “Mister Nyet”, di “signor no”, un titolo che tintinnava come una medaglia nella Russia di quel tempo. Gromyko usava il diritto di veto come nessun altro nel Consiglio di sicurezza, nei primi dieci anni dell’Onu l’Unione sovietica aveva fatto ricorso a quell’espediente per 79 volte, mentre la Francia si era fermata a due, la Cina a uno, e gli altri paesi non lo avevano usato affatto. Gromyko teneva sottobraccio i fascicoli più rischiosi, era stato il messaggero di Krusciov in America durante la crisi di Cuba, nel ’58 gli era toccato il compito di convincere Mao che era inutile sacrificare “trecento milioni di vite umane”, come andava dicendo il leader cinese, per riprendere l’isola di Taiwan. Il punto è che Lavrov non sembra per niente un oscuro burocrate da comitato centrale, lui scrive poesie, ama la musica e lo Spartak di Mosca, i colleghi all’Onu gli rubavano le vignette che disegnava nelle riunioni meno interessanti. Insomma, è un tipo sin troppo passionale rispetto a quel che si possa pretendere da un ufficiale del potere russo. Ed è anche per questo che non tiene in ufficio un ritratto di Gromyko ma un busto di Alexandr Gorchakov, il principe russo che ha studiato con il poeta Pushkin ed è stato cancelliere dello zar per buona parte del grande Ottocento. Gorchakov è conosciuto soprattutto per una frase che sembra uscita da un libro di proverbi dell’oriente (“La Russia non è imbronciata, la Russia si sta concentrando”, disse dopo la sconfitta nella guerra di Crimea), ma è anche stato il primo a parlare di “sovranità della Russia” e a comprendere che la diplomazia non andava intesa come un servizio semifeudale tarato soltanto sui desideri dello zar. Il suo approccio ha modellato la diplomazia russa dei secoli a venire (a Mosca si parla di “Posolsky Prikaz”, l'ufficio delle ambasciate”): è una dottrina che poggia sul pilastro robusto dello status quo, privilegia la stabilità, punta all’equilibrio anche a scapito dei valori. La priorità, per Gorchakov, era impedire che i cambiamenti in Europa potessero influenzare la politica interna, che potessero avere ripercussioni negative sulla società russa. Secondo Lavrov, questo statista ha avuto l’indubbio merito di ricostruire la reputazione del paese dopo una catastrofe militare senza usare fucili e cannoni. Così, da qualche anno a questa parte, le conferenze e gli studi sul ruolo di Gorchakov nella storia della nazione sono frequenti come le feste per i santi, persino Putin nel 2012 ha scritto un lungo articolo sul quotidiano Izvestija che s’intitolava come quel vecchio motto: la Russia non rimugina, la Russia riflette. I tempi sono diversi, ma non è difficile individuare analogie con l’atteggiamento del Cremlino rispetto al dossier siriano.
Se “Mad Men” avesse una versione russa, Lavrov potrebbe vestire i panni di Don Draper, l’uomo d’affari elegante e cinico che affronta le donne come se fossero i clienti della sua agenzia pubblicitaria. Anche il suo ufficio sarebbe una buona location per una puntata della serie televisiva: si trova in un palazzo gotico fatto costruire da Stalin nel centro di Mosca, una torre di 170 metri che segna il cielo della capitale con altre sei sorelle praticamente identiche, con uffici pieni di pratiche e centinaia di assistenti, di impiegati e di analisti sottopagati (la cosa più frequente che si sentono rispondere i reporter stranieri quando inoltrano richieste via email è la seguente: potete mandarci le vostre domande via fax?). Si dice che Lavrov avesse buoni rapporti con Condoleezza Rice, il segretario di stato di George W. Bush, e che sia riuscito a mandare all’aria tutto quanto in poco tempo, in maniera abbastanza gratuita. Glenn Kessler, il reporter del Washington Post che si occupa di diplomazia, dice che Lavrov aveva il supremo talento di mettere Rice in imbarazzo, “sapeva esattamente quale tasto premere per mandarla su tutte le furie”. E Condoleezza Rice ha avuto poca pietà per il collega quando ha scritto le sue memorie: lo ha descritto come un vecchio ufficiale del partito comunista, uno che s’è fermato al ’91 mentre il resto del mondo andava avanti. Non è andata meglio con Hillary Clinton, che doveva ricostruire i rapporti con i russi per conto di Barack Obama. Ma nessuno ha sofferto quanto John Kerry: ad aprile, nella sua visita a Mosca, Putin e Lavrov lo hanno ricevuto con tre ore di ritardo, così ha passato un pomeriggio nella Piazza Rossa assieme alle guardie del corpo e qualche fotografo prima che qualcuno si degnasse di aprirgli le porte del Cremlino. Se esiste davvero un linguaggio della diplomazia, i rapporti fra Mosca e Washington hanno toccato con quel viaggio il punto più basso degli ultimi anni.
I diplomatici americani non sono gli unici ad avere accusato il colpo delle sue provocazioni. Nell’agosto del 2008 i soldati russi arrivarono a trenta chilometri da Tbilisi dopo uno scontro di otto giorni contro l’esercito della Georgia. Allora il presidente francese era Nicholas Sarkozy e fu lui a volare a Mosca per fermare la guerra: dopo ore di trattative, dal Cremlino arrivò il via libera per la tregua. Ma i russi non abbandonarono immediatamente la Georgia, i blindati dell’esercito continuarono ad occupare il territorio per qualche giorno nonostante gli accordi firmati a Mosca. Al loro primo incontro dopo la crisi, Sarkozy avvicinò Lavrov, lo tirò per la giacca, gli disse che era un bugiardo davanti a un buon numero di testimoni, gli fece notare che le sue promesse senza seguito stavano mettendo in crisi lo status di “superpotenza” della Francia. Questo spirito da duro piace soprattutto ai ministri dei paesi emergenti, quelli che cercano un esempio al quale appellarsi per combattere le loro battaglie sui mercati dell’occidente.
Il portavoce del ministero, un tipo alto e robusto di nome Aleksandr Lukashevich, dice che Lavrov è “l’uomo perfetto” per il ministero degli Esteri e in effetti guardandolo si ha l’idea che quest’uomo avrebbe potuto guidare in ogni tempo la diplomazia russa, dall’epoca degli zar sino ai giorni dell’Unione sovietica. A Mosca la politica estera non è soltanto un affare di protocolli e carte bollate: i merletti e i carteggi e le cene con quattro bicchieri hanno formato una specie di culto intorno alla diplomazia, oggi quel ministero è uno stato nello stato, una coscienza profonda dello spirito russo, una specie di tempio della conservazione. L’ex ministro Igor Ivanov dice che la Russia può cambiare leader e sistema di governo, può avere confini diversi rispetto al passato, ma le sue scelte di politica internazionale resteranno sempre uguali. “Venti secoli di storia insegnano che, anche nei periodi di grandi mutamenti, la politica estera e la diplomazia rappresentano sempre gli interessi e gli obiettivi basilari di una nazione – ha scritto sul suo libro, “The New Russian Diplomacy”, pubblicato negli Stati Uniti da Nixon Center e Brookings Institution Press – Dato che l’Unione sovietica non è uscita dalla storia per una sconfitta militare o per una rivoluzione violenta, la Russia ha potuto mantenere gli elementi positivi che venivano dalla tradizione: il nuovo ordine democratico ha lasciato praticamente intatti apparati, agenzie e scuole avute in eredità dal passato”. E la fine del comunismo ha offerto a Putin la grande chance di scavare ancora più a fondo, da Gromyko sino al principe Gorchakov, per l’onore della Russia. Lavrov è il nuovissimo esemplare della categoria, ma la sua missione è senza tempo. Probabilmente ha ragione chi dice che non è cambiato più di tanto dal 2004, da quando Putin lo ha voluto accanto a sé, nel ministero degli Esteri, con il compito esistenziale di ridare credibilità a un paese sfiancato dalla guerra in Cecenia e dalla crisi economica. In fin dei conti, nulla è davvero cambiato in quel palazzo gotico nel centro di Mosca.
Una volta, parlando di fronte a un gruppo di giornalisti americani, Krusciov si lasciò scappare una frase da sbruffone verso il suo ministro degli Esteri. “Quando dico a Gromyko di levarsi i pantaloni e di sedersi su un cubo di ghiaccio lui lo fa, e resta seduto sino a quando gli do il permesso di alzarsi”. Gromyko, a quanto si racconta, ascoltò senza dire una parola. Forse Lavrov non avrebbe avuto tutta quella calma.
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