Sua latitanza
Il Cavaliere latitante: il titolo del film c’è, il manifesto s’immagina, ché soltanto in un film potrebbe risultare non così psicologicamente fuori contesto l’immagine dell’eliporto di Arcore che fa da sfondo a una scena che nemmeno in “Zero dark thirty”, il film di Kathryn Bigelow sulla caccia a Osama bin Laden: le pale del velivolo che roteano felpate nella notte, il buio sempre più spesso attorno, i battiti del cuore, l’adrenalina, nessun faro e nessun telefonino, e magari il tetto della villa che diventa piattaforma da cui spiccare il volo lontano dagli sguardi dei fotografi (mica siamo americani che fuggono da Saigon). Eppure questo è stato pensato e detto: causa eliporto, Arcore è quanto mai sconsigliabile come sede di eventuali arresti domiciliari.
Il Cavaliere latitante: il titolo del film c’è, il manifesto s’immagina, ché soltanto in un film potrebbe risultare non così psicologicamente fuori contesto l’immagine dell’eliporto di Arcore che fa da sfondo a una scena che nemmeno in “Zero dark thirty”, il film di Kathryn Bigelow sulla caccia a Osama bin Laden: le pale del velivolo che roteano felpate nella notte, il buio sempre più spesso attorno, i battiti del cuore, l’adrenalina, nessun faro e nessun telefonino, e magari il tetto della villa che diventa piattaforma da cui spiccare il volo lontano dagli sguardi dei fotografi (mica siamo americani che fuggono da Saigon). Eppure questo è stato pensato e detto: causa eliporto, Arcore è quanto mai sconsigliabile come sede di eventuali arresti domiciliari. Ma non fa niente, perché quell’idea del Cav. che dice “basta, me ne vado” resta lì, sospesa tra la realtà (crisi o non crisi di governo) e la surrealtà (il dopo B.). Rimane a mezz’aria, nel regno dell’improbabile quasi-quasi possibile, sogno e incubo, suggestione e dannazione, detto e non detto, e persino elemento poco gentile del dibattito: “Berlusconi ha paura di fare la fine di Bettino Craxi, ma sarebbe la sua fortuna. Si dia alla latitanza, fugga sulle spiagge tunisine senza la rottura di coglioni quotidiana dei suoi questuanti”, diceva Beppe Grillo quest’estate, non mancando di sottolineare la sua “solidarietà” ai magistrati di Milano, mentre Bobo Craxi ricordava l’illustre e drammatico precedente di suo padre ad Hammamet – ma per dire che no, il Cav. all’estero non sarebbe un “capo politico” in “esilio”, ma un “latitante”, appunto, e che comunque non se ne andrà, perché “non gli conviene”. Ma anche in questo caso non fa niente, il distinguo non può nulla rispetto all’immagine che lo precede. E l’immagine del Craxi fuoriuscito è ancora presente e potente, come ci fosse ancora quell’occhio che osserva da lontano, da una stanza chiara di sole, raggiunta dopo i discorsi in Parlamento, dopo la raffica di avvisi di garanzia, con un mare in mezzo ma il fax sempre attivo per le lettere ai giornali, e la gamba gonfia sollevata mentre i cronisti si spargono per aranceti e caffè di Tunisi, prima per sciogliere il giallo (dov’è andato Craxi?, fu la domanda tra il 14 e il 18 maggio del 1995, quando si sapeva che in Italia Craxi non c’era, ma ancora non si sapeva dove sarebbe riapparso) e poi per aspettare che Craxi comparisse davvero in carne e ossa (Radio Medina, la radio locale, diffondeva informazioni liberamente interpretabili, e c’era chi passava giornate nei vicoli, al caldo, in cerca dei possibili nascondigli, e chi restava fermo davanti alla porta blu di un sedicente “amico di Bettino” (poi l’amico usciva, ma non diceva nulla). Lui, Craxi, una volta riapparso, telefonava di persona a chi lo aveva cercato, e alla domanda “hai intenzione di tornare?” prima rispondeva, poi non rispondeva, poi scriveva di suo pugno un comunicato (sto male, basta politica), poi richiamava per dire “non parlo, ma se mi tirano per i capelli qualcosa alla fine vi dico”.
Fatto sta che questa storia della latitanza immaginata del Cav. tormenta Vittorio Feltri, che non smette di ripetere all’amico Silvio, ex post, per assurdo e oltre ogni ragionevole tempistica, il consiglio sempre disatteso (lo ripete persino dalla tribuna nemica del Fatto quotidiano): “‘Hai il passaporto?, vattene’, gli ho detto”, dice Feltri al Fatto, e se il Fatto insiste (“se vuole scappare per la verità c’è ancora tempo”), Feltri a malincuore osserva che “però non sarebbe carino” e che con il documento, almeno, “non sarebbe stato un reato”. Ma si capisce che la sua fantasia è già oltre, molto oltre, forse quasi ai livelli delle storie incredibili, e a volte vere, che la parola “latitanza” accende nella memoria di esperti esteri e nazionali, nonni, saggi, pettegoli e curiosi.
Sparse per i sette mari, infatti, s’incontrano vette inarrivabili d’ingegno fuggitivo, racchiuse simbolicamente in un tuffo, un tuffo da Conte di Montecristo prima di diventare Conte di Montecristo, tuffo catartico che apre al latitante la strada della nuova vita. Si tuffò nelle onde di Miami, in un giorno di novembre del 1975, con il cielo gonfio di nuvole e l’acqua ancora calda, il deputato laburista inglese ed ex ministro John Stonehouse, lasciando i vestiti sulla spiaggia, firma di inconfondibile stile anglosassone. Nessuno lo vide tornare a riva. Lo diedero per affogato, lo diedero per morto. Pensarono al suicidio. Diedero la colpa a un sottofondo di pasticci finanziari che stavano venendo allo scoperto, alla carriera politica che sarebbe di conseguenza giunta al capolinea. Poi Stonehouse ricomparve, alla vigilia di Natale, in Australia, scambiato lì per lì per un altro introvabile, tale Lord Lucan, sparito nel nulla mentre era sulle tracce dell’assassino della baby sitter dei suoi figli. E invece era Stonehouse, seduto a un caffè e intento a leggere un articolo sul suo caso medesimo, nascosto sotto il nome di Clive Middon (altro scomparso) e determinato a rifarsi una vita con la sua amante, lontano dai guai con la giustizia. Fermato, accusato di frode e falsificazione e infine tornato in patria, Stonehouse si rifiutò di dimettersi da deputato. Tra accusa e carcere (dove rimase poi per sette anni) andò alla Camera dei Comuni, a spiegare, senza spiegare, quello che chiamò “il mio comportamento bizzarro”, mentre qualcuno diceva: Stonehouse è una spia cecoslovacca. Il primo ministro Harold Wilson smentì, ma nel 2010, quasi quarant’anni dopo, all’apertura degli archivi, le accuse si rivelarono vere, anche se, scrissero i quotidiani inglesi, “probabilmente non legate alla sua latitanza australiana”, dovuta piuttosto “al sentore” di una possibile grossa grana in tribunale. E chissà se la fuga agli antipodi era stata, nella mente di Stonehouse, un omaggio ad Harold Holt, primo ministro australiano scomparso tra i flutti il 17 dicembre del 1967, dopo un tuffo a sud di Melbourne, con gli amici che guardavano dalla riva, i vestiti abbandonati sulla sabbia (il precedente di Stonehouse?), le onde che portavano lontano e il puntino della sua testa che diventava invisibile. Dov’è Harold?, si chiesero per due giorni, sempre più angosciati, i familiari, rassegnandosi infine all’eventualità più tragica. Non sarà fuggito per mare?, si domandò poi qualche investigatore, vedendo dietro alla nuotata dei misteri una lotta interna al partito, un declino di popolarità e anche un possibile inghippo finanziario sommerso (ipotesi poi evaporata). Ancora oggi il giallo è insoluto, ma c’è chi dice che un sottomarino cinese recuperò Holt sotto le onde dell’oceano, di fronte alla baia del suo ultimo tuffo (“era una spia”, si disse, ma, diversamente dal caso Stonehouse, nessuno potè provarlo).
Anche in assenza di simili spettacolarità, l’alternativa tra fuggire e non fuggire non si poneva agli occhi di Gaetano Salvemini, poi esule antifascista a Parigi (“se mi accusano di aver stuprato la Madonnina di Milano, prima scappo poi mi difendo”), e a quelli di Pietro Calamandrei (“se ti accusano di aver rubato la Torre di Pisa, datti alla latitanza, poi si vede”). E anche Benedetto Croce (ricorda oggi Radio Radicale), in un carteggio del 1911 con Giovanni Amendola, rifletteva sulla necessità di stare il “più lontano possibile” dai palazzi di Giustizia e di stare attenti a parlar male dei giudici, ché “se la legano al dito”. E insomma, pensa che ti ripensa, anche a costo di sfiorare la cantonata, capita che qualcuno ci prenda gusto, a figurarsi il Cav. in viaggio verso la libertà: a metà luglio, primi caldi, aveva preso piede su qualche giornale l’ipotesi di un Berlusconi andato in Russia non per “salutare” l’amico Vladimir Putin, come avevano detto alcuni collaboratori del Cav., ma per stabilirsi a est in pianta stabile, e prima della pronuncia della Cassazione – “Berlusconi novello Edward Snowden”, si scrisse, ma Berlusconi tornò a Roma. A quel punto fu chiara una sola cosa: l’ascesa definitiva di Mosca a regina dell’immaginario fuggitivo (altro che Parigi). Perché da Putin si era rifugiato l’informatico del “datagate” Edward Snowden, sì, ma, più fragorosamente e con meno segreti aeroportuali a far da cornice, da Putin si era fatto adottare anche Gérard Depardieu, in pieno gennaio e per motivi fiscali. “Basta, porcelet” (così Depardieu chiama il presidente francese François Hollande) “basta con le tue tasse anti ricchi”, aveva detto l’attore prima di volare a Soci, mar Nero, località turistica in ascesa, ad abbracciare il presidente russo con tutta la potenza massiccia del suo physique du rôle, debordante di felicità davanti a quel nuovo passaporto tax-free e alla possibilità di una carica culturale in Mordovia (dove sarà mai?, si chiesero tutti, ché persino quel nome pareva un romanzo – ci si immaginava un paese finto, con le case giganti, a grandezza Depardieu – e invece era soltanto un elemento dell’irresistibile, rumoroso addio dell’attore alla grandeur tradita da colui che, ai suoi occhi, doveva apparire come un Precisetti impaziente di applicare la patrimoniale).
Altro che Parigi, in tutti i sensi: nessuna rêverie di Woody Allen (“Forget Paris”, titolo e profezia) può riportare in vita i fasti del Panthéon come meta del fuggitivo politico o fiscale che sia. Eppure resistono, anche tra i berlusconiani, i nostalgici del mito: Parigi che tra le due guerre accoglie la “generazione perduta” della grande crisi ma anche i padri della Resistenza; Parigi che, dopo aver visto all’opera Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald e Salvador Dalí, fa da casa a Filippo Turati, fuggito per mare in una notte buia e tempestosa, e ai fratelli Rosselli (oltre che, tra gli altri, a Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e Pietro Nenni). A mito si aggiunge leggenda, quella del nocchiero Italo Oxilia, pilota del motoscafo con cui scapparano prima Turati e poi Rosselli (nella bufera senza stelle, con le onde che riempivano lo scafo, per “dodici lunghe ore”, è il racconto di Turati).
Cambia la quinta – anni di piombo invece che anni Trenta – e Parigi resiste come destinazione di salvezza per i fuoriusciti del “teorema Calogero”, dal nome del giudice convinto che il terrorismo rosso venisse da un unico cervellone di collegamento tra Br, Autonomia operaia, Potere operaio e gruppi laterali: sono gli anni della Parigi di Toni Negri, che prima di arrivare in terra francese era stato condannato, arrestato ed eletto deputato, mentre era in carcere, nelle file del Partito radicale. Uscito deputato da Rebibbia nel 1983, Negri fugge oltralpe (la Camera aveva dato l’autorizzazione a procedere), insegna all’università, assume un’altra identità, fa arrabbiare Marco Pannella che lo rivuole in Italia, a lottare contro la carcerazione preventiva. Infine (dopo quattordici anni) torna e finisce di scontare la pena. Ma l’idea di una “Parigi delle libertà” sopravvive a lungo al ritorno di chi se n’è andato e si adatta all’animo dei nuovi fuoriusciti (fuoriusciti per tutt’altro motivo e con tutt’altra provenienza). Irresistibile nel suo genere appare, all’alba del nuovo secolo, agli amici accorsi a Parigi, il latitante Lino Jannuzzi, giornalista viveur, condannato per reato d’opinione (opinione contro un giudice – e chissà Croce che cosa avrebbe detto): si faceva portare i bagagli a rate, Jannuzzi, da questo e quel conoscente preoccupato, ma subito costretto a ricredersi alla vista di quel latitante serafico di stanza a Saint-Germain, nell’hotel a un passo dalla Brasserie Lipp, tutto casa, bottega e sigaro – e la Parigi granitica dei fuoriusciti usciva in qualche modo dissacrata dal passo autoironico del fuoriuscito stesso. Poi arrivò la grazia (da Carlo Azeglio Ciampi) e un’altra epoca finì.
E pensare che, a specchi rovesciati, c’era chi, da Parigi, aveva pensato un tempo a Roma come patria della fuga, senza per questo riuscire nell’intento – per esempio il francese Georges Bidault, più volte primo ministro, ex capo provvisorio della Repubblica francese (nel 1946), ex combattente antifascista, poi gollista, infine antigollista per divergenze con il generale sulla guerra d’Algeria (voleva che l’ex colonia restasse parte della Francia). La divergenza lievitò al punto che Bidault, nel 1962, fu accusato di cospirazione. Ormai privo di immunità parlamentare, temendo di essere fucilato, fuggì in Italia, dove da tempo cercava di organizzare una centrale di resistenza anti De Gaulle. Fermato dalla polizia e riaccompagnato al più vicino aeroporto come ospite indesiderato, riparò nella Spagna franchista, da dove giunse in Portogallo e in Brasile, per poi tornare in Francia, amnistiato dallo stesso De Gaulle (anni dopo completò il cerchio, virando completamente a destra e fondando il Fronte nazionale).
Se non nel tuffo che tutto cancella, la spettacolarità della fuga si manifesta sotto forma di dispiegamento di mezzi aerei, economici e telematici per continuare sotto altre forme l’attività politica: jet privati, case in tutto il mondo, squadre di calcio comprate, cittadinanza chiesta con sfrontatezza, scomparsa e resurrezione a intermittenza, come un fantasma che sorveglia i concorrenti in patria. Così è rimasta viva, anche dalla latitanza, la fama (e la presa popolare) dell’ex premier thailandese e tycoon Thaksin Shinawatra, accusato di corruzione e conflitto di interessi, fuggito prima a Dubai poi in Svezia, riemerso su un’isola del Montenegro e in Cambogia (con un occhio al sultano del Brunei come ultima spiaggia), infine vittorioso in Thailandia per interposta persona (sua sorella Yingluck è diventata primo ministro nel 2011), ma non prima di aver diretto la rivolta delle “camicie rosse” di Bangkok da Twitter o telefonando direttamente ai leader in piazza (evoluzione dei messaggi pre-registrati che Juan Domingo Perón inviava ai “compañeros argentini” da un esilio a Madrid che non gli impedì di far eleggere al suo posto, di volta in volta, uomini di fiducia dei peronisti ufficialmente banditi).
Fuggire, sì, ma ispirandosi a chi?, questo sarebbe, in caso, il problema. Un esperto amatoriale di grandi esìli consiglia il “modello Sukarno”: latitanza intimista e operosa su un’isola paradisiaca. Ma non ad Antigua, tra turisti, ville e villette. A voler seguire davvero l’esempio, tocca cercare un’isola come Flores, dove nel 1933 Sukarno, non ancora presidente indonesiano, riparò esiliato dal governo coloniale olandese, dandosi alla drammaturgia in un regno di cascate e fiori odorosi, da cui tornò rinvigorito molti anni dopo.
Fuggire, se fuggir si deve, ma non in macchina sotto la neve, consiglia il buon senso, e non tra Alpi e Pirenei (caso Fabrizio Corona) e non a Cascais (sempre Fabrizio Corona c’era andato, chissà perché, in quel luogo che già vide l’esilio dell’ultimo re d’Italia – luogo non proprio allegrissimo e un po’ fané, con l’ex dimora Savoia che campeggia come albergo a cinque stelle). Fuggire a piedi non si può, d’altronde. E alla fine resta soltanto l’idea – “latitanza, latitanza” – quasi un ritornello. Quasi il remake della famosa canzone di Daniele Silvestri, “La paranza”. Si trattava di latitanza in amore, ma fa lo stesso: “Uomini uomini / c’è ancora una speranza / Prima che un gesto vi rovini l’esistenza / Prima che un giudice vi chiami per l’udienza / Vi suggerisco un cambio di residenza / E poi ci vuole solo un poco di pazienza / Qualche mese e già nessuno nota più l’assenza… E se io latito latito / Mica faccio un illecito / Se non sai dove abito / Se non entro nel merito / se non vado a discapito / Dei miei stessi consimili / Siamo uomini liberi / Siamo uomini liberi”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano