L'assedio di San Pietroburgo

Fra renitenti allo strike e Fed in ritirata, Obama osservato speciale al G20

Stefano Cingolani

Gli Stati Uniti si presentano oggi al G20 di San Pietroburgo, in Russia, in una posizione singolare. Da una parte tutti chiedono loro, sia in politica economica sia in politica estera e di sicurezza, di non sottrarsi alle proprie responsabilità internazionali, esercitando un ruolo se non più guida, quanto meno adeguato alla stazza di prima potenza mondiale. Dall’altra nessuno vuole seguirli. Questa aporia è evidente per la Siria. Ieri Barack Obama da Stoccolma ha rivolto un nuovo accorato appello “al mondo” affinché agisca. Il via libera dell’Onu non deve diventare una scusa per non fare niente, ha rimarcato: “Non sono io che ho tracciato una linea rossa, è la comunità internazionale”. Quella stessa che adesso ritira la mano.

    Gli Stati Uniti si presentano oggi al G20 di San Pietroburgo, in Russia, in una posizione singolare. Da una parte tutti chiedono loro, sia in politica economica sia in politica estera e di sicurezza, di non sottrarsi alle proprie responsabilità internazionali, esercitando un ruolo se non più guida, quanto meno adeguato alla stazza di prima potenza mondiale. Dall’altra nessuno vuole seguirli. Questa aporia è evidente per la Siria. Ieri Barack Obama da Stoccolma ha rivolto un nuovo accorato appello “al mondo” affinché agisca. Il via libera dell’Onu non deve diventare una scusa per non fare niente, ha rimarcato: “Non sono io che ho tracciato una linea rossa, è la comunità internazionale”. Quella stessa che adesso ritira la mano.

    Il parallelismo con l’economia è altrettanto rimarchevole. Di nuovo, non solo la Casa Bianca, ma i governi del G20 non hanno fatto altro che sollecitare misure per evitare che la recessione diventasse una depressione. Sono due anni che a ogni consesso si mettono per iscritto le stesse raccomandazioni: non soffocare il bambino nella culla con una austerità eccessiva e squilibrata. Ebbene, gli Stati Uniti hanno guidato la danza in modo chiaro, stampando moneta a iosa e tenendo i tassi di interesse a zero, anzi negativi se consideriamo l’inflazione. Ciò ha evitato che i prezzi crollassero e ha sostenuto la domanda americana e dei paesi in via di sviluppo che stanno perdendo la loro spinta propulsiva.

    Anche gli europei, a cominciare dai tedeschi, hanno trovato negli sbocchi esterni la molla per riprendersi dalla caduta della domanda interna. Una spinta persino eccessiva e squilibrata. Proprio ieri l’economista ed ex dirigente della Bank of England, Adam Posen, sul Financial Times, metteva in guardia dal pericolo della “ossessione dell’export” che rischia di schiacciare la Germania. Secondo il New York Times ormai l’economia tedesca ha trovato compensazione proprio in America e in Asia; ciò l’allontana dall’Europa e impedisce che la sua ripresa spalmi gli effetti sul resto della Ue.

    Sia la cancelleria sia la Bundesbank stanno spingendo affinché si metta fine all’interventismo, ritenuto eccessivo, della politica monetaria seguita dalla Banca centrale europea e affinché si prepari un rialzo dei tassi di interesse. Lo ha detto chiaramente il 26 agosto Jens Weidmann, il presidente della BuBa, alla conferenza degli ambasciatori a Berlino; un discorso nel quale ha chiarito senza peli sulla lingua i suoi dissensi da Mario Draghi e dalla maggioranza della Bce. La stabilità nel cortile di casa, del resto, è la premessa per cercare altrove le occasioni di crescita e di profitto da parte dei grandi gruppi, come notava il New York Times.

    Il rischio, a questo punto, è che richieste troppo pressanti inducano la Federal reserve a mosse improvvide e improvvise. Il canto del cigno di Ben Bernanke che lascia all’inizio del prossimo anno. La preoccupazione dei paesi in via di sviluppo è stata però espressa ieri sia dal Brasile sia dall’India, due giganti entrambi in ritirata. Manmohan Singh, preclaro economista e primo ministro indiano, ha invitato il mondo sviluppato a gestire in modo ordinato l’uscita da cinque anni di moneta facile e abbondante. Negli ultimi mesi, anticipando la exit strategy della Fed, gli investitori istituzionali hanno mollato i Brics per comperare titoli made in Usa. Ciò ha fatto cadere le Borse e le monete (in particolare la rupia indiana e quella indonesiana, il real e la lira turca). La voce di Singh è la più autorevole in un coro che si è levato alla vigilia del G20. Ieri poi, secondo la Reuters, anche il Fondo monetario internazionale stava per intervenire direttamente: “I mercati finanziari rischiano di entrare in una nuova fase di instabilità, a causa degli effetti dell’imminente stretta monetaria della Federal reserve, che potrebbe avere un duro impatto sulle economie emergenti, le quali stanno già dando segnali di rallentamento”. E’ quanto si leggerebbe in una nota del Fmi preparata per il G20.

    Il rischio è serio, perché i vari paesi vengono spinti ad aumentare i tassi d’interesse per difendere la valuta, innescando così una spirale rialzista che dalla periferia investe il cuore dell’economia mondiale.
    La campagna assedia le città, direbbero gli epigoni di Mao Tse Tung. In effetti Obama trova nell’antica capitale imperiale russa un clima da assedio, quanto meno politico. Su entrambi i fronti, toccherà a lui mostrare sapienza manovriera e capacità di leadership. Per la seconda volta dalla risposta al crac del 2008, attraversa un passaggio particolarmente difficile della sua presidenza, non meno drammatico né intricato.