Ritratto di Leon Wieseltier, il polemista che sferza le anime belle
Un "guerrafondaio umanitario" nell'arena delle idee
Quando la New York Review of Books ha piazzato in copertina il titolo “Stay out of Syria!”, con una certa enfasi da punto esclamativo compulsivo, Leon Wieseltier ne ha proposto una parafrasi velenosa: “Ignoriamo l’uccisione di centomila persone e il massacro di bambini e l’uso di armi chimiche e il bombardamento della popolazione civile da parte del suo stesso governo e i milioni di profughi fuori dalla Siria e i milioni di profughi dentro la Siria e la destabilizzazione di Turchia, Libano e Giordania e l’aggressione di Hezbollah e l’ascesa dell’Iran!”.
“Il rischio di una decisione sbagliata è preferibile al terrore dell’indecisione”
(Mosè Maimonide)
Quando la New York Review of Books ha piazzato in copertina il titolo “Stay out of Syria!”, con una certa enfasi da punto esclamativo compulsivo, Leon Wieseltier ne ha proposto una parafrasi velenosa: “Ignoriamo l’uccisione di centomila persone e il massacro di bambini e l’uso di armi chimiche e il bombardamento della popolazione civile da parte del suo stesso governo e i milioni di profughi fuori dalla Siria e i milioni di profughi dentro la Siria e la destabilizzazione di Turchia, Libano e Giordania e l’aggressione di Hezbollah e l’ascesa dell’Iran!”. Sarebbe bastata quest’opera di traduzione per seppellire l’autore della perorazione isolazionista, il professore di Yale David Bromwich, sotto quella particolare coltre di disdoro e scredito che copre gli alfieri dell’idealismo quando, dopo una cocente delusione sul campo, abbandonano la zavorra delle idee per riparare nei terrapieni del calcolo cinico, del realismo da mero compromesso fra costi e benefici. Stanarli è un’arte in cui Wieseltier eccelle.
Barack Obama, a quel punto, aveva appena deciso di inviare un numero sufficiente di “pistole e proiettili” ai ribelli siriani per alleggerire la coscienza americana dal peso di un massacro insostenibile, ma non abbastanza perché l’aiuto agli oppositori del regime di Bashar el Assad potesse evocare l’avventurismo di George W. Bush in Iraq, ardentemente sostenuto dagli interventisti liberal che poi – per convinzione o opportunità – non sono riusciti a sopportare le conseguenze storiche delle loro idee. Lo storico classico Donald Kagan ha detto, con più di una punta di delusione, che l’America non ha la tempra morale necessaria per portare avanti un conflitto sul campo quando il propellente della paura ha esaurito il suo effetto. Con il passare del tempo l’attacco alle Torri gemelle è passato da catalizzatore della forza identitaria a remota proiezione sullo sfondo della coscienza americana, non abbastanza per alimentare, un decennio più tardi, prese di posizione all’altezza degli ideali esibiti nella “freedom agenda”.
L’America del dopo Bush, del resto, ha partorito la dottrina isolazionista di Obama, presidente reattivo che ordina di praticare l’arte, talvolta marziale, dell’influenza americana nel mondo, soltanto quando implica rischi sopportabili, oppure quando il danno che deriva dall’inazione è superiore a quello promesso dall’intervento.
Wieseltier non si conforma né alla legge tucididea di Kagan né a quella ragionieristica del presidente. Anche ora che l’America si avvia verso un intervento, tendenzialmente chirurgico – più Bush padre che figlio – la forza critica dell’intellettuale che da trent’anni guida la sezione culturale di New Republic non viene meno, perché i Tomahawk sugli aeroporti dell’aviazione siriana o le incursioni a fari spenti conformi al canone della guerra a bassa intensità di Israele non sono il sollazzo degli interventisti liberal, quelli che una volta dominavano la sensibilità degli intellettuali dell’Upper West Side che volevano rovesciare i tiranni per il semplice fatto che erano tiranni. L’operazione siriana che si affaccia dopo una lunga guerra di logoramento delle ambizioni ideali dell’America non è sostenuta da un esercito di baionette intellettuali. Non ha il consenso militante di quelli che Wieseltier chiama “noi guerrafondai umanitari”, specie che nella stagione di Bush ha trovato ampi spazi d’intersezione con le ragioni muscolari del neoconservatorismo – che alle ragioni umanitarie arrivavano dalla porta della sicurezza nazionale e delle sue marziali esigenze – salvo poi battere in ritirata quando il vento è cambiato.
Dall’inizio della guerra civile in Siria Wieseltier ha invocato un intervento americano non soltanto nel nome dei risultati strategici che avrebbe prodotto, quanto per preservare le ragioni ideali dell’interventismo liberal, bussola da consultare per trovare il ruolo dell’America nel mondo. Un ruolo eterno, persino apocalittico, che prescinde dalle contingenze. Il calcolato motto “Stay out of Syria!” è un paravento che copre l’erosione alla dimensione universale che l’America ambisce ad incarnare fin dalle sue origini. E’ la rinuncia alla vocazione evangelica della “city upon a hill” e alla terra nuovamente promessa per restaurare l’antica alleanza con Dio, è un eccezionalismo normalizzato a forza di calcoli. Wieseltier non presenta la sua visione attraverso la lente della teoresi. I suoi scritti a favore dell’intervento sono un argomentato tintinnare di scudi e lance, intervallato da un umorismo nero che schiaffeggia la coscienza dei lettori: “Poveri siriani che hanno la sfortuna di essere trucidati nell’era post-Cheney”, ha scritto rigirando il dito nelle contraddizioni della pavida tribù progressista e del suo umanitarismo debole.
Fra le pareti d’avorio della torre si sente soffocare. A febbraio ha ricevuto il Dan David Prize, uno dei più importanti riconoscimenti dello stato d’Israele per gli intellettuali che hanno dato “un contributo straordinario all’umanità”, e la gloria è lubrificata con un assegno da un milione di dollari. Gli hanno chiesto come avrebbe usato quei soldi, lui ha spiegato come non li avrebbe usati: “Una cosa che di sicuro non farò è spenderli per fuggire dalla vita pubblica o per diventare un ‘public intellectual’”. Che certo sarebbe l’opzione più semplice per solleticare la sete d’otium dell’intellettuale maturo che ha passato una vita ad agitarsi nell’arena delle idee.
L’agrodolce passione per le battaglie perse c’entra, naturalmente. A trent’anni ha esplorato una terza via fra i falchi e le colombe della Guerra fredda con un saggio che ha occupato un doppio numero di New Republic; negli anni della riflessione di Reagan sulla dottrina del “first strike” e delle marce pacifiste in Europa, un giovane che aveva alle spalle studi filosofici alla Columbia e a Oxford, non esattamente un George Kennan di nuova generazione, sosteneva con argomentazioni avulse dallo specialismo nuclearista che esisteva lo spazio ideologico per un compromesso fra il rollback e il containment, che la deterrenza andava di pari passo con il disarmo, l’aggressività dei falchi aveva condotto l’America ad assomigliare pericolosamente al suo nemico esistenziale (“sovietizzazione della strategia americana”) e l’impostazione della questione nucleare “coinvolge la relazione fra le politiche di sicurezza e la politica estera” e lega “la strategia militare degli Stati Uniti ai suoi fini morali e politici”.
La guerra al terrore ha attivato circuiti analoghi nella riflessione di Wieseltier. Il problema del fine morale dell’impresa americana è riaffiorato con il collassare delle Torri gemelle l’11 settembre 2001 e lui si è lanciato sul carro di chi sosteneva le ragioni dell’intervento: ha appoggiato le iniziative del Project for a New American Century e ha animato il Comitato per la liberazione dell’Iraq senza spogliarsi mai dell’identità di pensatore liberal.
Chi lo ha chiamato neoconservatore ha dovuto battere rapidamente in ritirata per non essere falciato dalla sua caustica arguzia. “Non sono in alcun modo neoconservatore, come i miei avversari neoconservatori possono testimoniare. Al contrario, sono il tipo di liberal che molti neoconservatori amano aggredire (e mi va benissimo così)”, ha scritto nel 2007. A differenza di altri autorevoli opliti della falange interventista, Wieseltier non ha rinnegato il passato, semplicemente perché la sua non è stata un’adesione incidentale o d’occasione.
Nel simposio di New Republic per i dieci anni dall’inizio della guerra in Iraq ha scritto che è stata una guerra “iniziata male e finita bene”, il che equivale a spingersi fino al fondo dell’argomentazione liberal del regime change, per esporla alla prova definitiva. Le armi di distruzione di massa nei depositi di Saddam non c’erano. Non c’era la giustificazione documentale, non c’era il fulcro giuridico su cui muovere le leve della guerra, in questo senso è “iniziata male”; ma è finita bene, dice Wieseltier, perché sullo sfondo del primo scopo, quello del disarmo del dittatore, si stagliava lo scopo ultimo della democratizzazione di una società barbara e illiberale. E in questo, senza idealizzazioni né illusioni, l’America ha avuto un qualche successo, tanto che ora non è inusuale inquadrare la tanto vituperata esperienza irachena nella preistoria della primavera araba. Non significa che Wieseltier giudichi la mancanza di prove sulle armi di distruzione di massa un irrilevante incidente di percorso sulla strada della libertà: “Quelli di noi che hanno sostenuto la guerra in Iraq dieci anni fa perché credevano che Saddam Hussein, che aveva già usato armi chimiche, avesse armi di distruzione di massa, dovranno per sempre considerare il fatto che in realtà non le aveva. Che noi ci siamo accodati, o abbiamo aiutato a consolidare, un consenso quasi universale non ci esonera dalla spiacevole verità che il presidente Bush ha trascinato gli Stati Uniti in una guerra su basi fraudolente. Il consenso, come il dissenso, ha bisogno di prove; la verità non si dà in numeri. Poi la guerra ha trovato nuove ragioni. E’ stato soltanto dopo che non sono state trovate armi di distruzione di massa che la guerra in Iraq è diventata una guerra di democratizzazione”. Wieseltier non si assolve, ma non è pentito.
“Se voglio avere una visione del mondo devo vedere il mondo” (Robert Musil)
Si chiudono le porte dell’ascensore. “Lei dev’essere…”. “E tu devi essere quello che mi molesta via email”. “Esatto”. “Hai veramente rotto i coglioni”. Ride e fa strada verso il suo ufficio nella redazione di New Republic, un’oasi fatta di legno, carta e litografie dentro un’antica nicchia editoriale in rapida virata verso lidi digitali. Come tutti i comandanti, Wieseltier indossa una divisa. Jeans scuri con l’orlo sdrucito, camicia denim e stivali da cowboy con striature di fango che fanno immaginare cogitabonde escursioni fuori città, ché nella Washington d’agosto anche i marciapiedi scintillano. E’ l’outfit dell’intellettuale che può permettersi di non atteggiarsi a intellettuale. Nella scena convenzionale dovrebbe estrarre da un mappamondo di legno uno scotch invecchiato in particolari botti di rovere, invece compare sul tavolo soltanto un integratore vitaminico al gusto di ciliegia, non proprio il nettare di un dandy che metà della comunità intellettuale giudica un pretenzioso snob con un incorreggibile complesso di superiorità antropologica. Per l’altra metà è l’ultimo pensatore che non vive in cattività accademica.
Inevitabile che la conversazione parta dalle falle della politica mediorientale di Obama, che per Wieseltier non sono il segno della mancanza di leadership ma della scomparsa di una “worldview”, la visione del mondo irrintracciabile nella frammentata logica obamiana. L’America è passata dalla morale granitica di Bush a quella liquida di Obama. “Le idee hanno delle conseguenze – dice Wieseltier – i conservatori amano molto questa vecchia frase di Richard Weaver, e giustamente. Ma da qualche tempo mi sono trovato a pensare che se ti focalizzi troppo sulle conseguenze perdi il senso delle idee. Ecco, nell’universo di Obama le idee non hanno conseguenze. Bush ha avuto un impatto enorme e di lungo periodo sulla sinistra americana. Non si può capire l’ascesa di Obama senza capire la repulsione nei confronti di Bush. Una delle cose che più ripugnava la sinistra era la sua certezza ideologica. Per contrasto il pragmatismo è sembrato improvvisamente prestigioso, nobile. Anche se poi, questo va detto, anche le persone guidate dalle idee si comportano in modo pragmatico quando l’argomento è complicato. Allo stesso tempo, il liberalismo si è trovato in un’enorme crisi d’identità dopo Clinton. L’ha lasciato senza un’identità, perché si è venduto in così tanti modi e ha fatto patti con così tante fazioni per il suo vantaggio politico che al tempo della sua dipartita dalla Casa Bianca, dopo un’era di rinnovamento, nessuno si ricordava più cosa fosse il liberalismo”.
Persino la parola è stata ripudiata assieme alla cosa, fenomeno che Wieseltier, supremo cultore della parola, si rifiuta di ridurre a mero riflesso linguistico. Nell’agonia del liberalismo c’è lo sbriciolamento degli ideali fondativi in un pasticcio relativista dove ogni svolta è concessa: “La parola liberalismo si è deteriorata, si è svuotata, perché il concetto si è svuotato. E’ stata sostituita dalla categoria del progressismo, una parola che non mi piace, perché mi ricorda i ‘fellow traveler’ degli anni Trenta e Quaranta. Dunque: siamo in una profonda crisi d’identità, e in mezzo a questa crisi arriva Obama, che insiste nell’essere incredibilmente oscuro e opaco. Uno dei più grandi problemi di Obama, e l’ho votato due volte, perché le alternative mi sembravano inaccettabili ma ho scritto contro di lui dall’inizio, non lo amo affatto, il problema di Obama, dicevo, è che la maggior parte della gente in questo paese non ha idea di chi sia e di quali siano le sue idee. Certo, è per l’Obamacare e per questo e quest’altro, le politiche si vedono, ma se chiedi ‘in cosa crede Obama’? ti trovi di fronte allo spettacolo di sei anni di divinazione e chiaroveggenza, di tentativi per capire chi è Obama: un idealista? Un pragmatico? Un idealista deluso? Un progressista? Un realista della scuola di Chicago? Nessuno lo sa. Nessuno sa niente. In un tempo di grandi difficoltà economiche e confusione sul posto dell’America nel mondo, guerre che non si sa come andranno a finire, minacce per la sicurezza nazionale, il presidente degli Stati Uniti deve dare più chiarezza sulle proprie posizioni rispetto a quella che è stato disposto a concedere”.
Il nervo scoperto di Wieseltier è il rapporto fra particolare e universale. Intervenire in Siria è ciò che l’intellettuale chiede al suo governo, a livello esteriore, ma esistono molti modi di intervenire. Ci sono guerre circoscritte per schiaffeggiare – e poi rimettere al loro posto – tiranni che violano le leggi internazionali e ci sono occupazioni militari per conquistare cuori e menti delle popolazioni oppresse; c’è il modello del poliziotto globale e quello dell’esportatore della democrazia: gli interventi militari non sono filosoficamente neutri e per una lunga stagione è stata la sinistra, e non la destra, a sbandierare i rovesciamenti di regimi in nome degli ideali umanitari e dell’universalità del modello liberale e democratico.
Wieseltier assiste amareggiato allo svaporamento del liberalismo su tutti i fronti: “Il pensiero liberal è stato commissariato dal pragmatismo, che a livello di policymaking funziona, per carità. Viviamo in un sistema che è fatto per arrivare a un compromesso, e ci sono buoni compromessi, cattivi compromessi e via dicendo. Il problema è che è stato invaso dal pragmatismo inteso come idea sintetica, non come pratica di governo. E’ un orientamento intellettuale. E poi con la crisi si è imposto l’economicismo, che è il motivo per cui adesso gli economisti si considerano autorità sull’intero spettro delle cose umane. Sembra che anche la felicità sia un argomento di cui devono occuparsi gli economisti. Lo studio della legge è stato cooptato dalla scuola minimalista, così che la Corte suprema si occupa sempre più spesso delle piccole dispute, dei cavilli, e lascia stare le grandi questioni filosofiche. C’è una perdita di energia filosofica, e persino di interesse per la filosofia”.
“La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande” (Archiloco)
Ci sono pochi argomenti sui quali Wieseltier non ha messo la sua testa canuta. Pensiero ebraico, politica, arte, letteratura, tecnologia, poesia, storia, filosofia, fenomeni sociali e cultura pop, l’intellettuale può tenere un’erudita lezione su Mosé Maimonide e subito dopo comparire in una puntata dei Sopranos (“A motherfucking year” è la sua memorabile battuta); ha imparato un italiano forbito e arcaico dai libretti dell’Opera (“So dire ‘brandisci il fioretto e attacca il calesse’ ma non so chiedere chi ha vinto le elezioni la settimana scorsa”), è contemporaneamente autore e critico, opinionista e caporedattore, monarca assoluto delle tredici pagine che Marty Peretz, timoniere di New Republic per tre decenni, gli affidò all’inizio della carriera. Alla Columbia è stato allievo di Lionel Trilling, portabandiera del New Criticism, e attraverso di lui è diventato intimo di Isaiah Berlin, che gli ha offerto asilo durante un periodo di studio a Oxford per difendere il suo giovane ardore continentale dalla cultura analitica dominante.
A considerare la vastità degli interessi viene in mente il motto di Terenzio, “sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, e non sorprende che Wieseltier abbia commentato anche quello: “Un’affermazione che mi è sempre sembrata assurda”. Segue argomentazione controintuitiva. “Leon appartiene alla specie in via d’estinzione di giornalisti che si sentivano a casa in quelli che una volta si chiamavano ‘little magazine’. Personaggi come Trilling, Irving Howe e Richard Hofstadter non erano accademici. Erano giornalisti che pensavano e studiavano come accademici. Penso che Leon appartenga a questo gruppo”, dice al Foglio Sam Tanenhaus, direttore della Book review del New York Times e vecchio conoscente di Wieseltier.
In tanta voracità si brancola alla ricerca di un principio ispiratore, il centro attorno cui si traccia la sua circonferenza intellettuale. Ci si domanda, nei termini di Berlin, se in fondo a quest’anima inquieta ed esorbitante ci sia la dissipazione della volpe o il paziente monismo del riccio: “Sono una volpe che si guadagna da vivere facendo il riccio – dice schermendosi appena – ho molti impegni filosofici e li prendo tutti molto sul serio ma non mi interessa che siano perfettamente coerenti fra loro. Sono cresciuto leggendo intellettuali ebrei, che ho incontrato negli anni Settanta ma erano attivi già dai Quaranta, che erano orgogliosi di essere capaci di ragionare e scrivere di qualunque argomento. Io non mi sento così. Non sono in grado di scrivere di cose delle quali pure sognerei di occuparmi. Non so nulla di scienza, di sport, non mi interessano molti aspetti della policy, non mi vanto dello spettro dei miei interessi, sarebbe dilettantesco. Quello che mi interessa è essere in grado di sviluppare un pensiero su argomenti che davvero mi interessano”.
Chi lo conosce giura che è una versione appena viziata dalla modestia, una civetteria innocente. Mark Lilla, storico delle idee e fedele compagno di ventura, dice al Foglio che la sorgente della visione del mondo di Wieseltier è in una vecchia frase di Trilling che ha dato il titolo a una sua raccolta di saggi: l’obbligo morale di essere intelligenti, cioè “la convinzione che in quanto esseri pensanti abbiamo l’obbligo di leggere di più, pensare a fondo e fare distinzioni. Questo lo rende una persona fuori stagione. C’è ancora una piccola squadra fra noi che guarda con affetto agli intellettuali newyorchesi del Dopoguerra, è ancora affascinata dalle loro vecchie argomentazioni e vuole portare avanti la tradizione. Leon è il nostro capitano”. Ma la sapienza di questo uomo di mondo viene da un altro mondo. La religione è il punctum della sua coscienza. Il suo “informing subject”, come lo chiama Tanenhaus, è “una specie di moralismo ebraico che combatte una guerra perenne con e contro la storia”. Una volta Berlin ha scritto una lettera a Mark e Stella, i genitori di Leon, per informarli che il figlio aveva una dipendenza dal pensiero ebraico. Quando racconta questo episodio gli si accende negli occhi qualcosa di remoto.
“Quando ricevi un’educazione religiosa – continua – che tu lo sappia o no ricevi un’educazione filosofica. Nel senso che le persone religiose hanno una ‘worldview’ e le persone che hanno una ‘worldview’ pensano filosoficamente. Molte persone che hanno una visione del mondo non lo sanno, altre lo sanno ma non sono in grado di difenderla razionalmente, l’hanno ricevuta e basta. Ma quando sei educato religiosamente sei certo di avere un’idea circa la verità dell’universo. Suona un po’ esagerato, ma è così. Ho sempre considerato i testi religiosi, anche i libri delle preghiere, e sono pessimo nella preghiera, per varie ragioni, espressioni di concetti filosofici per immagini. E’ il mio approccio alla religione. La mia esperienza religiosa, invece, è leggermente diversa. Sono un antimistico per sensibilità, e ci sono stati momenti in cui ho invidiato chi aveva una vena mistica, perché quando passi tutta la vita a studiare quello che altri hanno visto dietro le quinte, vorresti anche tu dare un’occhiata. La mia esperienza religiosa è stata costituita soprattutto dagli studi. A volte questa esperienza si è oggettivata in posti particolari. Quando ho visitato il posto più bello in vita mia, un lago alle pendici dell’Himalaya, in Pakistan, ricordo di avere avuto quello che credo si possa chiamare un sentimento cosmico. E’ un’esperienza che supera qualsiasi religione, era più grande e profonda del mio ebraismo e del tuo cristianesimo. Nell’esperienza giudaica la fede ha un ineludibile aspetto sociale. Abbiamo bisogno di dieci uomini per pregare, abbiamo comunità altamente organizzate e molto vivaci, il che è sempre stato un problema per me, perché ho sempre percepito che la religione ha a che fare con l’isolamento dell’anima. Riguarda l’anima individuale, quindi non ho mai capito il valore dell’esperienza religiosa condivisa o comunitaria. Non la capisco e non mi fido, mi ricorda la logica del branco e non credo alle emozioni di gruppo. Sono molto idiosincratico in questo senso. Vado in sinagoga, adesso tutti i giorni perché sto celebrando il lutto per mia madre, tutta la mia famiglia ci va, e onoro i rituali esterni dell’ebraismo perché senza questi la meravigliosa tradizione a cui appartengo non mi avrebbe mai raggiunto”.
Un’anima religiosa, non beghina. Aveva poco più di vent’anni quando ha abbandonato l’osservanza della legge ebraica “non per ragioni puramente filosofiche” ma anche “guidato dagli appetiti”. C’è stato un periodo in cui a Washington era impossibile andare a una festa organizzata dalla gente che piace senza incontrare l’eccentrico intellettuale incanutito anzitempo. I venerabili socialite della capitale, a partire da Katharine Graham, volevano introdurre nelle sale auguste del potere intellettuale questo giornalista eccentrico che parlava meglio di come la metà dei convitati scriveva. Lui sguazzava spensierato nella pozzanghera dell’intellighenzia facendosi forza con abbondanti libagioni d’alcol. Della cocaina ha scritto per primo Vanity Fair. La dissipazione mondana e le tresche malcelate hanno spezzato il matrimonio.
Per riavvicinarsi alla porta stretta della fede ci sono voluti ancora alcuni anni, e ancora oggi non si spaccia certo per un rigoroso praticante, ma la sensibilità religiosa – e la visione filosofica che da questa scaturisce: questo è il punto – non è mai venuta meno. In fondo, Wieseltier è insofferente a tutto ciò che si frappone fra l’uomo in carne e ossa e la sua dimensione eterna, ciò che rimpicciolisce e degrada le aspirazioni, tutti i lacci che imbrigliano una ragione per natura orientata verso le cose ultime. L’ateismo, ad esempio. O almeno quella posa abbracciata con il pretesto, assai convenzionale in tempi di consenso secolare, di liberarsi da vecchie pastoie: “Oggi la religione è la vera controcultura”.
“Io sono il mio Dio. Siamo qui per disimparare gli insegnamenti della chiesa, dello stato, e il nostro sistema educativo. Siamo qui a bere birra. Siamo qui per uccidere la guerra. Siamo qui per ridere delle probabilità e vivere le nostre vite così bene che la morte tremerà a prenderci” (Charles Bukowski)
Esistono almeno due tipi di ateismo. Wieseltier li chiama “filosofico” e “materialista”. Ed esistono due tipi di materialismo, quello “filosofico” e quello che consiste nel “fottersene della filosofia”. L’ateismo filosofico, dice Wieseltier, “merita di essere preso sul serio, perché non è facile affrontare le domande che portano al divino. L’ateismo filosofico gioca nello stesso campo della religione, cioè nel campo dei tentativi di trovare il senso dell’universo. And that’s fine. L’ateismo classico è stato sempre molto utile per la religione, perché sfidava la religione a livello delle idee e richiedeva risposte adeguate”; quello materialista ha generato invece quegli idoli che Wieseltier arde con una certa voluttà, tipo Christopher Hitchens: “Le idee di Hitchens erano stupide. Molto dell’ateismo che lui rappresentava era di tipo politico, e serviva per contrastare George W. Bush, lui era lo sfondo su cui questa concezione emergeva. C’è stato un momento in cui la gente metteva in dubbio l’evoluzionismo e proponeva altre visioni, e l’ateismo politico serviva per rigettare queste tendenze. L’idea era quella di dichiarare, una volta ancora, che la religione è necessariamente oscurantista. Staccare la ragione dalla religione. Dimenticandosi, nel frattempo, che c’è una religione che si accorda con la ragione, cosa che gli atei non vogliono assolutamente sentire, perché tutto il loro impianto dipende dall’irragionevolezza della religione. Ma una discussione seria sull’ateismo ha senso e importanza soltanto in un mondo che riconosce l’importanza della filosofia. L’ateismo contemporaneo è prevalentemente politico oppure è ateismo dell’indifferenza, è shopping. Per me l’unica domanda importante in tutta questa discussione è la questione filosofica del materialismo. Se non sei un materialista puoi essere un razionalista, un mistico, un mago, puoi vivere la religione privatamente oppure pubblicamente, ma la precondizione è rifiutare l’idea che l’universo, il mondo, gli uomini sono spiegabili nei termini della pura materia. Sono abbastanza tranquillo sul fatto che questa spiegazione è inadeguata. E una volta che arrivi al punto in cui non riesci più a spiegare un pezzo di realtà con le categorie del materialismo hai varcato una soglia, e ti ritrovi in un terreno filosofico che ha qualche connessione con la religione. Non significa che diventerai per forza una persona religiosa, ma ormai sei da quella parte della barricata”.
Per gli atei dei giorni nostri, ha scritto qualche mese fa Wieseltier, “non basta che non ci sia Dio, ma ci dev’essere soltanto la materia”. Stava difendendo lo scetticismo espresso dal filosofo (ateo) Thomas Nagel nei confronti del riduzionismo materialista che discende dal darwinismo e s’arroga il diritto di spiegare ogni aspetto dell’esistente con processi chimici e fisici. L’autore di “Uno sguardo da nessun luogo” sapeva bene che il suo “Mind and Cosmos” avrebbe solleticato gli istinti primordiali e corporativi del pensiero unico, l’avrebbero ostracizzato, avrebbero parlato, come ha fatto il cognitivista Steven Pinker, di un “once-great thinker” che approssimandosi alle ottanta primavere si è fatto prendere dal terrore del dopo e ha messo in formaldeide quella mente una volta affilata. Sono questi i dibattiti per cui l’eterno contrarian Wieseltier si frega le mani. “E’ stato enormemente coraggioso. Gli atei hanno risposto nel modo in cui la chiesa era solita rispondere agli atei. E’ stata l’inquisizione degli spiriti liberi, una cosa terribile. E’ stato accusato non soltanto di avere torto, ma di essere un eretico, di essere finito nelle mani del nemico, di fare il gioco della destra cristiana. Per questo l’ho difeso, anche se non ho idee specifiche sulle tesi scientifiche. Il suo coraggio sta nel riconoscere che quella darwinista è un’ortodossia che non può essere messa in discussione. E se osi mettere in discussione l’ortodossia vieni bollato come un pazzo, cioè un creazionista. E’ abituato ormai, è molti anni che la sua riflessione si muove in quella direzione. Tanti anni fa ha scritto ‘The Last Word’ e c’è un capitolo intitolato ‘naturalismo e paura della religione’ in cui lui non si avvicina nemmeno a posizioni religiose ma si scopre sempre più incapace di accettare la spiegazione materialista dell’universo. In quel senso la religione è la vera trasgressione, è l’alterità che fa paura”.
E questo introduce un’altra figura classica dell’ateismo d’oggidì: “Gli atei prendono sempre le forme religiose più volgari per argomentare. E ci sono degenerazioni religiose incredibilmente crudeli. La superstizione accompagna la religione nello stesso modo in cui l’ombra accompagna un oggetto. Ovunque ci sia la religione ci sono credenze iperboliche, degenerate. Uno punta il dito contro le credenze più incredibili, e si guarda bene dall’ammettere che nessuna di queste viene percepita dai fedeli in modo letterale. Gli atei in qualche modo pensano, o maliziosamente dicono di pensare, che tutti i religiosi leggono la Bibbia in modo letterale. Nemmeno nel Medioevo ebrei, cristiani e musulmani leggevano la Bibbia letteralmente. Per una ragione ovvia, cioè che l’interpretazione letterale non ha senso. Sottolineano gli eccessi e le degenerazioni della religione e li rappresentano come il vero credo”.
“Non è sufficiente parlare Yiddish, devi anche avere qualcosa da dire” (Isaac Leib Peretz)
“Istigatore. Sputafuoco. Specialista dell’ira di Dio”. Tanenhaus sfoglia il suo vasto vocabolario mentale per trovare la definizione appropriata. Per Lilla è il “necessario flagello della nostra cultura”. Michael Ignatieff, esperto di diritti umani di Harvard e autore di una sontuosa biografia di Berlin, sottolinea il “tocco di malinconia” accoccolato dietro la sagoma del polemista. Spiega che l’unica sua preoccupazione è scoprire “cosa significa credere, avere fede, riporre la fiducia in qualcosa che supera l’umano in un mondo come il nostro”, e formula un auspicio: “Dio ti assista se mai ti troverai dalla parte sbagliata del suo scintillante senso dell’umorismo”. Un umorismo di quel genere che si cresce soltanto fra gli ebrei di Brooklyn.
Il numero dei suoi avversari è direttamente proporzionale alla larghezza del suo ego. E’ famoso il bisticcio mai sanato con quello che un tempo è stato il suo pupillo, Andrew Sullivan, che Wieseltier ha accusato di essere un “jew-baiter”, un antisemita militante; il giovane intellettuale ha chiamato il suo aio un “coltivatore dell’odio personale”. Fine della storia. Ma gli amici provano per lui quell’attaccamento incondizionato che scaturisce alla presenza di un carisma intellettuale. E Wieseltier ha molti amici improbabili. Lewis “Scooter” Libby, ad esempio. Quando l’ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney è stato indagato per avere mentito sulle manovre nel caso dell’agente Valerie Plame, al centro della questione, nuovamente attuale, delle prove per giustificare l’intervento armato in Iraq, Wieseltier ha scritto al giudice un’appassionata lettera in sua difesa. Nella lista delle figure più odiate dall’America liberal nell’era Bush, Libby occupava una posizione piuttosto alta: era la testa di legno di un guerrafondaio torturatore. E’ stato anche il motivo della ferita, mai del tutto rimarginata, fra Bush e Cheney, con il presidente che alla fine del mandato non ha voluto concedere la grazia al protetto del suo protetto.
Wieseltier spiegava al giudice che l’avvocato Libby lo aveva aiutato, qualche tempo prima, a sbrogliare una certa questione che riguardava suo figlio e da lì ne era nata un’amicizia imperitura. Le tre righe in cui l’intellettuale spiega il dettaglio del caso giudiziario che coinvolgeva il figlio sono cancellate, e quando si va in cerca di delucidazioni lui taglia corto: “Niente di pruriginoso”. Da perfetto equilibrista sospeso fra mondi all’apparenza incompatibili, è anche un raffinato cercatore della formulazione perfetta, un raro esemplare di un’antica specie dominata dalla cultura orale. Tanenhaus riporta un aneddoto che gli è rimasto impresso a dieci anni di distanza. Parlavano di William Buckely, il grande pensatore conservatore, e Tanenhaus, con l’intento di stuzzicare, disse che Buckley non era un grande scrittore, ma era certamente l’intellettuale più “articolato” della sua generazione. Wieseltier lo ha interrotto: “Articolato è una parola ambigua. Significa che hai più parole che idee”. “Un’intuizione brillante – commenta Tanenhaus – formulata in modo perfetto”.
Per trovare definizioni efficaci si può procedere con profitto per via negationis: “Non sono uno scrittore di libri”, dice. Che nell’era della bulimia editoriale è una dichiarazione rivoluzionaria. Di libri ne ha curati molti, dalle raccolte di Trilling agli aforismi sull’identità che vanno sotto il titolo “Against Identity” ma ne ha scritto soltanto uno, “Kaddish”, diario erudito delle preghiere ebraiche per il lutto che Wieseltier ha recitato alla morte del padre portando le sue membra irredente in una shul tre volte al giorno per undici mesi. “Ho scoperto che era un libro soltanto quando ero a metà dell’opera”, e ha deciso di pubblicarlo “per togliermi di dosso un peso”.
Il punto è la durata della parola nella storia. “Si scrivono troppi libri, un sacco di merda viene pubblicata senza motivo. Ho ricevuto una formazione religiosa e quando cresci così tendi a prendere l’idea di un libro molto seriamente, e ho sempre pensato che devo scrivere un libro soltanto se quello che voglio dire può durare. La gente scrive libri, io scrivo articoli. Non dico che tutti lo facciano con malizia o per vanità o soltanto per soldi, ma il mio metabolismo spirituale è diverso. Tanti anni fa mi è arrivato sulla scrivania un libro di John Updike, e in appendice c’era la lista di tutti i libri che aveva scritto fino a quel momento. Li ho contati, ed erano qualcosa come 75 titoli. Ho pensato: bene, Updike ha pubblicato 75 libri, Flaubert quattro, chissà chi lascerà un segno più profondo nella storia. In ‘Kaddish’ ho scritto quello che penso di alcune cose fondamentali. Nel dibattito politico bisogna ripetersi fino alla noia, devi ripeterti sempre, altrimenti non hai nessun impatto. Devi essere tedioso. Ma nella filosofia, nella religione e in altri temi che hanno a che fare con lo spirito una cosa è detta per sempre. Adesso credo – credo – di stare scrivendo un libro sul messianismo ebraico, ma non so se sarà un libro almeno finché non avrò finito di scriverlo”.
In “Kaddish” cita un passaggio del rabbino Bunim di Przysucha che arriva alla radice del senso di appartenenza di questo riottoso personaggio dell’antico testamento trapiantato a Brooklyn: “Nel mondo ordinario, quando si perde una piccola unità di un grande esercito la perdita non si percepisce, ed è soltanto quando si perde un’intera divisione che si decide di riparare la defezione e di rinforzare l’esercito. E’ diverso, invece, nell’esercito di Dio. Basta un solo ebreo perduto perché ci sia una perdita di grandezza e santità in Dio. Perciò, preghiamo che il suo nome sia ‘magnificato e santificato’, ovvero che il suo santo nome ritorni ad essere completo dopo la perdita”.
“E’ strano continuare a leggere articoli con titoli del tipo ‘Dov’è finita l’intelligenza artificiale?’ E’ un fenomeno che Turing aveva predetto: l’intelligenza delle macchine diventerà così pervasiva, così comoda e così integrata nei nostri sistemi economici basati sull’informazione che la gente non se ne accorgerà nemmeno” (Ray Kurzweil)
“Sono certo che è orribile”, dice Wieseltier commentando il racconto del cronista di una visita al campus di Google. Nulla preoccupa questo irriducibile umanista come l’avanzare della tecnologia, anzi del tecnologismo, inteso come ideologia irriflessa che vorrebbe rottamare – con il pretesto di migliorarla – la materia umana secondo uno schema previsto due secoli e mezzo fa dal visionario Julien Offray de La Mettrie. Ogni conversazione precipita inevitabilmente da quelle parti: le antenne dell’umanista percepiscono l’avanzata silenziosa del transumanesimo. E, come ha scritto anni fa il politologo Francis Fukuyama, spesso la portata delle implicazioni ideologiche sottese alle innovazioni tecnologiche ci sfugge. Tendiamo a sottovalutare.
Lo scientismo cibernetico che promana dalla Silicon Valley, con le sue promesse di portare la razza umana oltre il suo debole stato biologico, con la sua ossessione per la “datificazione” – tutto può essere ridotto a dato, come dice la chiesa dei Big Data – con le visioni del sommo sacerdote di Google, Ray Kurzweil, che parla di un uomo immortale che comparirà nel 2045, per Wieseltier non sono apparizioni allucinate in una “estasi per nerd”, come la chiamano i critici meno acuti. E’ molto più sottile di così: “La cosa grave è esattamente che non ci rendiamo conto degli effetti che il tecnologismo ha sulla nostra vita, sul modo di conoscere la realtà, sui rapporti umani”. Anche questa tendenza contribuisce al “periodo antifilosofico che stiamo vivendo”.
Spiega: “La tecnologia riduce le domande sulla realtà a ‘come funziona?’. Cerca di impedirti di chiederti se uno cosa è vera o falsa, giusta o sbagliata, bella o brutta. Come funziona è tutto quello che la gente vuole sapere e la tecnologia ti dà questo”. C’è un parallelo fra lo scientismo darwinista e il tecnologismo della Silicon Valley, ma con l’aggiunta dell’ingrediente utopistico, il perfezionamento graduale dell’umano fino al raggiungimento della “singularity”, l’eschaton degli smanettoni. “C’è sempre stata una stretta connessione fra tecnologia e utopia. E allargando lo sguardo si nota una connessione più ampia fra scienza e utopia. C’è sempre stata l’idea che ‘le macchine aggiusteranno tutto’, ma ora si sta facendo avanti la convinzione che le macchine non risolveranno soltanto i problemi materiali ma anche quelli psicologici e spirituali. E’ qui che diventa terrificante. L’idea della macchina spirituale è puro La Mettrie. Abbiamo già visto tutto questo. Kurzweil spiritualizza le macchine ma il principio è lo stesso. Sono vent’anni che leggo che lo scopo della vita umana è quello di elaborare informazioni, l’informazione ha rimpiazzato la conoscenza, è il nuovo sacro graal. Elabora informazioni, questo è tutto quello che l’uomo è in grado di fare. L’agenda cibernetica e digitale si è estesa velocemente, ha invaso il campo dello spirito, delle relazioni umane”.
In questo senso gli occhiali di Google rappresentano un enorme salto qualitativo: “T’immagini la vita con gli occhiali di Google? E’ il primo passo verso l’integrazione fra corpo e device, lo schermo diventa una componente inalienabile della persona, le conseguenze saranno enormi. Già la diffusione degli smartphone ha conseguenze enormi, sulla mente, sulla coscienza, sull’attenzione, sulla comunicazione, sulla relazione con le altre persone, sull’intimità, sulla nozione di dignità umana, sul senso del tempo. Non c’è dubbio che cambierà le cose. Non cambierà la nostra corporeità, per ora, il nostro essere nel tempo, il nostro essere bisognosi di materia e corpo. Ma loro sono convinti che nel tempo anche quello cambierà”. Qualche tempo fa ha scritto: “L’altro giorno stavo ascoltando Mahler in salotto. Quando mi è caduto l’occhio sul computer, mi è sembrato piccolo”. Ecco l’irriducibile differenza umana che Wieseltier difende con le sue lunghe lame intellettuali.
Il Foglio sportivo - in corpore sano