Tutta un'isola pedonale
Un Gran Tedesco come Johann Wolfgang Goethe, in viaggio lungo questa Italia consumata dalla lunga recessione, come troverebbe “il paese dove fioriscono i limoni”? In mezzo a quali rovine si farebbe ritrarre, invece dei templi e delle urne coperte di mirto e alloro? Ebbene, immaginiamo il poeta che lascia oggi Weimar da lui stesso amministrata e rinata a miglior vita dopo la fine del comunismo, gremita di ingegneri e architetti sfornati dalla Bauhaus Universität; scende lungo l’Autobahn gremita di Volkswagen, Audi, Mercedes e Bmw; attraversa le Alpi dove si parla tedesco fino a Rovereto e, giunto alla pianura sorvegliata dalla opulenta Verona, scopre che una leva di menti creative ha preso il comando per trasformare comuni, città, regioni, dalla provincia del nord ai borghi del centro, dalle metropoli del sud fino alla capitale.
Un Gran Tedesco come Johann Wolfgang Goethe, in viaggio lungo questa Italia consumata dalla lunga recessione, come troverebbe “il paese dove fioriscono i limoni”? In mezzo a quali rovine si farebbe ritrarre, invece dei templi e delle urne coperte di mirto e alloro? Ebbene, immaginiamo il poeta che lascia oggi Weimar da lui stesso amministrata e rinata a miglior vita dopo la fine del comunismo, gremita di ingegneri e architetti sfornati dalla Bauhaus Universität; scende lungo l’Autobahn gremita di Volkswagen, Audi, Mercedes e Bmw; attraversa le Alpi dove si parla tedesco fino a Rovereto (proprio come ai tempi del grande Volfango che non vedeva l’ora di “praticare l’italiano, l’amata lingua”) e, giunto alla pianura sorvegliata dalla opulenta Verona, scopre che una leva di menti creative ha preso il comando per trasformare comuni, città, regioni, dalla provincia del nord ai borghi del centro, dalle metropoli del sud fino alla capitale. Un comico ha suonato la grancassa e dal buen retiro invia pensieri digitali, perché i suoi adepti hanno sempre bisogno di essere guidati come fanciulli. Ma non c’è solo lui, naturalmente: un iconoclasta spirito del tempo aleggia sulle torri eburnee del pensiero e dell’azione, tanto che nella piccola Atene della Maremma, sempre sensibile al mutar del vento, marchesi intellettuali, principi gauchiste, filosofi, politici e scrittori, tutti membri robusti seppur critici della classe dominante, hanno assegnato il premio Capalbio a Serge Latouche l’ex maoista inventore della decrescita felice. Lui ringrazia: “All’Italia serve la bancarotta”. E bancarotta sia.
I nuovi italiani, dediti alla ospitalità che li ha resi più o meno giustamente famosi nel mondo, potrebbero fare a meno di fabbriche venefiche, automobili mortifere, treni proiettile, aerei seminatori di lutto, ciminiere cancerogene, molecole mutanti. Una società salutista, vegetariana, anzi vegana, una generazione lenta, slow food, slow life. Non si fuma tabacco nemmeno in presenza di se stessi, ma spinello libero in compagnia. Un arcipelago di isole pedonali e piste ciclabili. Provocazione, polemica senza costrutto? Non proprio.
L’olimpico Volfango non ha mai visitato Torino al contrario di un altro grande tedesco, Friedrich Nietzsche che ci abitò tra il 1888 e il 1889 e vi scrisse l’“Ecce homo”, “Il caso Wagner” e le ultime eclatanti opere, prima del tracollo che lo spinse nella patria di Goethe, a Weimar, dove morì. Tra celia e follia, sosteneva addirittura di essere lui il vero autore della Mole non l’architetto Alessandro Antonelli: “E’ l’edificio più geniale che sia stato costruito non rammento niente di simile tranne il mio Zaratustra”, scrisse in un raptus di entusiasmo. Ammiratore di quella “città seria e dignitosa”, il più implacabile decostruttore della civiltà occidentale, in quello stesso anno, all’Accademia delle scienze di Torino poteva assistere alla presentazione del campo magnetico rotante scoperto da Galileo Ferraris che ha aperto la strada al motore elettrico e alle sue innumerevoli applicazioni.
Ebbene, che cosa vedrebbe oggi un nuovo Nietzsche, là dove pulsava il cuore e la mente della vecchia Italia, quella che si era messa in testa di tenere il passo con la Francia degli Eiffel e con la Germania dei Daimler? Il Lingotto, la fabbrica modello, monumento architettonico all’era dell’automobile, è insieme un museo, un albergo, un centro commerciale, con accanto ancora per poco gli uffici della Fiat in trasloco verso Londra e Detroit. E com’è ridotta Mirafiori? In quella gigantesca area di due milioni di metri quadrati entravano 40 mila uomini e donne ogni giorno, a partire dalle 6 in punto; una gran folla, e proprio come nella “Terra desolata” di T. S. Eliot “ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi”. Gli immensi capannoni sono quasi tutti vuoti, semideserti i 20 chilometri di binari e gli 11 chilometri di strade sotterranee. Un mondo brulicante di fatica, logorante e creativa assieme, si spegne, nonostante il tentativo di salvarlo con denari pubblici. Otto anni fa, una società degli enti locali (con il 10 per cento della Fiat) ha rilevato 300 mila metri quadrati di Mirafiori da utilizzare per altre aziende industriali. Costo 70 milioni di euro. In cambio, Marchionne prometteva di montare 80 mila Grande Punto l’anno. Oggi cinquemila lavoratori producono solo la MiTo, per tre giorni al mese, il resto sono in cassa integrazione straordinaria fino a settembre, ma l’azienda ha chiesto la proroga per un altro anno. Poi, chissà, forse faranno Jeep. O forse nulla. Un salto di paradigma. Isola pedonale anche Torino? Certo è che al “Cambio”, il ristorante favorito di Cavour e degli Agnelli, ormai si parla solo di “rinascita post industriale”.
Poco più in là, verso nord est, c’è la val di Susa. Le acciaierie hanno chiuso da tempo, sono finite l’una in India e l’altra in Russia. Del treno veloce che doveva collegare Torino a Lione ci sono i buchi nelle montagne. Secondo il nuovo Zeitgeist sono ottime caverne dove coltivare eccellenti funghi. La valle dovrebbe tornare all’antica vocazione agricola e alberghiera, e si potrebbe raggiungere anch’essa in bicicletta o con un treno locale. E’ vero, ci vuole una vita, ma l’Italia del dopo crisi ha deciso di rallentare. L’Unione europea traccia collegamenti avveniristici dalle rive dell’Atlantico agli Urali? Balle, “inutili e dannose”. Non serve la Tav perché le merci che passano per la strada ferrata sono meno di quelle che percorrono le strade asfaltate. Sarà perché manca la domanda o non c’è l’offerta, cioè un sevizio rapido, affidabile, efficiente, meno costoso e a conti fatti anche meno inquinante di camion, tir, van e suv, insomma del trasporto su gomma? Fioccano argomenti e spiegazioni ad hoc fornite dai no Tav, ma forse non ce n’è nemmeno bisogno quando la fede non cerca il nutrimento della ragione.
Il “paese dei limoni” non tesse solo l’elogio alla lentezza, è anche il tripudio dei no. Dalla parte opposta, a mille e seicento chilometri di distanza, nella campagna di Niscemi (provincia di Caltanissetta) i no Muos, gli avversari del super radar americano, hanno issato la loro bandiera, nutrita da sentenze del Tar, proteste, politici pro, politici contro e politici pro e contro come Rosario Crocetta il presidente della regione che passa dal no al sì a giorni alterni. Il 24 agosto è arrivata la polizia a sgomberare il presidio. Apriti cielo. La Sicilia unita dice no alle violenze e agli americani, titolano i giornali locali. E pensare che quel visionario di Andrea Finocchiaro Aprile con il suo Movimento indipendentista, nel 1943, evocava il sogno che la Trinacria diventasse un’altra stella nella bandiera degli Stati Uniti.
La Sicilia oggi è un deserto industriale. Lo stabilimento di Termini Imerese aperto dalla Fiat nel 1970 e chiuso nel 2011, è una landa desolata. Doveva diventare un polo tecnologico, si era detto basta con la monocultura produttiva, è bene che la Fiat se ne vada così faremo vedere come si fanno le automobili o magari, perché no, i pannelli solari. S’è visto. “In Sicilia si trova la chiave di tutto” e in particolare dell’Italia, scriveva il grande Volfango; aveva ragione. Palermo piena di immondizia e di bottegucce cinesi è anch’essa l’utopia e il suo doppio, il lato oscuro di una società che s’illude di vivere senza produrre le cose buone che piacciono al mondo e che sono l’essenza dello sviluppo, come diceva lo storico Carlo Maria Cipolla.
A Taranto è scoppiata un’altra protesta contro due nuove discariche per i rifiuti speciali. Debbono ripulire l’Ilva, l’acciaieria della grande discordia, ma sono bloccate da obiezioni di procedura e di sostanza. Persino l’ecologo Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente e oggi subcommissario per l’Ilva, perde la pazienza: “Non ci si può chiedere di accelerare la bonifica e poi pretendere procedure che allungano i tempi”. Ingenuo. Proprio questo è l’obiettivo. Rallentare, prendere tempo, spegnere gli altiforni con gli ardori di un’utopia antindustriale. Niente discariche perché non c’è più nulla da scaricare e gli impianti della maggiore acciaieria d’Europa sono ridotti a scheletri del passato. Il 14 aprile scorso si è svolto un referendum per la chiusura del centro siderurgico, hanno partecipato 33.838 cittadini, il 19,5 per cento della popolazione, dunque non è stato raggiunto il quorum. Ma non importa. “O si risana o si chiude”, commenta Franco Lunetta di Legambiente senza nemmeno leccarsi le ferite. E Taranto futura? Una città verde, un parco ecologico. Senza degassificatori, senza inceneritori, senza particelle elementari vaganti nell’aria. Un nuovo mondo armonioso come in Scandinavia. Davvero?
All’ingresso di Hammarby Sjöstad, che a Stoccolma viene considerato il quartiere verde per antonomasia, un gioiello europeo, anzi mondiale, si staglia la ciminiera di un impianto che trasforma i rifiuti in energia. Ne esce un fumo sottile, ma i tecnici giurano che è (quasi) innocuo. Gli svedesi si fidano. Gli italiani no, non sono mica così naïf? Come con il nucleare. Nel 1980 gli svedesi votarono no al referendum. Ma ancor oggi gran parte dell’elettricità viene prodotta con energia atomica. Gli italiani hanno detto no nel 1987 e un anno dopo tutte le centrali erano chiuse. Furbi, no? E’ per questo che a Brindisi è finita come è finita. Nel 2002 la British gas viene autorizzata a costruire un impianto che riporta allo stato originario il gas liquefatto trasportato dalle navi. Di procedura in procedura si arriva alla valutazione di impatto ambientale nel 2008. Poco a poco, giungono tutti i permessi, ma sono contrari il comune, la provincia, la regione, gli ambientalisti e, soprattutto, i magistrati. Denunce, intercettazioni telefoniche, processi, cinque arresti e decine di avvisi di garanzia. Il 6 marzo 2012, 11 anni e 250 milioni di euro dopo, il gruppo britannico getta la spugna.
L’industria al sud è stata l’illusione di un manipolo di intellettuali entusiasti e inguaribilmente ottimisti. I Pasquale Villari, i Giustino Fortunato, i Pasquale Saraceno e tutti gli eredi dei grandi riformatori settecenteschi alla Gaetano Filangieri, il giurista che ha ispirato Benjamin Franklin e persino la Costituzione degli Stati Uniti. Volfango (massone come lui) lo incontrò a Napoli, quando era già malato: a 35 anni morrà di tubercolosi e aveva prodotto il suo capolavoro teorico; il tedesco di quattro anni più anziano, era forte come un toro e doveva dare ancora il meglio di sé. Di quel sogno illuminista, cosa è rimasto?
La Napoli dove “i lazzaroni lavorano più di tutti gli altri”, come notava Goethe, è stata una grande città operaia. A Pozzuoli, la fabbrica modello dell’Olivetti con vista mare, progettata dall’architetto Luigi Cosenza, ora ospita uffici di compagnie telefoniche. A Bagnoli, l’acciaieria a ciclo integrato fondata nel 1905 è stata smontata e spedita in Cina, lo racconta dolente Ermanno Rea nella “Dismissione”. Addio alla siderurgia, alle antiche vetrerie, ai cementifici. Roba che puzza, che sporca. Nasce la Città della scienza; e diventa anch’essa una grande area pedonale. Fallita, chiusa, come ogni territorio svuotato di uomini e di lavoro, si trasforma inevitabilmente in un deserto o in un ripostiglio per ogni rifiuto. “Deve riaprire subito”, annuncia il sindaco Luigi De Magistris appena insediato. Dopo un anno lui è alle prese con la munnezza. E pensare che Volfango lodava Napoli per la sua pulizia. “Qui si vive in una specie di ebrezza e di oblio di se stesso!”, scriveva e ciò era “un paradiso”. Oggi si vive sempre in quella specie di ebrezza e di oblio, ma è un inferno.
Anche Pomigliano d’Arco sembra destinata a diventare una nuova Bagnoli. Lo stabilimento che fu dell’Alfa Romeo, e ha visto la più dura battaglia sindacale degli ultimi trent’anni tra la Fiat e la Fiom, ha riaperto i cancelli lunedì 27 agosto per i 3.125 addetti alla produzione della Panda. C’è la cassa integrazione a rotazione e riprendono i picchetti di protesta del Comitato di lotta.
Pomigliano ha pure un’altra storia legata non alle strade, bensì ai cieli. Si è creato nei decenni un polo industriale che intreccia le grandi ambizioni aeronautiche della Fiat, cominciate un secolo fa, e quelle dell’Iri. Finché nel 2003, nel momento in cui rischia il crac, il gruppo torinese vende Avio al fondo Carlyle e a Finmeccanica. Il primo agosto scorso l’azienda che produce motori è passata alla General Electric. Si chiude un ciclo che ha segnato importanti successi (persino un jet da guerra, il G91 soprannominato Gina, usato dalla Nato e addirittura dalla Luftwaffe) insieme a repentine delusioni, e comunque aveva tenuto l’Italia legata a un grande destino industriale.
Ma a che servono gli aerei se il paradigma è l’area pedonale? Tanto meno i dannati cacciabombardieri F-35 che sono carissimi, pericolosi e anticostituzionali. Non c’è scritto nella suprema Carta che l’Italia ripudia la guerra? Quella macchina volante non è fatta per missioni di pace, è concepita per attaccare, distruggere, uccidere. Senza forza aerea si riduce ai minimi termini il ruolo dell’Italia in un mondo in cui le guerre si fanno eccome, e la vittoria molto dipende dal controllo dei cieli; anche la Siria lo dimostra. E allora? Piste ciclabili non piste d’atterraggio. E quelle della Nato, e le basi americane, da Aviano alla Maddalena, diventino parchi della pace, aree ecologiche.
E’ “una rivoluzione fatta con mitezza, intima prima che corale, un uscire dal mondo delle merci poco alla volta”. Lo scrive con lirici accenti sul manifesto Franco Arminio, “uno dei poeti più importanti d’Italia”, secondo Roberto Saviano, il vate di una nuova disciplina che è anche un progetto: la paesologia. Proprio così. E la paesologia, come tutte le cose che contano, ha avuto anche il suo evento estivo, dal 29 al 31 agosto ad Aliano, il paesino dove ha trascorso sette mesi di confino Carlo Levi il quale, nel romanzo autobiografico “Cristo s’è fermato a Eboli”, chiamerà quel borgo Gagliano. Dunque è il luogo giusto, con tutti i crismi per festeggiare “i cardi, i lamponi, i muri nuovi e quelli antichi”, gorgheggia inebriato Arminio, organizzatore di questo “festival leopardiano, una serena obiezione alla modernità incivile”, tre giorni non-stop “per ritrovare l’eros della rivoluzione”. Perché “il capitalismo è morto, ma i capitalisti sono vivi e vegeti… Non siamo in condizione di cambiare il mondo, ma possiamo praticare nuove forme di comunità provvisorie”. Incantevole; e in pratica che cosa vuol dire? Ce lo spiega lo stesso poeta: “Aliano dice all’Italia: fatti dolce e silenziosa, torna agli ulivi, al grano, al fazzoletto pieno di sudore quando la giornata era una cosa sola: serpente fischio pianto sole e non il mosaico di plastica che c’è adesso”. Rivoluzione? Piuttosto un elegiaco ritorno a un passato tanto bucolico quanto immaginario.
Chissà se piacerebbe davvero a un Gran Tedesco questo paese pittoresco, ma non così vibrante in ogni campo, come quello che trovarono Goethe e Nietzsche a cent’anni di distanza tra loro; un paese delle vacanze, che non disturba nessuno perché non ha ambizioni; un paese di camerieri che apparecchiano per il signore straniero che porta i quattrini; e un paese dei più vieti luoghi comuni. L’Italia delle fabbriche e delle ciminiere ci ha fatto agganciare l’Inghilterra dopo un secolo e mezzo di rincorsa. Con conflitti drammatici, come sappiamo. Adesso, estenuata dalla maratona, sta perdendo le proprie forze. E l’Italia delle isole pedonali, dove ci porta, nell’orto degli ulivi? Forse c’è un modello intermedio, un livello diverso di sviluppo, dove vengono soddisfatti bisogni più sofisticati. Forse; bisogna trovarlo. Non è detto che resteremo ricchi per sempre, ma non si può nemmeno schierare sessanta milioni di cicloamatori con il cappello in mano.
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