Le euro-domande da non fare a una Germania senza visione

Andrea Affaticati

“L’Europa è in un momento particolare. Lo è per via dell’eurocrisi. Una crisi che, a tutt’oggi, nessuno sa veramente ancora dove ci porterà. Ma se per un attimo si lasciano da parte i problemi economici, allora ci si renderà conto che l’Europa è in un momento particolare anche per un altro motivo: per la prima volta nella storia di questo continente non ci sono ideologie, ma nemmeno utopie, a dettare la direzione di marcia”. Bernd Roeck, storico tedesco, docente presso l’Università di Zurigo, prova ad affrontare le aspettative (molte) che il resto d’Europa ha sulle elezioni tedesche del 22 settembre da un altro punto di vista.

    “L’Europa è in un momento particolare. Lo è per via dell’eurocrisi. Una crisi che, a tutt’oggi, nessuno sa veramente ancora dove ci porterà. Ma se per un attimo si lasciano da parte i problemi economici, allora ci si renderà conto che l’Europa è in un momento particolare anche per un altro motivo: per la prima volta nella storia di questo continente non ci sono ideologie, ma nemmeno utopie, a dettare la direzione di marcia”. Bernd Roeck, storico tedesco, docente presso l’Università di Zurigo, prova ad affrontare le aspettative (molte) che il resto d’Europa ha sulle elezioni tedesche del 22 settembre da un altro punto di vista. Perché il fatto che la Germania in questo momento sia la locomotiva europea e abbia un’economia che va alla grande non è, a suo avviso, motivo sufficiente per aspettarsi grandi idee e nuove visioni. “Il che porta automaticamente a chiedersi cosa innesti invece i grandi momenti di cambiamento. Ci si può chiedere se il Muro la sera dell’11 novembre 1989 sarebbe caduto com’è caduto senza il famoso ‘biglietto di Schabowski’, senza cioè quella interpretazione, rivelatasi poi sbagliata, che da quel momento in poi i cittadini della Ddr potevano recarsi all’estero”.

    Insomma ci si può chiedere quale debba essere la miscela ideale tra casualità, politica e volontà popolare. Domande suggestive, indubbiamente, ma in quanto storico, Roeck preferisce esaminare con meno enfasi la situazione. La ratio della costituzione dell’Unione europea, spiega, era quella di impedire che il continente potesse essere nuovamente devastato da una guerra. Una ragione d’essere pienamente realizzata. Quello che affligge oggi l’Europa sono problemi economici. Pensare però che l’economia diventi primariamente uno strumento di pace – come un certo pensiero europeo sembra ritenere, avanzando così richieste “politiche” ai paesi più ricchi – è agli occhi di Roeck alquanto bizzarro.
    Eppure oggi è l’economia a dettare le agende politiche: il pragmatismo economico ha dunque spazzato via l’agire politico? E’ una domanda che viene spontanea guardando alla campagna elettorale tedesca: i programmi delle due maggiori formazioni politiche, Unione (Cdu e Csu) e Spd, non si distinguono granché tra loro; la maggioranza dell’opinione pubblica, poi, vedrebbe con favore di nuovo una Grande coalizione. E’ come se il monito del Dopoguerra del cancelliere cristiano-democratico Konrad Adenauer, “niente esperimenti”, fosse tornato di nuovo di grande attualità. Si potrebbe dire che la prudenza di allora era giustificata dal fatto che la Germania era materialmente e moralmente un cumulo di macerie. Una veloce carrellata dei cancellieri tedeschi mostra però che la maggior parte di loro era più propensa al pragmatismo che alle visioni. Eccezion fatta per Willy Brandt e la sua Ostpolitik. Il socialdemocratico Helmut Schmidt, che oggi incita Angela Merkel a tracciare un progetto europeo di ampio respiro, quando era cancelliere usava dire, ai suoi compagni di partito troppo immaginifici: “Chi ha visioni, vada dal medico”. Anche Helmut Kohl fino a un certo punto non si era distinto per “grandi progetti”. La Ostpolitik l’aveva ereditata, e pur sperando nella Glasnost e nella Perestroika di Gorbaciov, era stato colto di sorpresa, come il resto del mondo, dalla caduta del Muro. Il suo indubbio merito è invece quello di aver insistito testardamente sull’unificazione (“pagandola, peraltro, con la cessione del marco tedesco”, annota Roeck). Un’insistenza che però era supportata dalla volontà popolare.

    Più lungimirante, e certo più coraggioso da questo punto di vista, Gerhard Schröder. Anche lui non era mosso da visioni, ma dal crescente problema della disoccupazione. Ma gli va dato atto che ha avuto il coraggio di andare contro il suo partito, ancora prima che contro l’elettorato; che si è giocato il ruolo di cancelliere per far passare la sua riforma dello stato sociale e del mercato del lavoro. Una partita politica che lui personalmente ha perso, ma dalla quale il paese ha enormemente guadagnato.
    Di partite così se ne dovrebbero giocare altre. E questo 2013 vi si presterebbe bene: l’Spd festeggia i suoi 150 anni; il trattato dell’Eliseo, con il quale nel 1963 si poneva fine alla storica inimicizia tra Francia e Germania, compie invece 50 anni. “In quell’occasione De Gaulle aveva parlato di un’Europa unita delle diverse patrie” ricorda Roeck “mentre in Germania si preferiva l’idea di una confederazione europea”. Per il cinquantesimo anniversario non c’è stato invece nessun discorso memorabile. Nessuna grande idea di futuro, nessuna frase storica  come quella, rivolta sempre da De Gaulle, ai giovani tedeschi, nella quale li sollecitava a essere orgogliosi di essere figli di un paese che aveva fatto sì errori tragici nella storia, ma aveva dato anche un contributo straordinario alla cultura, alle scienze, alla filosofia.

    Non c’è più nessuno, in Germania e nemmeno in Europa, capace di tenere discorsi di questo spessore. “Forse perché noi occidentali viviamo, se così si può dire, nella migliore delle società immaginabili”, azzarda come spiegazione Roeck. Una società che certo è caratterizzata da molte disuguaglianze, ma ciò nonostante, sempre partendo dalla prospettiva storica, “ha raggiunto pressoché tutto quello che è auspicabile una società civile raggiunga: i diritti dell’uomo, l’eguaglianza tra i sessi, la libertà religiosa e via dicendo”. Qualche settimana fa, la Zeit si chiedeva se i tedeschi non abbiano, in fondo, la campagna elettorale che si meritano. Cioè una campagna pigra, senza cavalli di battaglia, senz’anima, senza un vero contenzioso. Secondo Bernd Ulrich, l’editorialista del settimanale, no, si trattava di una critica ingiusta. Perché non è affatto vero che in  questa legislatura che si sta per chiudere non sia stato fatto nulla, non vi siano state riforme e cambiamenti. Tutt’altro: a cominciare dalla rivoluzione energetica, con la chiusura delle centrali nucleari, indotta dal disastro di Fukushima; e ancora la riforma dell’esercito e l’abolizione della leva obbligatoria. E ovviamente le misure prese – benché secondo la maggior parte degli europei troppo poche, sterili e “avare”, e senza dubbio prese controvoglia – per contrastare la crisi dell’Eurozona. I tedeschi sono stanchi di riforme, scriveva Ulrich. E i politici lo sanno. “Come ha detto l’altro giorno Seehofer”, conclude Roeck: “Io rispondo innanzitutto all’elettorato”: E l’elettorato tedesco, ora come ora, vuole ri-occuparsi del proprio paese: “Meglio i ristretti ma rassicuranti confini nazionali, che gli incerti spazi e confini europei”.