Séamus Heaney e quel ghiaccio da affrontare col bastone di un padre

Edoardo Rialti

Un uomo fissa la strada innevata e scivolosa, e pensa: “Selciato pericoloso. / Ma quest’anno affronto il ghiaccio / col bastone di mio padre”. Pochi versi, eppure sono questi il mondo e lo sguardo di Séamus Heaney (morto ieri a 74 anni), ciò per cui egli ha sempre e comunque “dato credito alla poesia”. Quando ricevette il Nobel per la Letteratura, nel 1995, tra tutte le immagini cui paragonare la propria sensibilità e la propria vita artistica ne scelse una ben diversa dall’eroico resoconto del Movimento irlandese, con cui il suo compatriota Yeats iniziò settant’anni prima.

    Un uomo fissa la strada innevata e scivolosa, e pensa: “Selciato pericoloso. / Ma quest’anno affronto il ghiaccio / col bastone di mio padre”. Pochi versi, eppure sono questi il mondo e lo sguardo di Séamus Heaney (morto ieri a 74 anni), ciò per cui egli ha sempre e comunque “dato credito alla poesia”. Quando ricevette il Nobel per la Letteratura, nel 1995, tra tutte le immagini cui paragonare la propria sensibilità e la propria vita artistica ne scelse una ben diversa dall’eroico resoconto del Movimento irlandese, con cui il suo compatriota Yeats iniziò settant’anni prima: lui e i suoi piccoli coetanei della Derry degli anni Quaranta, “astorici, presessuali, in bilico tra l’arcaico e il moderno, eravamo suscettibili e impressionabili come l’acqua potabile dentro un secchio nel retrocucina: tutte le volte che il passaggio di un treno faceva scuotere la terra, la superficie di quell’acqua si increspava delicatamente, concentricamente, e in assoluto silenzio”. E in fondo questo è stato l’effetto del treno della scrittura negli anni a venire: “Perché la poesia può creare un ordine fedele all’impatto della realtà esterna e rispondente alle leggi interne dell’essere del poeta quanto le onde che si increspano verso il centro e verso la conferenza della superficie dell’acqua in quel secchio del retrocucina”.

    Niente di più, penserebbero molti, mentre Heaney avrebbe detto niente di meno. Egli che avrebbe sempre amato gli scrittori “artigiani” come Robert Frost “per la sua precisione da contadino e per il suo ingegnoso stare con i piedi per terra” si sarebbe a sua volta descritto “piegato per anni sullo scrittoio come un monaco curvo in preghiera”, magari nella scomoda letizia di quel San Kevin di cui amava la leggenda che lo vedeva immobile per non rompere le uova depositate nella sua mano, in attesa della schiusa. Tutto questo attorniato – da irlandese e uomo del Novecento – dalla possibile spirale della “continua violenza politica e di pubbliche aspettative. Pubbliche aspettative, va detto, non di poesia in quanto tale, ma di posizioni politiche che, in vario modo, trovassero l’approvazione di gruppi tra loro antagonisti”. Egli ha resistito ed è rimasto “né internato né relatore: / sono un emigrato interno, capelli lunghi e tanti pensieri; un fante di foresta / scampato al massacro / che si protegge con il colore / del tronco e della corteggia, che avverte / ogni vento che soffia”.

    Certo “a volte è difficile allontanare il pensiero che la storia sia istruttiva quanto un mattatoio; che avesse ragione Tacito e che la pace non sia altro che la desolazione che resta al termine delle operazioni decise dal potere senza pietà”; ma per Heaney “vedere cose” e cantarle in versi, leggere “la stranezza visionaria di T. S. Eliot”, tradurre Virgilio o “Beowulf” e scrivere a sua volta del cielo e delle contee allagate, e lepri inghiottite dalla neve non ha mai perso “la forza di persuadere la parte vulnerabile della nostra coscienza di essere nel giusto, a dispetto di tutte le ingiustizie che le sono intorno; la forza di ricordarci che siamo cacciatori e raccoglitori di valori e che le nostre stesse solitudini e angosce sono degne di credito, nel senso che esse, pure, sono un pegno della nostra autentica umanità”. Sosteneva che “tremila anni dopo” anche se “con il telecomando passiamo da un canale televiso all’altro… ben informati eppure sull’orlo di diventare indifferenti” Demodoco continua a far piangere Ulisse al banchetto. Egli amava come Samuel Johnson parlava della “stabilità della verità”: il ghiaccio del male, della violenza, dalle false sollecitazioni resta scivoloso, ma il bastone di qualche padre c’è. Niente di più, ma niente meno.