Sappiamo che su Internet qualcuno ci spia, ma ormai siamo rassegnati

Piero Vietti

Dunque pare proprio che – a leggere le nuove rivelazioni sull’Nsa apparse su New York Times, Guardian e ProPublica – la privacy sia un concetto destinato a scomparire come le mezze stagioni, immolata sull’altare della sicurezza della nazione da tutelare a ogni costo. Siamo spiati anche là dove pensavamo di non esserlo, e viviamo in un paradosso: condividiamo sempre più aspetti della nostra vita online e contemporaneamente cerchiamo di cancellarne le tracce. Il paradosso emerge da due recenti ricerche dell’americano Pew Research Center.

    Dunque pare proprio che – a leggere le nuove rivelazioni sull’Nsa apparse su New York Times, Guardian e ProPublica – la privacy sia un concetto destinato a scomparire come le mezze stagioni, immolata sull’altare della sicurezza della nazione da tutelare a ogni costo. Siamo spiati anche là dove pensavamo di non esserlo, e viviamo in un paradosso: condividiamo sempre più aspetti della nostra vita online e contemporaneamente cerchiamo di cancellarne le tracce. Il paradosso emerge da due recenti ricerche dell’americano Pew Research Center: nella prima (fatta in collaborazione con il Berkman Center dell’Università di Harvard) emerge come i giovani di oggi, cioè gli adulti iperconnessi di domani, tendano a condividere online molte più informazioni rispetto ai propri coetanei di appena sei anni fa. I teenager di oggi vivono una strana dicotomia, secondo quanto emerge dalla ricerca del Pew: hanno sui social network profili privati ma aperti a un alto numero di “amici”, fanno attenzione a cancellare foto, post o commenti compromettenti ma non si dichiarano particolarmente preoccupati dal fatto che terze persone possano sbirciare tra le loro informazioni private (sono sempre di più quelli che pubblicano il proprio indirizzo email o il proprio numero di telefono sui social network). Si potrebbe dire attenti ma rassegnati, secondo quello che già un paio d’anni fa scriveva l’antropologa Sherry Turkle nel suo libro “Insieme ma soli”.

    Diverso atteggiamento quello degli adulti, secondo un’altra ricerca del Pew Center uscita pochi giorni fa. Quasi l’86 per cento di loro di tanto in tanto compie operazioni per evitare di essere spiato da persone od organizzazioni mentre naviga. Operazioni velleitarie, stando a quello che effettivamente un’agenzia come l’Nsa è in grado di fare per leggere i nostri dati: navigazione privata per nascondere l’indirizzo IP del computer, cancellazione della cache, invio di email criptate, utilizzo di pseudonimi. Nonostante queste operazioni, però, molti profili o indirizzi email vengono quotidianamente crackati, così come diverse password o numeri di carte di credito finiscono sotto gli occhi di altre persone, tanto che la sensazione diffusa, ormai divenuta certezza, è che su Internet non sia possibile restare anonimi. Quasi la metà degli utenti adulti che navigano abitualmente si sente “preoccupata” dal fatto che sulla rete sia facile trovare informazioni che li riguarda (foto, indirizzi, numeri di telefono), percentuale raddoppiata rispetto al 2009. Il paradosso è naturalmente dato dal fatto che la quasi totalità di queste informazioni è stata pubblicata dalle stesse persone che ora si preoccupano dell’uso che altri potrebbero farne. La maggior parte di loro, ça va sans dire, è convinta che le attuali leggi in vigore non riescano a tutelare la privacy online.

    Qualche giorno fa l’esperto di tecnologia e Internet Evgeny Morozov ha scritto sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung che ormai l’America è dipendente dalla sorveglianza a tutti i costi, e la sorveglianza a tutti i costi dipende dai dati in possesso di chi sorveglia. Un circuito impossibile da spezzare, soprattutto adesso che i dati sono divenuti merce: non c’è legge che possa difendere la libertà di Internet, dice Morozov, e l’idea secondo cui esiste uno spazio virtuale dove è possibile avere più privacy dalle istituzioni è un mito superato. La soluzione non è legislativa ma culturale, dicono molti osservatori delle dinamiche delle rete. Più facile scriverlo che metterlo in pratica. Viviamo in un mondo in cui le persone caricano informazioni personali su server americani facilmente hackerabili, e mentre lo fanno si lamentano del fatto che non c’è più privacy. Sherry Turkle parlava di una generazione che “non riesce a immaginare di poter fare qualcosa in pubblico senza finire su Facebook”. Eccola.
    Piero Vietti弐

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.