Il vero Pd da rottamare

Claudio Cerasa

Sul percorso a ostacoli che in caso di crisi di governo il Pd dovrà seguire per evitare che la battaglia combattuta attorno alla decadenza del Cav. possa trasformarsi in un autogol capace di restituire nuova linfa a un centrodestra decapitato da una sentenza della magistratura, vi è una questione importante che il segretario in pectore del nuovo Pd, ovvero Matteo Renzi, dovrà affrontare per non perdere di vista quello che fino a oggi è stato il punto di forza della sua leadership politica: la rottamazione del partito delle tessere e la trasformazione del Pd in un partito non di proprietà degli iscritti ma di proprietà degli elettori.

    Sul percorso a ostacoli che in caso di crisi di governo il Pd dovrà seguire per evitare che la battaglia combattuta attorno alla decadenza del Cav. possa trasformarsi in un autogol capace di restituire nuova linfa a un centrodestra decapitato da una sentenza della magistratura, vi è una questione importante che il segretario in pectore del nuovo Pd, ovvero Matteo Renzi, dovrà affrontare per non perdere di vista quello che fino a oggi è stato il punto di forza della sua leadership politica: la rottamazione del partito delle tessere e la trasformazione del Pd in un partito non di proprietà degli iscritti ma di proprietà degli elettori. A pensarci bene, infatti, la costruzione di un centrosinistra alternativo a quello che fino a oggi ha declinato con dedizione la sua vocazione minoritaria (e a quello che alle ultime elezioni ha perso 3 milioni e 600 mila voti rispetto al 2008, 8 milioni e 900 mila voti rispetto al 2006, e 5 milioni e 900 mila voti rispetto al 2001) passa in buona parte dalla consapevolezza che l’obiettivo prioritario del Pd debba essere quello non solo di riconquistare i vecchi elettori ma soprattutto di conquistare elettori nuovi: e in un certo senso per raggiungere questo obiettivo e non cadere nei tranelli e nelle smacchiature del passato è evidente che la sfida di Renzi sarà quella di imporre una linea che tenga conto di due elementi: da un lato non cavalcare quell’anti berlusconismo sfrenato che gli consentirebbe di guadagnare consensi sul breve periodo ma che lo allontanerebbe da quella fetta di elettori che si trovano alla ricerca di un leader alternativo al Cav.; dall’altro costringere il suo partito a togliersi di dosso l’aria di chi considera gli elettori di centrodestra degli inguaribili puzzoni dai quali è preferibile stare alla larga.

    “In questa fase – suggerisce il professor Roberto D’Alimonte, Professore di sistema politico italiano alla Luiss, editorialista del Sole 24 Ore e direttore del Cise – il centrosinistra ha la possibilità di sbarazzarsi di un equivoco che si trova alle origini dei suoi recenti insuccessi: considerare popolare nel paese ciò che invece è popolare solo nell’apparato. Rompere con questa tradizione significa aprire il centrosinistra a un elettorato lontano dalla nomenclatura, indirizzare i propri messaggi verso un pubblico diverso, fare uno sforzo per ammettere la propria non autosufficienza e in buona sostanza capire che senza elettori ‘non di sinistra’ è impossibile conquistare il paese. La sfida è suggestiva. E per capire quanto l’apparato sarà disposto ad accettare questo cambio di paradigma credo sia interessante osservare quanta resistenza verrà posta dalla nomenclatura nella partita relativa alle regole sulle primarie”.

    Naturalmente il clima da pre-crisi vissuto negli ultimi giorni non aiuta a capire se Renzi riuscirà a correre per il congresso o se sarà costretto a scendere in campo per la corsa alla premiership. Ma quali che siano le consultazioni che verranno celebrate non c’è dubbio che una spia utile a indicare la volontà del Pd ad aprire il proprio campo a nuovi elettori, e ad ammettere la propria non autosufficienza, sia quella relativa ai criteri che verranno scelti per partecipare alle primarie. Il vecchio apparato post-comunista, lo stesso che alle primarie del 2012 ha modificato le regole rendendo più difficile la partecipazione rispetto alle precedenti consultazioni, sostiene che aprire troppo le primarie significherebbe esporsi a una inaccettabile cessione di sovranità.

    Renzi, invece, ripete da mesi che è stato nel momento in cui si è deciso di allontanare i cittadini dai seggi delle primarie che il Pd ha decretato la propria chiusura e dice da tempo di sentirsi distante rispetto a quei dirigenti che considerano la vera base di riferimento del Pd quella composta dalle poche centinaia di migliaia di persone iscritti al partito (800 mila tesserati tra il 2008 e il 2009; 617 mila tesserati nel 2010; 607 mila tesserati nel 2011; 511 mila tesserati nel 2012; 250 mila tesserati finora nel 2013). Fino a oggi, almeno a parole, il sindaco ha sempre dimostrato di avere a cuore sia il problema della non autosufficienza della sinistra sia la questione della conquista degli elettori del centrodestra. Perdere di vista questi obiettivi, limitarsi a sostituire il vecchio apparato con un nuovo apparato, farsi accecare dal ritorno dell’anti berlusconismo chiodato e non andare insomma in fondo nella rottamazione di quel Pd che considera il partito delle tessere l’unico in grado di rappresentare il paese significa una cosa semplice: significa, come ricorda il professor D’Alimonte, dimenticarsi che una sinistra che si chiude, che considera puzzoni i propri avversari, è una sinistra che vince le primarie e che poi però le elezioni le perde sempre alla grande.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.