Arriva Matteo, il bambino che si mangia i comunisti
Così è sparita la Ditta
Così, tra la primavera dello scontento bersaniano e l’autunno dell’intronazione renziana, la Ditta sparì. O meglio: cambiò ragione sociale, passò di mano. Chi era alla porta finì dietro la scrivania di comando, chi era al comando fu costretto a scivolare nei corridoi. “La Ditta!”, evocava ed esorcizzava Bersani – confidenzialmente, a volte “La Bocciofila”: ultimo di una gloriosa stirpe, il Romolo Augusto detto Augustolo di chi veniva da lontano e non troppo lontano poi andò, e in diretta streaming infine si arrese. Lì e non oltre arrivò – Bersani che portava l’orgoglio e il peso e infine l’inadempienza di quel lontano venire.
Così, tra la primavera dello scontento bersaniano e l’autunno dell’intronazione renziana, la Ditta sparì. O meglio: cambiò ragione sociale, passò di mano. Chi era alla porta finì dietro la scrivania di comando, chi era al comando fu costretto a scivolare nei corridoi. “La Ditta!”, evocava ed esorcizzava Bersani – confidenzialmente, a volte “La Bocciofila”: ultimo di una gloriosa stirpe, il Romolo Augusto detto Augustolo di chi veniva da lontano e non troppo lontano poi andò, e in diretta streaming infine si arrese. Lì e non oltre arrivò – Bersani che portava l’orgoglio e il peso e infine l’inadempienza di quel lontano venire. La Ditta allora a ogni altra cosa presiedeva: persino al governo, persino al Quirinale, a pubbliche adunate e a riservate contrattazioni. Niente esaltava e dilatava il potere e lo innalzava quanto il chinarsi all’operare nel nome della Ditta, che di modestia e finta sottrazione si ammantava così che la buona causa e la grande forza avessero meglio modo di risaltare – e perciò si conservava finora sacrale memoria che dietro il fumo della sua Turmac e tre sedie e un whisky e la foto seppiata di Gramsci, il potere della Ditta col compagno Berlinguer (e Turmac e whisky a parte, col compagno Togliatti) si elevava molto di più che tra mille corazzieri in alta uniforme. Era tutto: ogni decisione emanava e ad essa ogni decisione si riconduceva. Adesso mani ignote, persino sacrileghe, stanno per posarsi sulla Ditta – come sulla grande casa della Mengstrasse della gloriosa “Ditta Johann Buddenbrook” immaginata da Thomas Mann, su cui nei giorni della decadenza stanno per avventarsi gli odiati oscuri Hagenstrom – “la vita, sapete, spezza qualcosa in noi…”.
Già da parecchi anni peraltro la gloria della Ditta aveva il respiro lungo: per fatica, però, più che per la granitica resistenza che fu – “chi è uno può essere distrutto / ma il Partito non può essere distrutto”. Però passando di mano in mano, in mani sicure sempre restava: mutava il nome, mutava il simbolo, mutavano gli uomini – mai l’essenza, sempre persisteva la calda penombra: anch’essa da lontano veniva. Difficile ormai qualunque resistenza – ché non solo più di lotta dentro il gruppo dirigente si tratta (hanno sempre lottato molto, lì dentro, si sono fraternamente odiati, ma la sacralità dell’unità l’unità della Ditta stessa salvaguardava), ma la stessa fondamentale triade iscritti/militanti/base ha mutato sguardo e prospettiva: e ora applaude e si consegna e fa la ola in feste e piazza allo screanzato giovan Renzi Matteo, appena qualche mese fa ricondotto a scalpitare su Ponte Vecchio. Il fiume che fu impetuosamente comunista, poi di più lento fluire e infine farsi strategicamente e necessariamente carsico tra l’essere democratici-di-sinistra e democratici e stop (sacrificando impetuosità e più spesso ancora sacrificando saggezza: quella che identità e forza consentono), ora è a rischio di totale essiccamento. Ah, i comunisti di una volta! I socialisti, dannati loro e dannato il nome! Socialdemocratici, figurarsi! Solo il tutto e il niente dell’essere democratici – insieme necessità e ovvietà. Democristiani, ecco (a dir di comodo) – e nel farsi destino carsico il loro sembra aver avuto più forza di scavo di quello di chi fu comunista. Affaticata da un ventennio che è stato di epica berlusconiana (anch’essa dentro un tramonto disperato e vociante) e di generosi tentativi di precorrere i giorni, a volte semplicemente di tentare di cavalcarli, la sinistra si è asmaticamente dibattuta tra due citazioni – fino a farne mantra, rosario, sequela: il morettiano “dì qualcosa di sinistra!” (quindici anni fa) e quel titolo di Pintor sulla sicurezza che “non moriremo democristiani” (vent’anni fa), da mutare rapidamente nella più confortevole certezza che soprattutto da berlusconiani non avverrà il trapasso. E nel paradosso dei paradossi, forse, chissà, di certo, da democristiani ora ci salveremo – dicono, le folle di sinistra che applaudono.
E senza scendere nel passato remoto della storia andata – certi innamoramenti andreottiani, la statua del povero Moro con l’Unità infilata in tasca, basta solo tenersi stretti negli anni che hanno preso a correre tra l’assicurazione pintoriana e l’esortazione morettiana. Fu Prodi, democristiano quasi storico, che condusse la sinistra ulivista alla sua prima (e poi seconda) vittoria. E c’è stato già, in anticipo sulla possibile consacrazione di Renzi, un segretario del Pd democristiano, seppur d’emergenza: Dario Franceschini, che ora pubblica giravolta da Bersani a Renzi ha compiuto (e in televisione, quando una giornalista parlava di “un ex segretario che ha perso tutto”, a Bersani alludendo, rapido Gianni Cuperlo si è maliziosamente inserito: “Scusa, parli di Franceschini?”). E per il Quirinale, prima della necessaria opportuna riconferma di Napolitano (quasi sacrale Eccezione che la Regola non si conferma, e comunque non è, né sarà né vuol essere, il compañero presidente che qualcuno sognava), questa primavera si tentò, male e con dissennatezza, sia con Prodi sia con Franco Marini – nobilissimo sindacalista biancofiore. Cristiano, seppur non democristiano, figura pure il direttore dell’Unità, il bravo Claudio Sardo. E capo di quel governo per cui Bersani perse cappa e Ditta, ora è Enrico Letta. Soprattutto verso il cuore della Ditta vola, mediaticamente innalzato e dai sondaggi confortato, Renzi. E si legge che Rosy Bindi un altro a caratura democratico-cristiana, Filippo Andreatta, vorrebbe contrapporre. Sono stati, questi mesi, nel tentativo di fare argine alla tempesta perfetta che si sentiva minacciosa arrivare, mesi di auto-spoliazione, di autodafé – ad avallare chiacchiere di/sulla casta, rumoreggiare di sette di presunti casti, inchinarsi a disposizioni giornalistiche. Così Bersani, senza infine salvare né la capra del governo né i cavoli della Ditta, alla rottamazione evocata condannò i due massimi (e tra loro rissosi) esponenti della stessa sua storia: D’Alema e Veltroni. Fu quasi la consegna alle truppe assedianti della chiavi della sua cittadella. “Essere stato un militante della sinistra – ha sibilato il primo – era considerato reato grave, anche dentro il Pd”. E con più malizia: “Hanno fatto fuori anche il povero Veltroni, che ha sempre detto di non essere mai stato comunista…”. Come ha scritto Stefano Menichini, sulla renziana Europa, “per vincere oggi bisogna passare col tritasassi sul Pd di ieri”. Tabula rasa.
Si vantava D’Alema, di non aver mai perso un congresso – ora forse questa sorte gli toccherà: socio di minoranza, l’ingresso padronale della Mengstrasse del Pd riservato agli altri. E quella sua storia che un universo politico governò, costretta a una sorta di penoso nicodemismo che già pare d’intravedere: universo che ha preso a ruotare in senso opposto a come si era sempre mosso, il suo asse si è spostato. E le lacrime di Violante, “mi hanno ferito”, davanti ai militanti che lo contestano – l’indubitabile compagno Violante: persino sospettato di intesa con l’orrido Berlusconi – hanno valore di sigillo e di trapasso di senso: come se più della sua storia valesse un editoriale di Travaglio. Di ciò pare fatto il cappio che politicamente spinge alla dissolvenza i Buddenbrook del Pd: la resistenza
democratico/cristiana; l’essersi fatti tanto deboli da cedere alle minute forze, alle minutaglie sociali che una volta si governavano col solo sguardo. Un assecondare capricci e fanatismi, rottamazioni e santificazioni, seguire la scia anziché determinare l’onda. E ognuno sul corpo indebolito preme, assilla, dispone. Proprio la formazione del governo Letta ha fatto esplodere il tema del morire democristiani e del farsi ombra della presenza ex comunista. Con la sola possibile speranza: “Si dovrà ammettere che sarà proprio grazie alla Dc, invece, se alla fine il Pci sopravviverà” (Marcello Sorgi, la Stampa).
Gongola Europa: “La verità caso mai è che la scuola democristiana possiede, e tramanda, linguaggi (Renzi) e tecniche (Enrico Letta) che quella comunista non ha mai avuto”. Certifica Michele Serra su Repubblica: “Di tutto il resto – quel cospicuo resto che è la sinistra di Berlinguer e di Occhetto, della Bolognina e della ‘svolta maggioritaria’ di Veltroni al Lingotto, dell’Ulivo, dei sindacati e dei movimenti di massa, dei due milioni di persone con Cofferati al Circo Massimo, dei cortei infiniti e delle infinite attese di ‘cambiamento’ – non rimane, nel consociativismo lettiano, alcuna presenza riconoscibile e significativa”. Sull’Unità, il professor Michele Prospero: “C’è il timore che si perda ogni traccia della sinistra”. Paolo Franchi sul Corriere: “Il Pd si scopre democristiano”. Angelo Panebianco, sempre sul Corriere: “Un partito senza leader”. Specialmente di sinistra.
Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci – “sono un vecchio comunista italiano togliattiano e nient’altro” – sulla faccenda ha scritto un libro: “Moriremo democristiani?” (Salerno editrice). Non ha nostalgie, se gli si chiede della dissoluzione dell’antica sinistra dentro il Pd. “Guardo tutto questo con molta freddezza e atteggiamento analitico. Non mi appassiona la storia su che fine hanno fatto: ognuno fa la fine che si merita. Se poi si guarda alla storia del partito degli ultimi venticinque anni, continuità apicale con continue fratture interne e incapacità di riprodursi, non sorprende uno tsunami come quello che si sta verificando”.
In realtà, per Vacca, “il Pd ha mancato le sue funzioni fondamentali dalla fine dell’estate scorsa”. Ma perché le primarie prima incoronano Bersani e adesso gli applausi dei militanti sono per Renzi? “Risentono del pasticcio dell’insieme delle leggi elettorali degli ultimi vent’anni. Tutte a indirizzo plebiscitario. Tutte centrate sull’elezione diretta del capo. L’orientamento è sempre quello: chi ti fa vincere. Così gli stessi corpi oscillano in un senso o nell’altro”.
E pure Vacca paventa l’esito paradossale: “Con le elezioni europee del prossimo anno, il compimento dell’adesione del Pd al Pse sarà pilotato dai cattolici, democristiani ed ex democristiani”. Secondo Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità, “questa dirigenza semplicemente ha perso il suo popolo”. Dice che Bersani è stato “il Gorbaciov della vicenda ultima del Pci, ha portato quella storia alla sconfitta più imprevista e campale. Ha promesso il partito radicato e non c’è stato. Ha promesso il combattimento e non ha combattuto. Quando vengono accantonati D’Alema e Veltroni, viene accantonata un’intera storia. E nessuno nel partito li ha difesi. Bersani ha fatto la scelta furbesca di consegnare agli avversari queste due teste. Ma ha consegnato insieme un’intera vicenda storica, oltre alla sua stessa testa”.
Emanuele Macaluso, gran vecchio, insieme a Napolitano, di quella che fu la storia riformista del Pci – già quando il Pd vide la luce scrisse un libro intitolato “Al capolinea” (Feltrinelli). E proprio il riformista Macaluso accusa di cupidigia di governo ciò che è succeduto dal Pci fino al Pd. “Pensa a quei dirigenti: a parte Occhetto, sono tutti, ma proprio tutti, andati al governo. Bersani è stato pure candidato a Palazzo Chigi. Una vocazione. Di costruire il partito se ne sono fottuti tutti. D’Alema criticava Occhetto, poi lui è arrivato, ha spento la luce, ci ha messo Minniti e Folena e ha fatto altro. Con Veltroni, stessa storia. Che cosa è successo nel Pd? Che c’è solo la conquista del governo, del comune, della regione… Il partito è solo transito, trampolino per altro. E in questo, gli ex dicì sono più attrezzati degli ex comunisti. La ventata per Renzi? Semplicemente perché adesso appare quello che fa vincere. Anche per questo vuole il partito: sa che se non ha il partito, difficilmente lo faranno leader”. Nostalgia del Pci? Scatta Macaluso: “Solo un cretino può averla, e io non sono un cretino!”. Certo, poteva essere altro, racconta. Come quando non fu candidato nel 2001 Giuliano Amato, capo del governo di centrosinistra, e si preferì Rutelli. “Ricordo una discussione, qui a casa mia. C’erano Amato e Napolitano. Pensavamo che Giuliano dovesse essere il candidato: se vinci bene, se non vinci fai il leader della sinistra, si fa il partito socialista. E invece…”.
Gianni Cuperlo è il candidato esposto sulla linea dove sale l’alta marea di Renzi. Lui dentro la storia dell’ex Pci c’è, però scuote la testa davanti alle polemiche sorte dopo la formazione del governo Letta. “La questione non riguarda tanto i vecchi comunisti di una volta, ma le classi dirigenti che tutti i partiti sapevano esprimere. Una maggiore autonomia della politica, saper leggere la realtà, cogliere i segni. Capacità di lotta e capacità di rappresentanza. Di questo ultimo ventennio, tolta la nostra esperienza e i nostri auspici, il quadro che appare è quello di un paese precario: nei simboli, nelle sigle, nei governi”. Dice Cuperlo che forze populiste, antisistema, si sono manifestate in tutta Europa, ma solo in Italia con questa persistenza. C’è stata una deriva plebiscitaria, spiega, “a destra come nel campo del centrosinistra, che ha prodotto dei danni. E la provocazione di Ferrara sul Foglio che invoca ‘i comunisti d’una volta’ evoca forse la saggezza delle classi politiche di un’altra epoca. Non solo i comunisti, ma tutta la Seconda Repubblica ha fallito i suoi obiettivi”. E detto questo? “Abbiamo sempre pensato a partiti nazionali, ma oggi la dimensione è l’Europa, è dentro l’Europa che dovrà cominciare ad agire la nostra politica. Già l’anno prossimo, ad esempio, quando tutti insieme eleggeremo Martin Schulz”. Resta la disputa tra mondo ex Dc e mondo ex Pci… Cuperlo alza le spalle: “C’è la sinistra di matrice cattolica, la sinistra laica, quella ambientalista: tutte queste sinistre non sono una componente minoritaria del Pd, ma sono il Pd. E c’è una sinistra Dc non a caso parte di questo progetto. Ma senza la sinistra, senza i principi e i valori della sinistra, il Pd non c’è, non è possibile. L’idea di pensare un partito che si separa da sé è la negazione in radice di questo progetto”.
Cuperlo ama una citazione delle scrittore Jean-Michel Guenassia: “Quello che per loro contava nella Terra promessa non era la terra. Era la Promessa”. Un po’ come il viaggio verso Itaca di Kavafis. Viaggio – superando Polifemo. Promessa – superando Renzi, “il bambino che mangiava i comunisti”: perciò stomaco, oltre che resistenza politica, davvero di ferro.
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