Un Obama “incredibilmente piccino”

Paola Peduzzi

Ieri era l'11 settembre, il dodicesimo anniversario dell'attacco alle Torri gemelle a New York, ed era anche il compleanno di Bashar el Assad, quarantotto anni, e chissà che feste a Damasco per lo strike scongiurato (per ora), e soprattutto per l'accartocciamento della leadership occidentale in diretta tv con il discorso di Barack Obama sulla guerra un po' giusta e un po' no in Siria. L'offensiva mediatica del presidente americano – in due giorni sei interviste televisive, lo speech, una quantità inusitata di retroscena che colano stordimento: anche i grandi esperti dell'obamismo sembrano pugili suonati – è quanto di meno offensivo si potessero augurare Assad e i suoi alleati.

    Ieri era l’11 settembre, il dodicesimo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle a New York, ed era anche il compleanno di Bashar el Assad, quarantotto anni, e chissà che feste a Damasco per lo strike scongiurato (per ora), e soprattutto per l’accartocciamento della leadership occidentale in diretta tv con il discorso di Barack Obama sulla guerra un po’ giusta e un po’ no in Siria. L’offensiva mediatica del presidente americano – in due giorni sei interviste televisive, lo speech, una quantità inusitata di retroscena che colano stordimento: anche i grandi esperti dell’obamismo sembrano pugili suonati – è quanto di meno offensivo si potessero augurare Assad e i suoi alleati. La risposta “enorme” degli americani alla “oscenità morale” perpetrata dal regime siriano con l’attacco chimico del 21 agosto scorso s’è trasformata nella guerra “unbelievably small”, incredibilmente piccina (copyright dell’ineffabile segretario di stato John Kerry), che forse si farà e forse no, per punire gli orrori di Damasco. Neanche un mese di risveglio interventista, dopo un torpore di due anni e mezzo, per finire con uno dei discorsi meno ispirati e meno efficaci e meno presidenziali della storia gloriosa della retorica obamiana.

    Il presidente ha fatto, secondo l’analisi sul New Yorker di Jeff Shesol, ex speechwriter di Bill Clinton, una “presentazione da avvocato: l’elenco dei fatti, la ricapitolazione degli interessi e dei princìpi in gioco, l’appello alle ‘regole di base’ e alle leggi”, condita con la sua solita freddezza – nemmeno mentre parlava della schiuma che usciva dalla bocca dei bimbi siriani attaccati col sarin è sembrato vagamente partecipe. Non c’è da prendersela con gli speechwriter: abbiamo visto troppe serie tv sulla politica americana per non sapere quante volte sarà stato rifatto quel discorso, quanti interventi avrà voluto fare la Casa Bianca. E chissà che cosa devono aver pensato gli sherpa della parola presidenziale lunedì sera, quando il commander in chief visto al G20 di San Pietroburgo è diventato il notaio di infattibili proposte di pace russe ed è andato in televisione a dire che la diplomazia deve fare il suo corso: tutti quei fogli da stracciare, si ricomincia da “my fellows Americans”. Il discorso di Obama è la sintesi dei ripensamenti sulla crisi siriana, ma soprattutto la fotografia di un leader politico che affronta i problemi – la sicurezza nazionale, la sicurezza globale – senza una dottrina: è il pragmatismo al potere, bellezza, e nessuno è più al sicuro.

    In questa nuova dimensione tutto è concesso. Provare la via diplomatica, abbandonarla, poi riprenderla anche se sulla sincerità dei russi i dubbi sono tanti. Non accettare che un dittatore violi le leggi utilizzando armi chimiche, valutare le conseguenze di un non intervento, decidere di intervenire con urgenza. Dilatare i tempi perché l’America è una democrazia e il Congresso deve dare il suo assenso alle azioni di guerra (in Libia no però, ché quel dittatore si poteva tirare giù senza troppi patemi) e ora anche il Congresso deve aspettare perché magari l’opzione russa davvero funziona. Rassicurare sul fatto che non ci saranno truppe sul campo, disegnare scenari militari chirurgici e limitati e “incredibilmente piccini”, ma stabilire con orgoglio che l’esercito americano “doesn’t do pinpricks”, non fa punture di spillo, se si muove non è per far ridere i nemici.

    In questa nuova dimensione si può persino fare guerre solo quando sono facili: Obama ha escluso l’obiettivo di rimuovere i dittatori (c’è sempre l’eccezione libica, per non parlare delle avvocatesse del regime change, Samantha Power e Susan Rice, che Obama ha sguinzagliato in questi giorni per difendere la guerra giusta: cosa daremmo per intercettare una qualsivoglia loro conversazione) e la volontà di esercitare il ruolo di “poliziotto del mondo”, ma “quando con sforzi e rischi modesti possiamo evitare che i bimbi siano gasati a morte” allora è bene muoversi. In Siria c’è in gioco la credibilità dell’occidente e la sicurezza americana, la causa “è così pienamente giusta”, ci sono anche le prove: ma aspettiamo, magari l’Onu ce la fa.

    I “buoni motivi non bastano”, come ha scritto ieri Barbara Spinelli su Repubblica, e infatti la causa è già persa. Lo è da tempo, a dire il vero, perché la crisi siriana non è iniziata il 21 agosto con l’attacco chimico, ci sono almeno centodiecimila morti, paramilizie sciite e sunnite, razziatori, piccoli conflitti che s’infilano in quello grande, come ha raccontato sulla Stampa Domenico Quirico nel suo reportage dopo il rientro dalla prigionia, uno degli articoli più commoventi e meno banali dei tanti che si leggono sulla Siria. L’attacco con il sarin è il risultato del non intervento (il conto lo pagano tutto i siriani), ma ancora non basta come motivo per un intervento. Laddove la situazione era complessa – e in Siria non potrebbe esserlo di più, come sanno tutti quelli che si parano dietro al caos sperando di non essere visti, lo stesso Obama l’ha fatto a lungo – i valori potevano tornare utili. E se quelli sono roba da idealisti da salotto nostalgici degli anni Novanta, almeno qualche drone dei migliaia utilizzati da questa Amministrazione senza mai chiedere il permesso a nessuno poteva essere lanciato. Ne avremmo capito l’urgenza e la necessità, e ci saremmo risparmiati il triste spettacolo dei dubbi della leadership americana, l’unica a essere al momento “unbelievably small”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi